Tutto, in questi tre giorni, parla di misericordia, perché rende visibile fino a dove può giungere l’amore di Dio”. Lo ha detto il Papa, che ha dedicato la catechesi dell’udienza di oggi al Triduo Pasquale, che comincia domani con i riti del Giovedì Santo.
Papa Francesco sottolinea (e noi andiamo ad analizzarlo) un passo importante quando e molto attuale in Gv (13,1-20).
In Gv (13,1-20) Gesù lava i piedi agli apostoli, ma Pietro si rifiuta e si scontra apertamente con Gesù: “Non mi laverai mai i piedi!”. Pietro, proprio lui, quello che diventerà il successore di Gesù, gli si rivolta contro, rifiuta il suo amore, e si mette in aperto contrasto con Gesù! Non aveva capito niente di ciò che Gesù aveva un attimo prima detto e fatto.
Pazienza i sommi sacerdoti, i farisei, gli scribi, che gli erano apertamente ostili! Pazienza la gente che crede a quello che si dice… e che va dove tira il vento! Pazienza gli indifferenti, i disinteressati, i tiepidi, cui non interessava affatto di quell’uomo. Ma proprio loro? I più vicini, gli amici? Quelli che mangiavano con lui, quelli che stavano con lui, quelli di cui Egli si fidava!
A ben vedere anche con i più vicini Gesù ha fallito, ma fallito davvero. Infatti, durante la passione, nessuno dei suoi amici starà con lui. Tutti scapperanno e lo lasceranno solo, abbandonato agli aguzzini. Nessuno dei suoi amici ci sarà sotto la croce. E chi, come Pietro, era in zona, maledirà l’essere stato suo discepolo e giurerà più volte di non conoscerlo e di non aver mai avuto nulla a che fare con lui (Gv 18,15-27).
Ma con chi ha a che fare Gesù? Ma possiamo chiamarli amici? Ma come fa a confidare su questi? Eppure Gesù non si scoraggia.
Anche se qualche dubbio l’ha avuto pure lui: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Come se dicesse: “Li ho amati, ma questi non mi hanno dato segni positivi: in ogni caso li amerò fino in fondo”.
Nonostante non lo comprendano, nonostante lo rifiutino, nonostante lo tradiscano o lo rimproverino, lui li ama sino alla fine e del tutto… li ama cioè al di là della loro risposta. L’amore vero ama al di là di ciò che fa l’altro: io ti amo, tu fa’ come vuoi!
Ma chi gliel’ha fatto fare? C’è un’unica parola: l’amore. Gesù credeva in quegli uomini; Gesù vedeva in quegli uomini ciò che neppure loro vedevano di sé; Gesù vedeva la loro bellezza, magari sepolta da detriti di marciume o di schifezza, ma c’era; Gesù sentiva che avevano un cuore e che poteva ritornare a pulsare e a vibrare; Gesù percepiva la voglia di vita vera, il vulcano spento nel loro animo; Gesù aveva scorto l’espansione della loro anima, il coraggio, l’apertura che c’era in loro. E non si rassegnò.
Nonostante i loro rifiuti; nonostante i ripetuti “no” degli apostoli; nonostante gli orizzonti meschini, gli interessi e le rivalità, lui non si arrese. Lui credeva in loro e aveva ragione. L’amore è questo: “Io credo in te”.
Amare è: “Io credo in te”.
Se avesse guardato alla loro storia avrebbe potuto concludere: “Sono sempre i soliti; ci ho provato tante volte; non c’è speranza con gente così; con chi non vuol capire non c’è niente da fare; “scemo” sì, ma non così tanto da riprovarci ancora!”. Ma Gesù non guarda a ciò che sono stati. Gesù non guarda a ciò che hanno combinato. Gesù non guarda se sono stati puri o impuri (perché se avesse guardato a questo sarebbe rimasto solo!); Gesù non guarda a tutti i casini che hanno e che gli hanno combinato. Gesù li ama.
Gesù li ama: “Io credo in te. Io so che tu puoi cambiare ed essere diverso… Io so che tu puoi essere un uomo migliore e non mi stancherò di dirtelo che lo puoi diventare… io so che tu puoi guarire dalle tue malattie… io so quanta bellezza c’è dentro di te… io vedo cosa puoi essere… io voglio che tu sia ciò che puoi essere anche se tu non credi di poter essere”.
Vi faccio un esempio. Ci sono due genitori e i loro rispettivi figli. Il primo figlio dice alla mamma: “Mamma, posso venire anch’io alla messa del giovedì santo?”. La mamma risponde: “Ma sì caro mio, certo, vieni. Ricordati però che dura più del solito… quindi non meno di un’ora e mezzo, forse due… che c’è la lavanda dei piedi… che ci sono tanti canti… e che dobbiamo mangiare in fretta perché alle nove stasera don Marco comincia e non si può arrivare in ritardo…”. “Vieni?”. “No, no, ci ho ripensato mamma”. Per forza!
Il secondo figlio dice alla mamma: “Mamma, posso venire anch’io alla messa del giovedì santo?”. La mamma risponde: “Ma sì caro mio, certo… Pensa che bello: intanto il giorno dopo non si va a scuola e così domani mattina dormi… e c’è la lavanda dei piedi: noi mettiamo il bigliettino e forse magari anche noi saremo pescati e siederemo a tavola e tutti canteranno il nostro nome… e canteremo insieme a tanta gente… e invece della solita comunione mangeremo proprio un po’ di pane, pane…”.”Vieni?”. “Ma certo mamma”.
Dov’è la differenza? E’ la stessa cosa, ma cos’hanno visto i tuoi occhi? Dove si sono posati? La prima mamma ha detto: “Non credo che tu sia capace… in grado… di stare lì”. E il bambino ha risposto di conseguenza: crede che non ce la farà. La seconda mamma crede che invece ce la farà, che si divertirà, che sarà bello: e il bambino infatti è rimasto lì.
Amare è credere. Se non credo in mio figlio, gli trasmetto che lui non vale, che non è capace e che non ce la farà.
Tu dici: “E’ perché voglio proteggerlo… perché gli voglio bene…”, ma in realtà è perché hai paura. Avere un genitore iperprotettivo è una vera disgrazia. Lui dice: “E’ perché lo amo troppo”. In realtà però questo suo amore è distruttivo. Perché se il genitore ti dice sempre: “Attento a questo… attento a quello… questo sì… questo no… lascia stare che faccio io… ti sistemo io la camera che così facciamo prima… ti do una mano io nei compiti che così impari meglio…”, che messaggio passa? Passa che tu non ce la fai e lui sì. Così penserai di essere un incapace (deficiente). Amare è credere nell’altro: “Sì, ce la farai!”.
Facciamo un altro esempio: “Descrivi tua moglie”. Il primo uomo dice: “Pensa sempre ai fornelli e alle faccende di casa. I figli vengono sempre prima di me. Se una sera sono in ritardo mi chiama per controllarmi. Una volta ci facevamo più coccole”. Il secondo: “Quando torno a casa la cena è sempre pronta. Sono molto fortunato ad avere una donna così perché lei si prende cura dei miei figli e proprio ci riesce. So che mi vuol bene perché si preoccupa molto se sono in ritardo. Capisco che ha tanti problemi perché una volta ci facevamo più coccole”.
Tu vedi secondo i tuoi occhi, ma mettiti nei suoi panni. Mettersi nei panni dell’altro è credere alle sue intenzioni buone, positive, è vedere il bene che c’è in lui.
Tuo figlio prende un brutto voto a scuola. Puoi dire: “Lo sapevo! Non vedi che devi studiare di più!”. Ma puoi anche dirgli: “Ah sì, succede a tutti. Sbagliare è utile perché così si capisce cosa non si è imparato”.
Tua suocera vuole che tutte le domeniche andiate da lei. Tu dici: “Ma non capisce? Ma non sa che una famiglia ha bisogno di stare insieme? Non c’è mica solo lei?”. Credi in lei. Per lei magari vuol dire: “Li sgravio da una fatica almeno la domenica e credo che saranno felici di stare con me e di trovare tutto pronto. So che hanno paura di disturbare per questo devo un po’ “spingere””. Se poi vedi che per la tua famiglia è importante non andarci, tocca a te con dolcezza dirglielo. Riconosci la sua intenzione buona, positiva, il suo amore, e fai la tua scelta.
Fai un colloquio di lavoro e non va. Credi in te. Quello che non crede in sé dice: “Lo sapevo, chi vuoi che mi prenda. Non ce la farò mai. E se rimango senza lavoro?”.
Il secondo, quello che crede in sé: “Si vede che non era per me. Si cade tante volte per imparare a pattinare. Forse sto cercando un lavoro che non è per me”.
La madre di Michelle Noel, famosa insegnante di Pnl, era sfiduciata. Studiava osteopatia, aveva 65 e diceva: “Come farò a ricordarmi tutti gli ossicini, i legamenti, i nervi, l’anatomia”. Sua figlia, Michelle, le disse: “Ce la farai e io ti insegnerò anche come”. Si è diplomata a 72 anni e poi ha iniziato a studiare astrologia. Adesso ha 87 anni e si ricorda tutto, con una memoria eccezionale.
Amare è credere nell’altro, non in ciò che è ma in ciò che può essere. E se tu credi in lui questo passa.
Amare è credere in chi si ama. E’ valorizzare. E’ mostrargli le sue risorse, le sue capacità. E’ stargli vicino quando non ce la fa e dargli fiducia che ce la farà.
Amare è sapere che nessuno agisce con cattiva intenzione: è che non sapeva certe cose; è che nessuno gliel’ha insegnate certe cose; è che ha una paura folle, fottuta, di sbagliare o del giudizio; è perché non sa; è perché dentro ha un vulcano; è così perché lui stesso non si ama; giudica perché nel suo cuore si sente piccolo e non sa fare altro, ecc. Nessuno a questo mondo è cattivo: siamo solo impauriti o senza luce.
Gesù, quando guardava quei poveracci di discepoli avrebbe ben potuto dire: “A posto! Siamo proprio messi bene qui! Guarda che allievi che ho! Ma dove vuoi che andiamo con questi qui!”. E invece no! Lui credette in loro e ci volle in effetti una grande fiducia! Ma ebbe ragione.
Quando uno viene e mi dice: “Io non ce la faccio”, io gli dico: “Tu ce la farai e io lo so. Adesso dobbiamo solo trovare insieme il modo per arrivarci”. Se ci credete, gli fate il regalo più grande della vita, perché gli state dicendo: “Io vedo il tuo valore, io vedo la tua forza; tu sei buono, tu sei positivo, tu puoi riuscire nella tua vita”.
Fatelo con vostro figlio, con vostra moglie, con voi stessi: “Io credo in te”. Quando stasera andate a casa dite a vostra moglie/marito: “Io credo in te. Io ti amo e voglio che tu sia felice, che tu sia pienamente te stessa, che tu possa fiorire ed essere la creatura che Dio ha pensato il giorno in cui ti ha creato. E poiché io ti amo, mi metterò a tuo servizio perché tu possa essere tu, perché io credo in te”.
E poi dite ai vostri figli: “Io credo in te. Poiché, caro figlio, ti amo, voglio che tu possa fare la tua strada, la tua casa e la tua vita, perché io credo in te”.
E poi dite a voi stessi: “Io credo in me. E smetterò di buttarmi giù, di dirmi che non ce la faccio, che non so come gli altri, che io non posso, di accusare gli altri. E poiché credo in me diventerò la cosa più bella che posso! E lo sarò!”.
L’amore è questo: “Credo in te, aldilà dei tuoi sbagli, aldilà di ciò che fai, aldilà di ciò che si vede. Credo nella luce che c’è in te anche se vivi nella notte; credo nella vita che so che hai, se vivi nella morte. E farò di tutto per mostrarti chi sei e cosa puoi essere. Perché io voglio che tu viva”.
Ogni tanto prendete chi amate, guardatelo fisso negli occhi e ditegli: “Io credo in te”.
Ma poi cosa fa Gesù? Fa qualcosa di inaspettato e coglie di sorpresa gli apostoli. Gesù lava i piedi ai suoi “presunti” amici. Tant’è vero che Pietro si ribella: “A me no! Mai!”.
Sono piedi sporchi perché le strade della Palestina erano tutte sabbia e sassi; ma sono soprattutto cuori “sporchi”. Il compito di lavare i piedi era riservato agli esseri inferiori nei confronti di quelli superiori. Era la moglie che lavava i piedi al marito, il figlio al padre e i discepoli al proprio maestro.
Nella nostra società ci sono quelli che servono e quelli che sono serviti, quelli che possono e quelli che non possono, quelli ricchi e quelli poveri, quelli in alto e quelli in basso. Ma con questo gesto Gesù mette tutti sullo stesso piano. Era lui che, come maestro, doveva essere servito.
E che fa? Adesso è lui a servire loro. Lui in quest’attimo diventa “discepolo, servo” degli apostoli. E gli apostoli, servi di Gesù, diventano il suo “maestro”. Cioè: non ci sono più servi e maestri, alti e bassi, ma tutti siamo sullo stesso piano. Gesù dice: “Voi siete come me e io come voi”.
Dio non ci ama dall’alto elargendo il suo amore come un’elemosina, una concessione, una beneficenza. L’amore di Dio non è come le nostre elemosine a chi ci bussa la porta: siccome io ho più di te, ti do qualcosa. Ma io sarò sempre più di te! L’amore di Dio innalza alla pari: “Tu ed io siamo sullo stesso piano, alla pari”. L’amore rende uguali: tu hai gli stessi miei diritti e gli stessi miei doveri. Tu non sei né più né meno di me e io non sono né più né meno di te.
Orgoglio è considerarsi più degli altri; schiavitù è considerarsi meno degli altri. Per questo Gesù dirà: “Non fatevi chiamare maestri” (Mt 23,10) e: “Tu hai un ruolo (magari di comando, di direzione) ma non sei più di me. Rispetto il tuo ruolo ma non accetto che non mi rispetti”.
Il nonno di David Maria Turoldo gli diceva: “Ricordati sempre la tua dignità; non permettere mai a nessuno di metterti i piedi in testa o di trattarti male e ricorda sempre che ogni uomo è come te”.
Nel suo libro “La fattoria degli animali” George Orwell dice: “Tutti gli uomini sono uguali, solo che alcuni sono più uguali di altri”.
Quando il Giovedì Santo c’è la lavanda dei piedi e lo si propone alle persone, quante dicono: “Io no! Io mi vergogno! Non sono cose per me!”. Perché non vuoi farti amare da Dio? Dio non teme di lavarci i piedi; Dio non teme ciò che abbiamo dentro, ciò che abbiamo compiuto, commesso, i sentimenti terribili che albergano nel nostro cuore o i crimini contro l’amore. Dio teme la nostra chiusura.
Lasciati amare, vieni fuori, permetti di farti sentire degno d’amore, amabile, buono, degno di vivere, di esserci, di esistere. L’amore ci fa sentire amabili, l’odio ci fa sentire odiosi e la rabbia rabbiosi. Le persone sono terrorizzate dal lasciarsi amare (ad esempio di aprirsi nella confessione o di raccontare ciò che hanno dentro o di rendersi vulnerabili). E’ come se dicessero: “Meglio non scendere. Se poi scopro cose brutte…”. Ma così come faranno a conoscere Dio? Come faranno a sentire quanto forte sia l’amore di Dio? Come faranno a sentire la potenza di Dio?
Lavanda dei piedi vuol dire: “Mi lascio amare da te”. “Ti mostro le mie nudità, le mie vergogne, le mie sozzure, le mie sporcherie e lascio che tu le possa lavare. Fosse per me le nasconderei, neppure vorrei vederle; fosse per me non me le perdonerei mai”.
Apri la porta del tuo cuore all’amore e… lasciati amare. Dio può tutto ma non può amarti se tu ti chiudi. Quante volte la gente dice: “Non mi chiedere di parlarti di quello che ho dentro!”. “Io le mie cose le tengo per me e non le dico a nessuno”. “Io non piango e non ho bisogno né di piangere né di commuovermi”. “I miei segreti e i miei scheletri non li dirò mai a nessuno”.
Con alcune persone si sta anche bene insieme ma hai la sensazione di non raggiungerle mai. E’ come se ti dicessero sempre: “Alto là! Non ti farò entrare”. Si parla di un sacco di cose ma tutto sa di artefatto, c’è sempre una maschera, un sorriso, qualcosa che ti lascia la sensazione di incompiuto.
Ma Dio può accettare tutto di noi e amarlo e accoglierlo. Dio non rifiuta niente di noi.
Amare non è dare. Amare è essere aperti. Se si è aperti si riceverà amore e lo si darà. Perché non si può amare se non si ci lascia amare. Non si può dare quello che non si ha.
La vita ferisce. Che si fa? Ci si può chiudere per non sentire il dolore. Si può diventare insensibili, si costruisce una corazza e un muro che non ci fa sentire il dolore ma che ci tiene lontani da tutti. Allora le persone iniziano a dire: “Nessuno mi ama! Nessuno mi capisce! Nessuno mi vuole!”. No, amico, sei tu che ti sei chiuso. Oppure: “La vita è dura, difficile. Non ci si può fidare di nessuno. Non c’è nulla di bello”. No, amico, sei tu che sei morto dentro perché non vuoi lasciarti amare. Cosa rimane da fare? Un’unica cosa: apriti!
Amavamo. Poi qualcosa ci ha ferito terribilmente. Così abbiamo detto: “Mai più!”. Chiudiamo il nostro cuore e buttiamo via la chiave. Poi anche ci convinciamo: “E’ meglio così, così non soffrirò più così tanto”. E così per non soffrire ci priviamo dell’intensità della vita e ci diciamo: “Bisogna accontentarsi”. No, amico, è che tu hai paura di farti amare. E quando l’amore si avvicinerà noi lo respingeremo perché sarà troppo pericoloso per noi. Così affamati d’amore, pieni d’amore, moriremo senza amore. La testa e le ferite dicono: “Non aprirti”, ma Gesù: “Lasciati amare, fammi entrare”.
Un uomo che andava molto fiero del suo prato all’inglese si trovò ad avere una gran quantità di soffioni boraciferi. Provò ogni metodo a lui noto per sbarazzarsene, ma continuavano a tormentarlo. Alla fine scrisse al ministero dell’agricoltura. Enumerò tutti i tentativi fatti e concluse la lettera: “E adesso, che cos’altro posso fare?”. A tempo debito giunse la risposta: “Le consigliamo di imparare ad amarli”.