Papa Francesco tra Siria e trasfigurazione

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Una assolata e tiepida mattinata romana (che non faceva presagire la neve che di lì a poche ore sarebbe caduta sulla capitale) ha accolto l’Angelus di Papa Francesco e le sue parole sulla ‘trasfigurazione’ e sulla Siria terra di guerra in cui ciascuno sembra fare il proprio comodo senza interessarsi delle sofferenze di una popolazione stremata da un conflitto cruento ed infinito.

“Cari fratelli e sorelle, buongiorno!” ha esordito il pontefice, “il Vangelo di oggi, seconda domenica di Quaresima, ci invita a contemplare la trasfigurazione di Gesù (cfr Mc 9,2-10). Questo episodio va collegato a quanto era accaduto sei giorni prima, quando Gesù aveva svelato ai suoi discepoli che a Gerusalemme avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31). Questo annuncio aveva messo in crisi Pietro e tutto il gruppo dei discepoli, che respingevano l’idea che Gesù venisse rifiutato dai capi del popolo e poi ucciso. Loro infatti attendevano un Messia potente, forte, dominatore, invece Gesù si presenta come umile, come mite, servo di Dio, servo degli uomini, che dovrà donare la sua vita in sacrificio, passando attraverso la via della persecuzione, della sofferenza e della morte. Ma come poter seguire un Maestro e Messia la cui vicenda terrena si sarebbe conclusa in quel modo? Così pensavano loro. E la risposta arriva proprio dalla trasfigurazione. Che cos’è la trasfigurazione di Gesù? E’ un’apparizione pasquale anticipata.

Gesù prese con sé i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni e «li condusse su un alto monte» (Mc 9,2); e là, per un momento, mostra loro la sua gloria, gloria di Figlio di Dio. Questo evento della trasfigurazione permette così ai discepoli di affrontare la passione di Gesù in modo positivo, senza essere travolti. Lo hanno visto come sarà dopo la passione, glorioso. E così Gesù li prepara alla prova. La trasfigurazione aiuta i discepoli, e anche noi, a capire che la passione di Cristo è un mistero di sofferenza, ma è soprattutto un dono di amore, di amore infinito da parte di Gesù. L’evento di Gesù che si trasfigura sul monte ci fa comprendere meglio anche la sua risurrezione. Per capire il mistero della croce è necessario sapere in anticipo che Colui che soffre e che è glorificato non è solamente un uomo, ma è il Figlio di Dio, che con il suo amore fedele fino alla morte ci ha salvati. Il Padre rinnova così la sua dichiarazione messianica sul Figlio, già fatta sulle rive del Giordano dopo il battesimo, ed esorta: «Ascoltatelo!» (v. 7). I discepoli sono chiamati a seguire il Maestro con fiducia, con speranza, nonostante la sua morte; la divinità di Gesù deve manifestarsi proprio sulla croce, proprio nel suo morire «in quel modo», tanto che l’evangelista Marco pone sulla bocca del centurione la professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39). Ci rivolgiamo ora in preghiera alla Vergine Maria, la creatura umana trasfigurata interiormente dalla grazia di Cristo. Ci affidiamo fiduciosi al suo materno aiuto per proseguire con fede e generosità il cammino della Quaresima”.

Dopo l’Angelus l’accorato appello per i fratelli siriani.

“Cari fratelli e sorelle, in questi giorni il mio pensiero è spesso rivolto all’amata e martoriata Siria, dove la guerra si è intensificata, specialmente nel Ghouta orientale. Questo mese di febbraio è stato uno dei più violenti in sette anni di conflitto: centinaia, migliaia di vittime civili, bambini, donne, anziani; sono stati colpiti gli ospedali; la gente non può procurarsi da mangiare… Fratelli e sorelle, tutto questo è disumano. Non si può combattere il male con altro male. E la guerra è un male. Pertanto rivolgo il mio appello accorato perché cessi subito la violenza, sia dato accesso agli aiuti umanitari – cibo e medicine – e siano evacuati i feriti e i malati. Preghiamo insieme Dio che questo avvenga immediatamente…”.

Durante la meditazione del lunedì a Santa Marta il Papa ha parlato della ‘vergogna’ definendola una grazia di Dio.
Sono due consigli spirituali di Papa Francesco per la Quaresima: «non giudicare gli altri» e «chiedere a Dio la grazia della vergogna per i propri peccati». Sono «il giudizio» e «la misericordia», con il suggerimento di un esame di coscienza personale. «La Quaresima è un cammino di purificazione: la Chiesa ci prepara alla Pasqua e ci insegna anche a rinnovarci, a convertirci» ha subito fatto presente Francesco. E «possiamo dire che il messaggio di oggi è il giudizio, perché tutti noi saremo sottoposti a giudizio: tutti». Tanto che «nessuno di noi potrà fuggire dal giudizio di Dio: il giudizio personale e poi il giudizio universale».

«Sotto quest’ottica la Chiesa ci fa riflettere su due atteggiamenti: l’atteggiamento verso il prossimo e l’atteggiamento con Dio». In particolare nei riguardi del «prossimo ci dice che non dobbiamo giudicare: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Di più: perdonate e sarete perdonati”». E «il Signore è chiaro in questo» ha spiegato Francesco, citando il passo del vangelo di Luca (6, 36-38) proposto dalla liturgia del giorno.

Certo, ha proseguito il Pontefice, «ognuno di noi può pensare: “io mai giudico, io non faccio il giudice”». Ma «se noi cerchiamo nella nostra vita, nei nostri atteggiamenti, quante volte l’argomento delle nostre conversazioni è giudicare gli altri!». Magari anche «un po’ naturalmente» viene da dire: «questo non va». Ma, ha insistito Francesco, «chi ti ha fatto giudice, a te?».

In realtà «questo giudicare gli altri è cosa brutta, perché l’unico giudice è il Signore». Del resto, «Gesù conosce questa tendenza nostra a giudicare gli altri» e ci ammonisce: «Stai attento, perché nella misura con cui tu giudichi, sarai giudicato: se tu sei misericordioso, Dio sarà misericordioso con te». Quindi «non giudicare».
Quasi come fosse un test, il Papa ha proposto: «Possiamo farci questa domanda: nelle riunioni che noi abbiamo, un pranzo, qualsiasi cosa sia, pensiamo della durata di due ore: di quelle due ore, quanti minuti sono stati spesi per giudicare gli altri?». E se «questo è il “no”, qual è il “sì”? Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. Di più: siate generosi, “date e vi sarà dato”». Ma «cosa mi sarà dato? “Una misura buona, pigiata, colma e traboccante”» ha ricordato Francesco citando ancora il brano di Luca. E cioè «l’abbondanza della generosità del Signore, quando noi saremo pieni dell’abbondanza della nostra misericordia nel non giudicare».
Francesco ha così suggerito di pensare «un po’ a questo: io giudico gli altri? Come giudico? Nello stesso modo, io sarò giudicato. Sono misericordioso con gli altri? Nello stesso modo il Signore sarà misericordioso con me». E «possiamo — oggi, domani, dopodomani — prendere qualche minuto per pensare a queste cose, e ci farà bene».

«La seconda parte del messaggio della Chiesa di oggi — ha proseguito — è l’atteggiamento con Dio». Ed «è tanto bello come il profeta Daniele ci dice, come dev’essere l’atteggiamento con Dio: umile», ha spiegato il Pontefice riferendosi al passo biblico di Daniele (9, 4-10). Dunque, «tu sei Dio, io sono peccatore: il dialogo con Dio parte sempre da questa adorazione penitenziale: tu sei Dio, io sono peccatore». Scrive infatti Daniele: «Abbiamo peccato e abbiamo operato da malvagi e da empi, siamo stati ribelli, ci siamo allontanati dai comandamenti e dalle tue leggi!». In una parola, «abbiamo peccato, Signore».

Ma proprio «questa è l’umiltà davanti a Dio. Ognuno di noi conosce i propri peccati e questo può dirlo davanti a Dio: Signore, ho peccato, sono un peccatore e “a te conviene la giustizia”». Oltretutto «noi sappiamo che la giustizia di Dio è misericordia, ma bisogna dirlo: “A te conviene la giustizia, a noi la vergogna”». E «quando s’incontrano la giustizia di Dio con la nostra vergogna, lì c’è il perdono».
A questo proposito Francesco ha suggerito le domande da fare a se stessi per un esame di coscienza: «Io credo che ho peccato contro il Signore? Io credo che il Signore è giusto? Io credo che sia misericordioso? Io mi vergogno davanti a Dio, di essere peccatore?». E la risposta è «così semplice: “A te la giustizia, a me la vergogna”». Dunque, dobbiamo «chiedere la grazia della vergogna».

«Nella mia lingua materna — ha confidato il Papa — alla gente brutta, cattiva, che fa del male si dice “svergognato”, senza vergogna». Perciò, ha insistito, dobbiamo «per favore chiedere la grazia che mai ci manchi la vergogna davanti a Dio: “A te la giustizia, a me la vergogna”». Perché «la vergogna è una grande grazia».
In conclusione, il Pontefice ha invitato a esaminare il nostro «atteggiamento verso il prossimo», ricordando «che con la misura con cui io giudico, sarò giudicato». Perciò «non devo giudicare». E «se dico qualcosa sull’altro, che sia generosamente, con tanta misericordia». Quanto all’«atteggiamento davanti a Dio», deve essere centrato su «questo dialogo essenziale: “A te la giustizia, a me la vergogna”».

A proposito delle persecuzioni cristiane nel mondo da segnalare la storia raccontata da Rebecca.
“Quando mi hanno chiuso in prigione per tre giorni senza mangiare per costringermi a convertirmi, ho creduto di non farcela. Mi hanno torturato e violentato, ma non ho mai rinnegato la Croce: quando mi chiedevano di professare la fede islamica recitavo il Rosario”. Rebecca Bitrus ha ancora negli occhi la furia dei suoi carcerieri mentre rivive quei due anni da schiava cristiana nelle mani dei jihadisti di Boko Haram. Sullo sfondo, mentre raccontava la sua storia ecco il Colosseo illuminato di rosso per lei e per gli oltre duecento milioni di cristiani che nel mondo sono perseguitati a causa della propria fede.

L’iniziativa della fondazione pontificia ‘Aiuto alla Chiesa che Soffre’ ha acceso i riflettori su una tragedia che non ha precedenti nella storia. La nostra è “l’epoca dei martiri”. Non ha esitato a definirla Papa Francesco. E i martiri del nostro tempo hanno il fisico minuto, lo sguardo umile e la forza straordinaria di Rebecca. Per obbligarla a diventare musulmana i suoi aguzzini l’hanno costretta ad abortire e hanno ucciso suo figlio di un anno gettandolo nel fiume. Ma lei non ha ceduto. “Ho sofferto tanto e alla fine sono anche rimasta incinta di uno di loro”, ci dice. Nonostante tutto è riuscita a “perdonare dal profondo del cuore” i suoi carcerieri “come ha fatto Gesù sulla croce”. “Il Signore è stato con me in quei momenti e l’unica speranza che avevo era quella di non perdere la mia fede”. Nel suo incontro di sabato mattina con Papa Francesco, Rebecca ha confidato al Santo Padre quanto sia stato “difficile accettare quel figlio frutto della violenza”. “Ma lui – racconta – mi ha dato coraggio e mi ha assicurato che il mio bambino, quello che hanno ucciso, è certamente un martire”.

La situazione dei cristiani in Nigeria, testimonia Rebecca, è ancora molto difficile: “Per loro non c’è lavoro né cibo, e spesso vengono discriminati anche nei campi profughi”.




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