TAMARO – Essendo nata alla metà del secolo scorso, appartengo alla generazione per cui la cultura, quella con la C maiuscola, era appannaggio della Francia. A scuola studiavamo il francese come seconda lingua e, nell’adolescenza, le poesie che imparavamo a memoria e che ci inebriavano erano quelle di Rimbaud e di Baudelaire, i grandi maestri dell’inquietudine. Il viaggio iniziatico allora non era a Londra ma a Parigi. In cima ai nostri pensieri c’era la visita al Jeu de Paume, il museo degli Impressionisti, la lenta processione nelle sale del Louvre, l’indugiare tra i bouquinistes del Lungosenna. Con questa memoria personale e generazionale, mi sono preparata ad assistere ai giochi olimpici.
Dato che ero fuori a cena, mi sono collegata tardi e la prima immagine che ho visto è stata quella di un uomo barbuto fasciato in una guepière sadomaso che avanzava su una passerella seguito via via da altri artisti fluidi che si dimenavano sopra l’effige luminosa della Comunità Europea. Ai lati, altri figuranti assistevano a queste danze tribali, tra i quali spiccava una donna oversize vestita di blu con una raggera in testa che la faceva somigliare a una gru coronata.
Mi sono chiesta che cosa c’entrasse tutto questo con lo spirito olimpico e quanto fosse opportuna questa esibizione di pessimo gusto, dato che era un programma in mondovisione e si suppone ci fossero spettatori minorenni e altri appartenenti a mondi culturali non ancora assuefatti allo spirito del tempo e per i quali queste immagini avrebbero potuto provocare irritazione e turbamento.
Annoiata da tanta offensiva e ideologica banalità, ho spento e sono andata a dormire. Solo il giorno dopo ho scoperto che quell’allegra tavolata era stata interpretata da molti come una rappresentazione moderna dell’Ultima Cena e che, in quanto tale, aveva già suscitato proteste da diverse parti.
L’ideatore della cerimonia si è subito premurato a spiegare che il suo aveva voluto essere un omaggio a un banchetto pagano degli dei dell’Olimpo stimolato da un quadro fiammingo del 1600, a sua volta ispirato dal Cenacolo leonardesco. Ora, a parte il fatto che una rappresentazione degli dei dell’Olimpo mi sarebbe sembrata più consona alle Olimpiadi di Atene, rimane la constatazione che sulla testa della signora oversize a centrotavola ci fosse un’aureola dorata, aureola che rievoca inevitabilmente la luce che irradia dagli ostensori eucaristici.
Quando ho sentito il regista parlare di audacia, mi è tornata in mente la goliardia. Avevo uno zio che da giovane era stato un grande goliardo e, con un gruppo di amici, aveva inscenato una processione mariana molto blasfema. Per questa ragione era stato espulso da tutte le università del paese. All’epoca la società era ancora legata al detto popolare: «Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi». Per capire la realtà bisogna andare a fondo delle parole. Da dove viene il termine «goliardo»? Deriva direttamente dal personaggio biblico di Golia perché come dice il Dizionario Etimologico Zanichelli: «Nel Medioevo la figura del gigante era diventata un personaggio leggendario, simboleggiante Satana e tutti i vizi. E in quanto tale protettore dei clerici ribaldi». I chierici vaganti erano giovani che avevano avuto accesso agli studi e sentendosi superiori si divertivano a deridere i sentimenti del popolo. Tutt’ora la goliardia è legata all’ambiente universitario ed è diffusa da studenti che non hanno ancora assunto la responsabilità della vita sulle proprie spalle.
In un paese che ha dato i natali a Rimbaud, a Matisse, a Mallarmé, a Proust il fatto che questa goliardica passerella venga difesa in quanto arte è imbarazzante, ma quello che è ancora più imbarazzante è leggere le giustificazioni a posteriori degli ideatori della cerimonia. Se io tiro un sacco di spazzatura addosso a qualcuno, penso evidentemente di avere le mie ragioni e dunque rivendico con orgoglio l’azione fatta. Ma se lo lancio e dico: «scusate vi è arrivata addosso perché il vento è cambiato, non era mia intenzione aggredirvi», dimostro di essere quello che con un termine ormai desueto ma molto bello si definisce «pusillanime».
La Francia avrebbe potuto dire: «Sì, abbiamo fatto questo perché per noi l’unica religione è la laicità. E la nostra missione è dissacrare tutto ciò che persone comuni continuano a considerare intoccabile, rinunciando alla loro libertà». Non a caso, Rachida Dati, il ministro della cultura, si è affrettata a dichiarare che loro, in quanto libertari, rispettano tutte le credenze delle persone. Non c’è un fondo di disprezzo nel definire credenze le grandi religioni? Si può anche credere in un amuleto, nei fondi di caffè, nei fantasmi o nel potere taumaturgico delle piramidi di cristallo. Nel mondo ci sono 2 miliardi e 400 mila persone di «credenza» cristiana, 2 miliardi e 100 mila, in crescita, di «credenza» islamica, e 15 milioni di «credenza» ebraica, soltanto per restare all’interno delle credenze abramitiche.
Malgrado la rapida scristianizzazione dell’Occidente, tra questi miliardi permangono ancora persone profondamente convinte della loro credenza, altrimenti chiamata fede. Si può anche pensare che, fra tutti gli atleti presenti alle olimpiadi, ce ne sia un certo numero di religioni diverse e che anche loro si siano sentiti offesi dallo spirito dissacrante della festa. Thomas Jolly, l’ideatore della cerimonia dell’Apertura dei Giochi, ha affermato che non aveva voluto offendere nessuno, che il suo voleva essere uno spettacolo all’insegna «della benevolenza, delle generosità e dell’inclusione». Quando sento la parola «inclusione» la prima sensazione che mi viene in mente è l’angoscia suscitata dall’immagine di quei poveri insetti rimasti per sempre intrappolati nell’ambra. Inclusione dunque vuol dire essere chiusi dentro, inglobati in una realtà che ci imprigiona. Non a caso inclusione e reclusione sono termini particolarmente vicini.
La rappresentazione fintamente audace di Parigi è il sigillo di una società che ha totalmente perso la concezione del bene e del male e si è smarrita in una pericolosa deriva moralistica. Non essendoci il male, non è più necessaria alcuna forza per combatterlo. Bastano i buoni i sentimenti – l’inclusione, la tolleranza, la benevolenza appunto – ma i buoni sentimenti senza una radice profonda nel bene sono una realtà evanescente. In questi anni abbiamo assistito alla loro trasformazione da innocue esortazioni da vecchia maestra – siate buoni – all’esercizio di una tirannia coercitiva sempre più incalzante. E l’abominevole parto del linguaggio politicamente corretto è un frutto di questa trasformazione. Dobbiamo essere tolleranti, dobbiamo essere inclusivi, dobbiamo adeguarci alla fluidità per non essere estromessi dal consesso della nuova civiltà. Con la scomparsa del bene e del male, è stato celebrato il funerale dell’etica. Non dobbiamo più caricarci sulle spalle il pesante fardello del libero arbitrio e della coscienza, ma farci soltanto trascinare da questa informe marea pagana.
«In Francia abbiamo il diritto di amare chi vogliamo e come vogliamo» ha ribadito Jolly per dare un sigillo alla sua audacia, «di credere o di non credere» come se stesse parlando a una platea di arretrati reazionari e forse dimentico che ormai in tutto mondo occidentale, proprio grazie all’originale libertà concessa dal cristianesimo, è possibile amare chi si vuole, come si vuole e credere in quello che si vuole senza incorrere in alcuna persecuzione. Altro che laicità. L’inclusione è in tutto e per tutto una nuova religione, con i suoi riti, i suoi diktat e le sue squadre di sacerdoti moralisti in grado di colpire e distruggere tutti coloro che non si adeguano.
Siamo in molti ormai ad essere esasperati da questo nuovo culto. Culto imposto dal mondo anglosassone e totalmente estraneo alla nostra civiltà mediterranea, nel quale non ci riconosciamo, al quale non vogliamo prostrarci e del quale siamo in grado di vedere i danni prodotti sui bambini e sui giovani, convinti ormai che la loro identità di esseri umani non sia determinata dal dialogo costante tra le mente e il cuore, ma da quello che hanno, che non hanno o che vorrebbero avere tra le gambe.
L’asticella sale di anno in anno e questo dovrebbe allarmare tutte le persone davvero laiche, altrimenti prestissimo arriverà un giorno in cui mi sveglierò convinta di essere un pastore tedesco – ho sempre sognato di essere Rintintin – e pretenderò che questo venga trascritto sui documenti. E quando, con questi, mi presenterò alle mostre canine e non mi faranno partecipare, griderò all’esclusione. Chi può negarmi il diritto di essere cane? La realtà c’est moi.