Papa Luciani raccontato da suor Marin

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Papa – “Basta, basta, ho già parlato tanto”. Suor Margherita Marin cerca di sfuggire alle telecamere e ai registratori dei giornalisti che, in Sala Stampa vaticana, hanno partecipato alla conferenza di presentazione della beatificazione di Giovanni Paolo I. Quel Papa che lei, insieme ad altre tre suore di Maria Bambina ha servito nell’appartamento pontificio lungo i 33 giorni di pontificato. Fino, cioè, a quel mattino del 28 settembre 1978, quando lei per prima, insieme alla suora infermiera Vincenza Taffarel, trovò il corpo senza vita del Pontefice che stranamente non era sceso a ritirare il caffè che loro gli facevano trovare pronto ogni mattina.

Suor Margherita, 81 anni, è l’unica religiosa vivente di quel periodo. Nei suoi occhi, sotto il velo che incornicia un viso che conserva nei suoi tratti di donna anziana lo sguardo e la semplicità dei bambini, sono impressi i frammenti di quello che fu un evento storico per la Chiesa e per il mondo. Come non chiederle, nonostante la ricca testimonianza offerta in conferenza stampa, ancora dettagli su ciò che ha visto quel mattino, quali sensazioni ha provato, quali pensieri le sono passati per la testa? Lei prova a schermirsi, ma vuole comunque condividere “il grande dolore” che le ha suscitato la visione di un Papa “steso sul letto, con le luci accese e un foglio tra le dita, gli occhiali e sorrideva” che fino a poche ore prima pronunciava proprio a lei l’ultima sua frase. “Ricordo il saluto sulla porta col sorriso. Le ultime parole le ha dette a me che stavo preparando la Messa: ‘Domani ci vediamo, se il Signore vuole ancora, e celebriamo la Messa assieme’”.

“Eravamo tutte protese verso il Papa che era venuto a mancare”, racconta, “in quei momenti c’è una prassi da seguire, c’era molto confusione. Noi ci siamo guardate e dette: ci ha lasciato così, troppo in fretta, mamma mia così presto… Non si sapeva neppure cosa dire, è stato un momento drammatico”.

La suora ricorda la giornata precedente: “L’ultimo giorno stava scrivendo un documento sui vescovi, non è uscito dall’appartamento. Solo al mattino, il pomeriggio mi disse: suora sto lavorando. Camminava intorno, dove io stavo stirando. Si è fermato a dire di non lavorare troppo, in dialetto veneto. Si preoccupava che si lavorava troppo per lui… Ma era sereno sempre, sempre, sempre”.

Con lei e le altre suore, dice, il rapporto era “semplice, buono, bello”. “Non era preoccupato per niente, dava coraggio anche a noi. Io semmai ero preoccupata di stare in quell’appartamento, dove non ci ero mai stata. Mi dicevo: sarò capace? E lui incoraggiava tutti”.

“L’infarto è stato fulminante”, ricorda ancora suor Margherita, confermando quindi le cause della morte come ricostruite da carte, analisi e referti medici raccolti durante il processo per la causa di canonizzazione e resi pubblici in italiano e inglese. Tutto lo storytelling che ha accompagnato il decesso di Luciani, per la religiosa sono “speculazioni”. “Le ho lasciate da parte, ho sempre detto la verità verrà fuori. Ero tranquilla… Certo, mi spiaceva perché non è bello sentire certe cose. Ma tante ho evitato di leggerle, di sentirle, la verità viene fuori. Ero sicura”. Ma perché così tante speculazioni su una morte che la documentazione medica accerta come naturale? “Ah, beh, perché c’è sempre lo zampino del diavolo!”.

Quale eredità ha lasciato alla Chiesa Albino Luciani? “Tante…”. E a lei personalmente? “Di vivere come lui, in umiltà e in preghiera. Ci chiedeva sempre di pregare. E io sono in dovere di pregare per tutti e di chiedere agli altri di farlo. Qualche grazia qualcuno mi ha detto di averla ricevuta. Io la sua mano me la sento ancora vicina”.




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