Papa Francesco in visita a Roma Tre

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Ora frenetiche quelle di Papa Francesco impegnato in una serie di appuntamenti con i fedeli.
Più di 2.500 persone, tra studenti, professori e personale dell’Università, si sono radunate nello spazio di fronte il rettorato per ascoltare le parole del Papa.
Papa Francesco, in visita all’Università degli Studi Roma Tre ha incontrato studenti, professori e tutto il personale dell’ateneo: Il Vescovo di Roma a invitato alla “concretezza”, di fronte alla “liquidità” di società ed economia.
Papa Francesco entra in un ateneo pubblico romano e chiarisce la sua idea di università: un luogo di “dialogo nelle differenze”. L’Università degli Studi Roma Tre, la più giovane della capitale italiana, con i suoi 25 anni d’età, lo accoglie con i propri giovani, una folta rappresentanza dei 40 mila iscritti, che lo attende nel piazzale antistante la sede di Via Ostiense. Appena arrivato, i saluti del rettore Mario Panizza e delle istituzioni universitarie, quindi il Pontefice ascolta le domande rivoltegli da quattro studenti. Consegnando il discorso ufficiale, risponde a braccio, su temi che gli sono cari. È affiancato da una traduttrice nel linguaggio dei segni, per i non udenti. Su invito di Giulia, riflette sulla violenza, che nasce dal poco, per strada, in famiglia, nel nostro linguaggio: oggi – nota – c’è “violenza nell’esprimersi, nel parlare”, ci si dimentica perfino di “dare il buongiorno”:
“La violenza è un processo che ci fa ogni volta più anonimi: ti toglie il nome. Anonimi gli uni verso gli altri. Ti toglie il nome e i nostri rapporti sono un po’ senza nome: sì, è una persona quella che ho davanti, con un nome, ma io ti saluto come se tu fossi una cosa. Ma questo che noi vediamo qui, cresce, cresce, cresce e diviene la violenza mondiale. Nessuno, oggi, può negare che stiamo in guerra, e questa è una terza guerra mondiale a pezzetti, ma c’è. Bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più”.
In un mondo in cui, nota Francesco, anche “la politica si è abbassata tanto”, perdendo il “senso della costruzione sociale, della convivenza sociale”, la prima medicina contro ogni violenza diventa quella del cuore “che sa ricevere”, in un dialogo che “avvicina”, nell’ascolto dell’altro:
“La pazienza del dialogo. E dove non c’è dialogo, c’è violenza. Ho parlato di guerra: è vero, stiamo in guerra. E’ vero. Ma le guerre non incominciano là: incominciano nel tuo cuore, nel nostro cuore. Quando io non sono capace di aprirmi agli altri, di rispettare gli altri, di parlare con gli altri, di dialogare con gli altri: lì incomincia la guerra”.
L’università, sottolinea, è invece il luogo “dove si può dialogare, dove c’è posto per tutti”, ognuno con il proprio modo di pensare. Altri luoghi, osserva, dove ciò non avviene non possono essere considerati alla stessa stregua:
“Le università di élite, che sono generalmente cosiddette università ideologiche, dove tu vai, ti insegnano questa linea, soltanto, di pensiero, questa linea ideologica e ti preparano a essere un agente di questa ideologia. Quella non è università: quella non è università. Dove non c’è dialogo, dove non c’è confronto, dove non c’è ascolto, dove non c’è rispetto per come la pensa l’altro, dove non c’è amicizia, dove non c’è la gioia del gioco, lo sport, tutto quello, non c’è università. Tutto insieme”.
L’invito è dunque a “cercare sempre l’unità”, concetto “totalmente” diverso dall’uniformità. Per essere tale, afferma, “si fa con la diversità”, perché il pericolo di oggi – a livello mondiale – è concepire “una globalizzazione nella uniformità”. La via è quella di un modello – già citato dal Papa – preso a prestito dalla geometria, il poliedro: “C’è una globalizzazione poliedrica, c’è un’unità, ma ogni persona, ogni razza, ogni Paese, ogni cultura sempre conserva la sua identità propria. E questa è l’unità nella diversità che la globalizzazione deve cercare”.
Anche nella comunicazione, rileva il Pontefice, c’è al momento una certa “celerità”; Francesco evoca la “rapidazione”, termine coniato dagli olandesi – spiega, riallacciandosi ad un recente dialogo avuto coi gesuiti – per indicare la progressione geometrica in termini di velocità e che oggi può applicarsi al mondo della comunicazione:
“Tante volte una comunicazione così rapida, così leggera, può diventare liquida, senza consistenza e questo è uno dei pericoli di questa società – questa non è una parola mia, la ‘società liquida’, l’ha detta Bauman da tempo – , la liquidità senza consistenza. E noi dobbiamo prendere la sfida di trasformare questa liquidità in concretezza”.

Un “dramma”, quello della “liquidità”, che caratterizza pure l’economia, che non produce più “lavoro concreto” per i nostri giovani. Succede in Europa, evidenzia il Papa, dove aumenta la percentuale di disoccupazione per i ragazzi “dai 25 anni in giù”: “Questa liquidità dell’economia toglie la concretezza del lavoro e toglie la cultura del lavoro perché non si può lavorare, i giovani non sanno cosa fare”.
Vengono sfruttati, cadono nelle dipendenze, vengono portati al suicidio o – osserva ancora Francesco – ad arruolarsi “in un esercito terrorista”. Serve, ripete, concretezza anche nell’economia, nel mondo come in Europa. Quel continente, spiega, che è stato caratterizzato nella sua storia “da invasioni, migrazioni”: è stato fatto “artigianalmente”. Ed oggi invece teme di perdere la propria “identità” se – aggiunge – “viene gente di altra cultura”. Le migrazioni, ribadisce Francesco, “non sono un pericolo”, ma “una sfida per crescere”.
Poi il Papa rivolge il proprio sguardo a chi fugge dall’Africa e dal Medio Oriente:“Perché c’è la guerra e fuggono dalla guerra, o c’è la fame e fuggono dalla fame. Ma quale sarebbe la soluzione ideale? Che non ci sia la guerra e che non ci sia la fame, cioè fare la pace o fare investimenti in quei posti perché abbiano risorse per lavorare e guadagnarsi la vita”.
È un invito dunque, quello del Papa, a “non sfruttare”: lo rivolge ai “potenti” della Terra, come ai criminali che gestiscono i traffici dei “barconi” carichi di migranti, che fanno sì che il Mediterraneo si sia trasformato in un “cimitero”:
“Non dimentichiamo questo: il nostro mare, il ‘mare nostrum’, oggi è un cimitero. Pensiamolo quando stiamo da soli, come se fosse una preghiera”.
Il pensiero va quindi al viaggio a Lampedusa – “ho sentito che dovevo andare”, spiega – quando il fenomeno migratorio stava cominciando: oggi, constata, “è di tutti i giorni”. Quindi, come accogliere chi arriva?
“Prima, come fratelli e sorelle umani: sono uomini e donne come noi. Secondo, ogni Paese deve vedere quale numero è capace di accogliere. E’ vero: non si può accogliere se non c’è possibilità. Ma tutti possono fare. Poi, non solo accogliere: integrare. Integrare, cioè ricevere questa gente e cercare di integrarli. Che imparino la lingua, cercare un lavoro, un’abitazione: integrare. Che ci siano organizzazioni per integrare”.
“Loro portano una cultura, una cultura che è ricchezza, per noi. Ma anche loro devono ricevere la nostra cultura e fare uno scambio di culture. Rispetto. E questo toglie la paura. Ma, c’è la paura, sì; ma la paura non è soltanto dai migranti: i delinquenti che vediamo sui giornali, le notizie, sono nativi di qui, o immigrati, di tutto: c’è di tutto! Ma integrare è importante”.
Il rischio è che succeda come in Belgio, dove – ricorda – gli autori della strage a Zaventem erano belgi, “figli di migranti, ma ghettizzati, non integrati”. Cita quindi l’esempio di accoglienza della Svezia nei confronti dei connazionali argentini. E conclude, prima dello scambio dei doni, riassumendo la propria “risposta alla paura”: “Quando c’è questo: accoglienza, accompagnare e integrare, non c’è pericolo con le migrazioni. Si riceve una cultura e si offre un’altra cultura”.

Il Papa ha poi inviato un messaggio ai partecipanti all’incontro dei Movimenti popolari in corso da ieri e fino a domani nella città di Modesto, in California:
I buoni samaritani salveranno il mondo, cioè coloro che hanno l’autentica capacità di farsi prossimi dei bisogni di chi soffre. Non l’ipocrisia di chi si riempie le tasche ignorando con stile le piaghe sociali per poi manipolare le coscienze quando le ferite sono così evidenti che non si può più fingere di non vederle. Come spesso gli accade quando i suoi interlocutori sono le “elite” delle periferie – i questo caso i movimenti sociali – Papa Francesco trova espressioni graffianti per smascherare i guasti di quello che chiama “paradigma imperante”, un “sistema economico” che causa “enormi sofferenze alla famiglia umana” perché basato sulla ricerca di profitto e non sulla solidarietà.
Francesco poi racconta ancora una volta la parabola del buon samaritano. Del contrasto stridente fra lo “straniero, pagano e impuro” che si china sul moribondo aggredito dai ladri e si prende cura di lui e la fretta indifferente del sacerdote e del levita, esponenti legati al Tempio che voltano le spalle all’uomo ferito e alla legge di Dio che chiedeva di prestare soccorso in casi simili.
“Le ferite causate dal sistema economico che ha al centro il dio denaro e che a volte agisce con la brutalità dei ladri della parabola sono state colpevolmente trascuratelo stile elegante usato per distogliere lo sguardo” in “modo ricorrente: sotto l’apparenza della correttezza politica o delle mode ideologiche – scrive – si guarda a chi soffre senza toccarlo, lo si guarda in diretta tv, e si adotta un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi, ma nulla viene fatto di sistematico per guarire le ferite sociali né per affrontare le strutture che lasciano tanti fratelli lungo strada”. Si “tratta – prosegue Francesco – di una truffa morale che, prima o poi, viene fuori e si dissipa come un miraggio. I feriti ci sono, sono una realtà”, la “disoccupazione è reale” come lo sono, insiste, la violenza, la corruzione, la crisi di identità, “lo svuotamento delle democrazie”, la “crisi ecologica”, di fronte alla quale il Papa esorta popoli indigeni, pastori e ai governanti a “difendere la creazione”, confidando nella scienza ma senza credere all’esistenza di una “scienza neutrale”.
In ogni caso, obietta il Papa, “la cancrena di un sistema non si può camuffare eternamente perché prima o poi la puzza si sente e quando non può più essere negata – è la sua critica – dallo stesso potere che ha generato questo stato di cose nasce la manipolazione della paura, l’insicurezza, la rabbia, inclusa la giusta indignazione della gente, e si trasferisce la responsabilità di tutti i mali a un ‘non prossimo’”. E questa, sottolinea, è la tentazione più grande che alimenta questo “processo sociale” in atto “in molte parti del mondo” e che per Francesco “costituisce una seria minaccia per l’umanità”: la tentazione cioè di “classificare le persone in ‘prossimo’ e ‘non prossimo’”, in “quelli che possono diventare vicini di casa e quelli che non possono”.
Al contrario Gesù, ricorda il Papa, “insegna un altro modo”. Insegna a “diventare prossimo di qualcuno che ha bisogno”, attitudine possibile se nel proprio cuore si ha la “compassione”, la “capacità di soffrire con l’altro”. E la Chiesa, soggiunge, deve essere “come l’albergatore al quale il samaritano affida, al termine della parabola, la persona che soffre”. “Ai cristiani e a tutti gli uomini di buona volontà – sprona Francesco – spetta vivere e agire adesso”, perché già troppo “tempo prezioso” è stato perso “senza risolvere queste realtà distruttive”. È “dalla partecipazione attiva delle persone”, “in gran parte” attuata dai “movimenti popolari”, che dipende il modo in cui si potrà risolvere “questa crisi profonda”. Il Papa ripete poi quanto detto nell’ultimo incontro con i movimenti popolari, che “nessun popolo è criminale e nessuna religione è terrorista”. Che “non esiste il terrorismo cristiano” né quello “ebraico” o “islamico”. “Affrontando il terrore con l’amore – dice – lavoriamo per la pace” e in ciò, conclude, “sta la vera umanità che resiste alla disumanizzazione manifestata in forma di indifferenza, ipocrisia e intolleranza”.

Raffaele Dicembrino




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