Papa Giovanni Paolo I, Albino Luciani è beato

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Papa – Auctoritate nostra Apostolica facultatem, facimus, ut venerabilis servus Dei Ioannes Paulus I, papa, beati nomine in posterum appellatur…

“Con la nostra autorità apostolica concediamo che il venerabile servo di Dio Giovanni Paolo I, Papa, d’ora in poi sia chiamato beato”: con questa formula Francesco eleva agli onori degli altari Albino Luciani. Dispone che lo si celebri ogni anno il 26 agosto, a ricordo del giorno in cui, nel 1978, venne eletto 263.mo successore di Pietro. È una celebrazione bagnata dalla pioggia quella della beatificazione del Papa del sorriso, che Francesco presiede in piazza San Pietro con oltre 500 concelebranti, fra cardinali, vescovi, sacerdoti e diaconi. Ma nell’atmosfera grigia c’è l’arcobaleno degli ombrelli dei 25mila fedeli raccolti sul sagrato della Basilica Vaticana, mentre il canto di giubilo dell’Alleluia accompagna il momento più toccante: nella loggia centrale della Basilica Vaticana viene svelato quell’indimenticabile volto dai tratti gentili e dall’espressione gioiosa. Con la candida veste talare, ritratto dall’artista cinese Yan Zhang, eccolo Giovanni Paolo I, con quel suo caratteristico sorriso che sembra abbracciare teneramente la piazza.

Albino Luciani, che da vescovo aveva scelto come motto la parola humilitas, presa in prestito da San Carlo Borromeo e da Sant’Agostino, che sentiva particolarmente vicino, ora si può venerare con pubblico culto. All’altare viene portata una sua reliquia: uno scritto autografo su un foglio bianco risalente al 1956 in cui si legge una riflessione spirituale sulle tre virtù teologali – fede, speranza e carità – che richiama il Magistero delle sue udienze generali del 13, 20 e 27 settembre 1978. A custodirla un reliquiario, opera dello scultore Franco Murer, con un basamento in pietra proveniente da Canale d’Agordo, paese natale di Giovanni Paolo I, sormontato da una croce intagliata su legno di un noce abbattuto dalla tempesta “Vaia”, nel Triveneto, nella notte tra il 29 e il 30 ottobre 2018.

Viene intonato il Gloria e la giornata uggiosa non scalfisce il clima di preghiera e di raccoglimento di fedeli e pellegrini. Fra le delegazioni ufficiali presenti quella dell’Italia, con il presidente Sergio Mattarella, e quella della Cina (Taiwan). La pioggia continua a cadere durante la Liturgia della Parola, poi, mentre Papa Francesco tiene la sua predica comincia a spiovere. Quel sorriso di Giovanni Paolo I su piazza San Pietro, rassicurante e benevolo, e dal quale sembra irradiarsi luce, conforta, trasmette speranza. E in un angolo di cielo si fa spazio l’azzurro.

Nella sua omelia Francesco spiega che Papa Luciani ha vissuto “nella gioia del Vangelo, senza compromessi, amando fino alla fine”, e “ha incarnato la povertà del discepolo, che non è solo distaccarsi dai beni materiali, ma soprattutto vincere la tentazione di mettere il proprio io al centro e cercare la propria gloria”. È stato un pastore mite e umile, seguendo l’esempio di Gesù, e si considerava “come la polvere su cui Dio si era degnato di scrivere”. Il Papa ricorda quel suo invito ad essere umili, come raccomandava Cristo, “anche se avete fatto delle grandi cose – affermava – dite: siamo servi inutili”.

Con il sorriso Papa Luciani è riuscito a trasmettere la bontà del Signore. È bella una Chiesa con il volto lieto, il volto sereno, il volto sorridente, una Chiesa che non chiude mai le porte, che non inasprisce i cuori, che non si lamenta e non cova risentimento, non è arrabbiata – una Chiesa non arrabbiata – non è insofferente, non si presenta in modo arcigno, non soffre di nostalgie del passato cadendo nell’indietrismo.

Papa Francesco inserisce il ritratto di Giovanni Paolo I commentando il Vangelo odierno, che narra di una folla numerosa che seguiva Gesù. A questa gente Cristo “fa un discorso poco attraente e molto esigente: non può essere suo discepolo chi non lo ama più dei propri cari, chi non porta la sua croce, chi non si distacca dai beni terreni”. C’è da immaginare, osserva il Pontefice, “che molti siano stati affascinati dalle sue parole e stupiti dai gesti che ha compiuto; e, quindi, avranno visto in Lui una speranza per il loro futuro”. È quello che “capita anche oggi: specialmente nei momenti di crisi personale e sociale”, “quando “diventiamo più vulnerabili”. “Ci affidiamo a chi con destrezza e furbizia”, fa notare Francesco, “approfittando delle paure della società”, promette che risolverà i problemi, “mentre in realtà vuole accrescere il proprio gradimento e il proprio potere, la propria figura, la propria capacità di avere le cose in pugno”.

Lo stile di Dio è diverso da questa gente, perché Egli non strumentalizza i nostri bisogni, non usa mai le nostre debolezze per accrescere sé stesso. A Lui, che non vuole sedurci con l’inganno e non vuole distribuire gioie a buon mercato, non interessano le folle oceaniche. Non ha il culto dei numeri, non cerca il consenso, non è un idolatra del successo personale. Al contrario, sembra preoccuparsi quando la gente lo segue con euforia e facili entusiasmi. Così, invece di lasciarsi attrarre dal fascino della popolarità – perché la popolarità affascina -, invece di lasciarsi attrarre dal fascino della popolarità, chiede a ciascuno di discernere con attenzione le motivazioni per cui lo segue e le conseguenze che ciò comporta.

Molti di quelli che seguivano Gesù forse vedevano in lui “un capo che li avrebbe liberati dai nemici”, prosegue Francesco, “che avrebbe conquistato il potere” per poi spartirlo, o “uno che, facendo miracoli, avrebbe risolto i problemi della fame e delle malattie”.

Si può andare dietro al Signore, infatti, per varie ragioni e alcune, dobbiamo riconoscerlo, sono mondane: dietro una perfetta apparenza religiosa si può nascondere la mera soddisfazione dei propri bisogni, la ricerca del prestigio personale, il desiderio di avere un ruolo, di tenere le cose sotto controllo, la brama di occupare spazi e di ottenere privilegi, l’aspirazione a ricevere riconoscimenti e altro ancora. Questo succede oggi fra i cristiani. Ma questo non è lo stile di Gesù. E non può essere lo stile del discepolo e della Chiesa. Se qualcuno segue Gesù con questi interessi personali, ha sbagliato strada.

Ma Gesù dice apertamente che seguirlo “significa anche ‘portare la croce’: come Lui, farsi carico dei pesi propri e dei pesi degli altri, fare della vita un dono, non un possesso, spenderla imitando” il suo amore generoso e misericordioso per noi. Sono “scelte che impegnano la totalità dell’esistenza”, chiarisce il Papa, e per questo Gesù invita a non anteporre nulla a questo amore, né “gli affetti più cari” né “i beni più grandi”. E per questo occorre “guardare a Lui più che a noi stessi, imparare l’amore, attingerlo dal Crocifisso”, lì dove esso “si dona fino alla fine, senza misura e senza confini”. Perchè “la misura dell’amore è amare senza misura”. Francesco attinge agli insegnamenti di Papa Luciani per far comprendere che l’amore di Dio per gli uomini “non si eclissa mai dalla nostra vita, risplende su di noi e illumina anche le notti più oscure”, Giovanni Paolo I diceva infatti che “siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile”.

E allora, guardando al Crocifisso, siamo chiamati all’altezza di quell’amore: a purificarci dalle nostre idee distorte su Dio e dalle nostre chiusure, ad amare Lui e gli altri, nella Chiesa e nella società, anche coloro che non la pensano come noi, persino i nemici. Amare: anche se costa la croce del sacrificio, del silenzio, dell’incomprensione, della solitudine, dell’essere ostacolati e perseguitati. Amare così, anche a questo prezzo, perché – diceva ancora il beato Giovanni Paolo I – se vuoi baciare Gesù crocifisso, “non puoi fare a meno di piegarti sulla croce e lasciarti pungere da qualche spina della corona, che è sul capo del Signore”.

Occorre puntare in alto, rischiare, non accontentarsi “di una fede all’acqua di rose”, esorta il Papa, perché “se per paura di perderci, rinunciamo a donarci” lasceremo incompiute “le relazioni, il lavoro, le responsabilità che ci sono affidate, i sogni, e anche la fede”, e finiremo col vivere a metà e “senza fare mai il passo decisivo, senza decollare, senza rischiare per il bene, senza impegnarci davvero per gli altri”. E invece, sottolinea Francesco, Gesù ci chiede di vivere il Vangelo, perché solo così si potrà vivere una vita fino in fondo. Senza compromessi. Che è quello che ha fatto Albino Luciani.

Preghiamo questo nostro padre e fratello, chiediamo che ci ottenga “il sorriso dell’anima”, quello trasparente, quello che non inganna: il sorriso dell’anima; chiediamo, con le sue parole, quello che lui stesso era solito domandare. E diceva così: “Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri”.

Le parole del Papa, a suggello degli insegnamenti di Giovanni Paolo I, regalano un senso di pace. L’esempio limpido di fede di Albino Luciani, quella semplicità che lo rendeva vicino alla gente, appaiono mete possibili per tutti. La liturgia prosegue e le nuvole cominciano a diradarsi. Viene consacrata l’Eucaristia, quell’offerta totale a Dio di Cristo che Papa Luciani ha incarnato è vivida. In maniera composta, tra i fedeli, si snodano sacerdoti e diaconi per distribuire le particole. Prima di terminare la Messa Francesco recita l’Angelus e invita a pregare Maria per la pace nel mondo e in Ucraina. E intanto, in piazza San Pietro, fa capolino il sole. Il Pontefice sale sulla papamobile e percorre i viali tra i posti a sedere nell’emiciclo del Bernini e lo salutano centinaia di pellegrini. Ora la giornata è totalmente cambiata, le nuvole sono sparite e hanno fatto spazio ad un celeste cielo terso e pulito. E dalla Basilica Vaticana continua a sorridere il beato Giovanni Paolo I.

IL TESTO DELL’OMELIA DI PAPA FRANCESCO

Gesù è in cammino verso Gerusalemme e il Vangelo odierno dice che «una folla numerosa andava con lui» (Lc 14,25). Andare con Lui significa seguirlo, cioè diventare discepoli. Eppure, a queste persone il Signore fa un discorso poco attraente e molto esigente: non può essere suo discepolo chi non lo ama più dei propri cari, chi non porta la sua croce, chi non si distacca dai beni terreni (cfr vv. 26-27.33). Perché Gesù rivolge alla folla tali parole? Qual è il significato dei suoi ammonimenti? Proviamo a rispondere a questi interrogativi.

Anzitutto, vediamo una folla numerosa, tanta gente, che segue Gesù. Possiamo immaginare che molti siano stati affascinati dalle sue parole e stupiti dai gesti che ha compiuto; e, quindi, avranno visto in Lui una speranza per il loro futuro. Che cosa avrebbe fatto un qualunque maestro dell’epoca, o – possiamo domandarci ancora – cosa farebbe un astuto leader nel vedere che le sue parole e il suo carisma attirano le folle e aumentano il suo consenso? Capita anche oggi: specialmente nei momenti di crisi personale e sociale, quando siamo più esposti a sentimenti di rabbia o siamo impauriti da qualcosa che minaccia il nostro futuro, diventiamo più vulnerabili; e, così, sull’onda dell’emozione, ci affidiamo a chi con destrezza e furbizia sa cavalcare questa situazione, approfittando delle paure della società e promettendoci di essere il “salvatore” che risolverà i problemi, mentre in realtà vuole accrescere il proprio gradimento e il proprio potere, la propria figura, la propria capacità di avere le cose in pugno.

Il Vangelo ci dice che Gesù non fa così. Lo stile di Dio è diverso. È importante capire lo stile di Dio, come agisce Dio. Dio agisce secondo uno stile, e lo stile di Dio è diverso da quello di questa gente, perché Egli non strumentalizza i nostri bisogni, non usa mai le nostre debolezze per accrescere sé stesso. A Lui, che non vuole sedurci con l’inganno e non vuole distribuire gioie a buon mercato, non interessano le folle oceaniche. Non ha il culto dei numeri, non cerca il consenso, non è un idolatra del successo personale. Al contrario, sembra preoccuparsi quando la gente lo segue con euforia e facili entusiasmi. Così, invece di lasciarsi attrarre dal fascino della popolarità – perché la popolarità affascina –, chiede a ciascuno di discernere con attenzione le motivazioni per cui lo segue e le conseguenze che ciò comporta. Tanti di quella folla, infatti, forse seguivano Gesù perché speravano sarebbe stato un capo che li avrebbe liberati dai nemici, uno che avrebbe conquistato il potere e lo avrebbe spartito con loro; oppure uno che, facendo miracoli, avrebbe risolto i problemi della fame e delle malattie. Si può andare dietro al Signore, infatti, per varie ragioni e alcune, dobbiamo riconoscerlo, sono mondane: dietro una perfetta apparenza religiosa si può nascondere la mera soddisfazione dei propri bisogni, la ricerca del prestigio personale, il desiderio di avere un ruolo, di tenere le cose sotto controllo, la brama di occupare spazi e di ottenere privilegi, l’aspirazione a ricevere riconoscimenti e altro ancora. Questo succede oggi fra i cristiani. Ma questo non è lo stile di Gesù. E non può essere lo stile del discepolo e della Chiesa. Se qualcuno segue Gesù con questi interessi personali, ha sbagliato strada.

Il Signore chiede un altro atteggiamento. Seguirlo non significa entrare in una corte o partecipare a un corteo trionfale, e nemmeno ricevere un’assicurazione sulla vita. Al contrario, significa anche «portare la croce» (Lc 14,27): come Lui, farsi carico dei pesi propri e dei pesi degli altri, fare della vita un dono, non un possesso, spenderla imitando l’amore generoso e misericordioso che Egli ha per noi. Si tratta di scelte che impegnano la totalità dell’esistenza; per questo Gesù desidera che il discepolo non anteponga nulla a questo amore, neanche gli affetti più cari e i beni più grandi.

Ma per fare ciò bisogna guardare a Lui più che a noi stessi, imparare l’amore, attingerlo dal Crocifisso. Lì vediamo quell’amore che si dona fino alla fine, senza misura e senza confini. La misura dell’amore è amare senza misura. Noi stessi – disse Papa Luciani – «siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile» (Angelus, 10 settembre 1978). Intramontabile: non si eclissa mai dalla nostra vita, risplende su di noi e illumina anche le notti più oscure. E allora, guardando al Crocifisso, siamo chiamati all’altezza di quell’amore: a purificarci dalle nostre idee distorte su Dio e dalle nostre chiusure, ad amare Lui e gli altri, nella Chiesa e nella società, anche coloro che non la pensano come noi, persino i nemici.

Amare: anche se costa la croce del sacrificio, del silenzio, dell’incomprensione, della solitudine, dell’essere ostacolati e perseguitati. Amare così, anche a questo prezzo, perché – diceva ancora il Beato Giovanni Paolo I – se vuoi baciare Gesù crocifisso, «non puoi fare a meno di piegarti sulla croce e lasciarti pungere da qualche spina della corona, che è sul capo del Signore» (Udienza Generale, 27 settembre 1978). L’amore fino in fondo, con tutte le sue spine:non le cose fatte a metà, gli accomodamenti o il quieto vivere. Se non puntiamo in alto, se non rischiamo, se ci accontentiamo di una fede all’acqua di rose, siamo – dice Gesù – come chi vuole costruire una torre ma non calcola bene i mezzi per farlo; costui, «getta le fondamenta» e poi «non è in grado di finire il lavoro» (v. 29). Se, per paura di perderci, rinunciamo a donarci, lasciamo le cose incompiute: le relazioni, il lavoro, le responsabilità che ci sono affidate, i sogni, anche la fede. E allora finiamo per vivere a metà – e quanta gente vive a metà, anche noi tante volte abbiamo la tentazione di vivere a metà –, senza fare mai il passo decisivo – questo significa vivere a metà –, senza decollare, senza rischiare per il bene, senza impegnarci davvero per gli altri. Gesù ci chiede questo: vivi il Vangelo e vivrai la vita, non a metà ma fino in fondo. Vivi il Vangelo, vivi la vita, senza compromessi.

Fratelli, sorelle, il nuovo Beato ha vissuto così: nella gioia del Vangelo, senza compromessi, amando fino alla fine. Egli ha incarnato la povertà del discepolo, che non è solo distaccarsi dai beni materiali, ma soprattutto vincere la tentazione di mettere il proprio io al centro e cercare la propria gloria. Al contrario, seguendo l’esempio di Gesù, è stato pastore mite e umile. Considerava sé stesso come la polvere su cui Dio si era degnato di scrivere (cfr A. Luciani/Giovanni Paolo I, Opera omnia, Padova 1988, vol. II, 11). Perciò diceva: «Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili» (Udienza Generale, 6 settembre 1978).

Con il sorriso Papa Luciani è riuscito a trasmettere la bontà del Signore. È bella una Chiesa con il volto lieto, il volto sereno, il volto sorridente, una Chiesa che non chiude mai le porte, che non inasprisce i cuori, che non si lamenta e non cova risentimento, non è arrabbiata, non è insofferente, non si presenta in modo arcigno, non soffre di nostalgie del passato cadendo nell’indietrismo. Preghiamo questo nostro padre e fratello, chiediamo che ci ottenga “il sorriso dell’anima”, quello trasparente, quello che non inganna: il sorriso dell’anima. Chiediamo, con le sue parole, quello che lui stesso era solito domandare: «Signore, prendimi come sono, con i miei difetti, con le mie mancanze, ma fammi diventare come tu mi desideri» (Udienza Generale, 13 settembre 1978). Amen.




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