Papa – Un mercoledi piovoso ha accompagnati i fedeli nell’appuntamento con l’udienza generale del Papa.
Papa Francesco ha dedicato la catechesi dell’udienza generale alla preghiera del “Padre nostro” e al momento nel quale chiediamo a Dio “rimetti i nostri debiti”. Siamo debitori perchè “la vita è una grazia” e perché se amiamo “è grazie a Dio che ci ha amati per primo”Catechesi sul “Padre nostro”.
“Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La giornata non è tanto bella, ma buongiorno lo stesso!
Dopo aver chiesto a Dio il pane di ogni giorno, la preghiera del “Padre nostro” entra nel campo delle nostre relazioni con gli altri. E Gesù ci insegna a chiedere al Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Come abbiamo bisogno del pane, così abbiamo bisogno del perdono. E questo, ogni giorno.
Il cristiano che prega chiede anzitutto a Dio che vengano rimessi i suoi debiti, cioè i suoi peccati, le cose brutte che fa. Questa è la prima verità di ogni preghiera: fossimo anche persone perfette, fossimo anche dei santi cristallini che non deflettono mai da una vita di bene, restiamo sempre dei figli che al Padre devono tutto. L’atteggiamento più pericoloso di ogni vita cristiana qual è? E’ l’orgoglio. È l’atteggiamento di chi si pone davanti a Dio pensando di avere sempre i conti in ordine con Lui: l’orgoglioso crede che ha tutto al suo posto. Come quel fariseo della parabola, che nel tempio pensa di pregare ma in realtà loda sé stesso davanti a Dio: “Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come gli altri”. E la gente che si sente perfetta, la gente che critica gli altri, è gente orgogliosa. Nessuno di noi è perfetto, nessuno. Al contrario il pubblicano, che era dietro, nel tempio, un peccatore disprezzato da tutti, si ferma sulla soglia del tempio, e non si sente degno di entrare, e si affida alla misericordia di Dio. E Gesù commenta: «Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,14), cioè perdonato, salvato. Perché? Perché non era orgoglioso, perché riconosceva i suoi limiti e i suoi peccati.
Ci sono peccati che si vedono e peccati che non si vedono. Ci sono peccati eclatanti che fanno rumore, ma ci sono anche peccati subdoli, che si annidano nel cuore senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Il peggiore di questi è la superbia che può contagiare anche le persone che vivono una vita religiosa intensa. C’era una volta un convento di suore, nell’anno 1600-1700, famoso, al tempo del giansenismo: erano perfettissime e si diceva di loro che fossero purissime come gli angeli, ma superbe come i demoni. E’ una cosa brutta. Il peccato divide la fraternità, il peccato ci fa presumere di essere migliori degli altri, il peccato ci fa credere che siamo simili a Dio.
E invece davanti a Dio siamo tutti peccatori e abbiamo motivo di batterci il petto – tutti! – come quel pubblicano al tempio. San Giovanni, nella sua prima Lettera, scrive: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv 1,8). Se tu vuoi ingannare te stesso, dì che non hai peccato: così ti stai ingannando.
Siamo debitori anzitutto perché in questa vita abbiamo ricevuto tanto: l’esistenza, un padre e una madre, l’amicizia, le meraviglie del creato… Anche se a tutti capita di attraversare giorni difficili, dobbiamo sempre ricordarci che la vita è una grazia, è il miracolo che Dio ha estratto dal nulla.
In secondo luogo siamo debitori perché, anche se riusciamo ad amare, nessuno di noi è capace di farlo con le sue sole forze. L’amore vero è quando possiamo amare, ma con la grazia di Dio. Nessuno di noi brilla di luce propria. C’è quello che i teologi antichi chiamavano un “mysterium lunae” non solo nell’identità della Chiesa, ma anche nella storia di ciascuno di noi. Cosa significa, questo “mysterium lunae”? Che è come la luna, che non ha luce propria: riflette la luce del sole. Anche noi, non abbiamo luce propria: la luce che abbiamo è un riflesso della grazia di Dio, della luce di Dio. Se ami è perché qualcuno, all’esterno di te, ti ha sorriso quando eri un bambino, insegnandoti a rispondere con un sorriso. Se ami è perché qualcuno accanto a te ti ha risvegliato all’amore, facendoti comprendere come in esso risiede il senso dell’esistenza.
Proviamo ad ascoltare la storia di qualche persona che ha sbagliato: un carcerato, un condannato, un drogato … conosciamo tanta gente che sbaglia nella vita. Fatta salva la responsabilità, che è sempre personale, ti domandi qualche volta chi debba essere incolpato dei suoi sbagli, se solo la sua coscienza, o la storia di odio e di abbandono che qualcuno si porta dietro.
E questo è il mistero della luna: amiamo anzitutto perché siamo stati amati, perdoniamo perché siamo stati perdonati. E se qualcuno non è stato illuminato dalla luce del sole, diventa gelido come il terreno d’inverno.
Come non riconoscere, nella catena d’amore che ci precede, anche la presenza provvidente dell’amore di Dio? Nessuno di noi ama Dio quanto Lui ha amato noi. Basta mettersi davanti a un crocifisso per cogliere la sproporzione: Egli ci ha amato e sempre ci ama per primo.
Preghiamo dunque: Signore, anche il più santo in mezzo a noi non cessa di essere tuo debitore. O Padre, abbi pietà di tutti noi!
C’è una parabola, quella del “Re buono e del servo spietato” (Mt 18,21-35), che aiuta a capire il senso di questa espressione.
Nella parabola il padrone impone al servo di pagare il proprio debito
Il racconto mira a evidenziare che in nessun caso un simile debito può essere onorato dal servo, che lo supplica disperatamente.
La soluzione inaspettata viene dalla compassione che muove l’agire del padrone. A un primo ordine di vendere «lui con la moglie, i figli e quanto possedeva» così da saldare il debito, fa invece seguito la sorprendente decisione di rimandarlo con il debito interamente condonato.
La remissione di un debito così grande dovrebbe tradursi in un qualche atteggiamento di gratitudine e di misericordia da parte di chi ne beneficia. Ma ciò non avviene: «Appena uscito» il servo si imbatte in un compagno debitore a sua volta di cento denari e da lui pretende il saldo del debito.
La domanda di perdono dei debiti contenuta nel Padre Nostro va compresa sullo sfondo dell’insegnamento della parabola. Dapprima una supplica: «Rimetti a noi i nostri debiti», quindi una subordinata «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». La supplica fa riferimento all’implorazione del servo davanti al padrone, la subordinata evoca il comportamento che il servo avrebbe dovuto tenere con il compagno debitore: quello suggerito dalla compassione del re nei suoi riguardi.
Quando recita il Padre Nostro, il cristiano assume dunque il punto di vista del re della parabola, prega il «Padre celeste», che è anche «nostro», in sintonia con il suo cuore e la sua volontà. È un «servo» (syndoulos) al suo servizio entro una comunità che ha nella fraternità il suo perno costitutivo e la sua nota distintiva. Il fatto che il perdono debba essere richiesto nella preghiera implica un atteggiamento timorato (non timoroso!): poiché il debito è enorme, il cristiano sa di essere un servo insolvente.
Proprio perchè la preghiera del Padre Nostro è insegnata da Cristo, è attraverso le sue parole che la domanda del credente sale al Padre. Così come è attraverso di Lui che il cuore compassionevole del Padre si è manifestato oltre ogni misura sul legno ella croce. È ancora attraverso di Lui che il perdono è donato e muove i discepoli a riconoscersi fratelli: «Tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18).
Nei saluti in italiano, il Pontefice ricorda che “stiamo concludendo il cammino di Quaresima. La luce e la consolazione della Pasqua del Signore sono ormai vicine”. Prepariamoci, è l’invito finale del Papa “a far nostri i sentimenti di Cristo e a vivere in pienezza i giorni della sua passione e glorificazione”.