Papa – Una tiepida domenica di ottobre ha accolto
una numerosa folla festante in Piazza San Pietro.
Per essere fedeli alla missione ricevuta, i vescovi
sono chiamati a “ravvivare” il dono di
Dio, quel fuoco d’amore bruciante per Dio e
per i fratelli. Non il fuoco che divora popoli e
culture, ma che riscalda e sa discernere.
“L’Apostolo Paolo, il più grande missionario
della storia della Chiesa, ci aiuta a “fare Sinodo”,
a “camminare insieme”: quello che
scrive a Timoteo sembra rivolto a noi, Pastori
al servizio del Popolo di Dio. Anzitutto dice:
«Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in
te mediante l’imposizione delle mie mani» (2
Tm 1,6). Siamo vescovi perché abbiamo ricevuto
un dono di Dio. Non abbiamo firmato un
accordo, non abbiamo ricevuto un contratto
di lavoro in mano, ma mani sul capo, per essere
a nostra volta mani alzate che intercedono
presso il Signore e mani protese verso i
fratelli. Abbiamo ricevuto un dono per essere
doni. Un dono non si compra, non si scambia,
non si vende: si riceve e si regala. Se ce
ne appropriamo, se mettiamo noi al centro e
non lasciamo al centro il dono, da Pastori diventiamo
funzionari: facciamo del dono una
funzione e sparisce la gratuità, e così finiamo
per servire noi stessi e servirci della Chiesa.
La nostra vita, invece, per il dono ricevuto, è
per servire. Lo ricorda il Vangelo, che parla
di «servi inutili» (Lc 17,10): un’espressione
che può voler dire anche “servi senza utile”.
Significa che non ci diamo da fare per raggiungere
un utile, un guadagno nostro, ma
perché gratuitamente abbiamo ricevuto e
gratuitamente diamo (cfr Mt 10,8). La nostra
gioia sarà tutta nel servire perché siamo stati
serviti da Dio, che si è fatto nostro servo. Cari
fratelli, sentiamoci chiamati qui per servire
mettendo al centro il dono di Dio.
Per essere fedeli a questa nostra chiamata,
alla nostra missione, San Paolo ci ricorda
che il dono va ravvivato. Il verbo che utilizza
è affascinante: ravvivare letteralmente,
nell’originale, è “dare vita a un fuoco” [anazopurein].
Il dono che abbiamo ricevuto è un
fuoco, è amore bruciante a Dio e ai fratelli. Il
fuoco non si alimenta da solo, muore se non è
tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre.
Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri
giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono svanisce,
soffocato dalle ceneri dei timori e dalla
preoccupazione di difendere lo status quo.
Ma «in nessun modo la Chiesa può limitarsi a
una pastorale di “mantenimento”, per coloro
che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo
slancio missionario è un segno chiaro della
maturità di una comunità ecclesiale» (Benedetto
XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini,
95). Perché la Chiesa sempre è in cammino,
sempre in uscita, mai chiusa in sé stessa.
Gesù non è venuto a portare la brezza della
sera, ma il fuoco sulla terra. Il fuoco che ravviva
il dono è lo Spirito Santo, datore dei doni.
Perciò San Paolo continua: «Custodisci mediante
lo Spirito Santo il bene prezioso che ti
è stato affidato» (2 Tm 1,14). E ancora: «Dio
non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di
forza, di carità e di prudenza» (v. 7). Non uno
spirito di timidezza, ma di prudenza. Qualcuno
pensa che la prudenza è la virtù “dogana”,
che ferma tutto per non sbagliare. No, la
prudenza è virtù cristiana, è virtù di vita, anzi,
la virtù del governo. E Dio ci ha dato questo
spirito di prudenza. Paolo mette la prudenza
all’opposto della timidezza. Che cos’è allora
questa prudenza dello Spirito? Come insegna
il Catechismo, la prudenza «non si confonde
con la timidezza o la paura», ma «è la virtù
che dispone a discernere in ogni circostanza
il nostro vero bene e a scegliere i mezzi
adeguati» (n. 1806). La prudenza non è indecisione,
non è un atteggiamento difensivo.
È la virtù del Pastore, che, per servire con
saggezza, sa discernere, sensibile alla novità
dello Spirito. Allora ravvivare il dono nel fuoco
dello Spirito è il contrario di lasciar andare
avanti le cose senza far nulla. Ed essere fedeli
alla novità dello Spirito è una grazia che dobbiamo
chiedere nella preghiera. Egli, che fa
nuove tutte le cose, ci doni la sua prudenza
audace; ispiri il nostro Sinodo a rinnovare i
cammini per la Chiesa in Amazzonia, perché
non si spenga il fuoco della missione.
Il fuoco di Dio, come nell’episodio del roveto
ardente, brucia ma non consuma (cfr Es
3,2). È fuoco d’amore che illumina, riscalda
e dà vita, non fuoco che divampa e divora.
Quando senza amore e senza rispetto si
divorano popoli e culture, non è il fuoco di
Dio, ma del mondo. Eppure quante volte il
dono di Dio non è stato offerto ma imposto,
quante volte c’è stata colonizzazione anziché
evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidi
dei nuovi colonialismi. Il fuoco appiccato da
interessi che distruggono, come quello che
recentemente ha devastato l’Amazzonia, non
è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio è calore
che attira e raccoglie in unità. Si alimenta con
la condivisione, non coi guadagni. Il fuoco divoratore,
invece, divampa quando si vogliono
portare avanti solo le proprie idee, fare
il proprio gruppo, bruciare le diversità per
omologare tutti e tutto. Ravvivare il dono;
accogliere la prudenza audace dello Spirito,
fedeli alla sua novità; San Paolo rivolge un’ultima
esortazione: «Non vergognarti di dare
testimonianza ma, con la forza di Dio, soffri
con me per il Vangelo» (2Tm 1,8). Chiede di
testimoniare il Vangelo, di soffrire per il Vangelo,
in una parola di vivere per il Vangelo.
L’annuncio del Vangelo è il criterio principe
per la vita della Chiesa: è la sua missione, la
sua identità. Poco dopo Paolo scrive: «Sto per
essere versato in offerta» (4,6). Annunciare il
Vangelo è vivere l’offerta, è testimoniare fino
in fondo, è farsi tutto per tutti (cfr 1Cor 9,22),
è amare fino al martirio. Ringrazio Dio perché
nel Collegio Cardinalizio ci sono alcuni fratelli
Cardinali martiri, che hanno saggiato, nella
vita, la croce del martirio. Infatti, sottolinea
l’Apostolo, si serve il Vangelo non con la potenza
del mondo, ma con la sola forza di Dio:
restando sempre nell’amore umile, credendo
che l’unico modo per possedere davvero la
vita è perderla per amore.
Cari fratelli, guardiamo insieme a Gesù Crocifisso,
al suo cuore squarciato per noi. Iniziamo
da lì, perché da lì è scaturito il dono che
ci ha generato; da lì è stato effuso lo Spirito
che rinnova (cfr Gv 19,30). Da lì sentiamoci
chiamati, tutti e ciascuno, a dare la vita. Tanti
fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci
pesanti e attendono la consolazione liberante
del Vangelo, la carezza d’amore della
Chiesa. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia
hanno speso la loro vita. Permettetemi di ripetere
le parole del nostro amato Cardinale
Hummes: quando arriva in quelle piccole città
dell’Amazzonia, va nei cimiteri a cercare la
tomba dei missionari. Un gesto della Chiesa
per coloro che hanno speso la vita in Amazzonia.
E poi, con un po’ di furbizia, dice al
Papa: “Non si dimentichi di loro. Meritano di
essere canonizzati”. Per loro, per questi che
stanno dando la vita adesso, per quelli che
hanno speso la propria vita, con loro camminiamo insieme.
Papa Francesco durante l’Angelus ha aggiunto:
“L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 17,5-
10) presenta il tema della fede, introdotto
dalla domanda dei discepoli: «Accresci in noi
la fede!» (v. 6). Una bella preghiera, che noi
dovremmo pregare tanto durante la giornata:
“Signore, accresci in me la fede!”. Gesù
risponde con due immagini: il granellino di
senape e il servo disponibile. «Se aveste fede
quanto un granello di senape, potreste dire a
questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel
mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v. 6). Il gelso
è un albero robusto, ben radicato nella terra
e resistente ai venti. Gesù, dunque, vuole far
capire che la fede, anche se piccola, può avere
la forza di sradicare persino un gelso. E poi
di trapiantarlo nel mare, che è una cosa ancora
più improbabile: ma nulla è impossibile
a chi ha fede, perché non si affida alle proprie
forze, ma a Dio, che può tutto.
La fede paragonabile al granello di senape è
una fede che non è superba e sicura di sé;
non fa finta di essere quella di un grande credente
facendo a volte delle figuracce! È una
fede che nella sua umiltà sente un grande bisogno
di Dio e nella piccolezza si abbandona
con piena fiducia a Lui. È la fede che ci dà la
capacità di guardare con speranza le vicende
alterne della vita, che ci aiuta ad accettare
anche le sconfitte, le sofferenze, nella consapevolezza
che il male non ha mai, non avrà
mai, l’ultima parola…