Non tutto ciò che entra nel buco nero è perduto per sempre. Lo sostiene un nuovo studio condotto tra gli altri da Stephen Hawking secondo cui alcune informazioni realtive alla materia ingerita dai ‘mostri celesti’ sarebbe individuabile sull’orizzonte degli eventi.
Viene da oltre oceano e reca la firma di due “giganti” del mondo della ricerca scientifica – il Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory del MIT (Massachusetts Institute of Technology) e la Harvard University – la formula per il ritratto perfetto di un buco nero.
Si tratta di un algoritmo creato per aiutare gli astronomi a produrre la prima immagine di un buco nero, mettendo insieme i dati raccolti dai radiotelescopi di tutto il pianeta.
Il progetto, è stato concepito per sanare le lacune della radio-mappa prodotta attraverso l’Event Horizon Telescope, una sinergia internazionale che utilizza i dati in alta frequenza di svariati telescopi per “bucare” la cortina spaziale di gas e polveri e sbirciare il centro della nostra galassia.
Per guardare un black hole, cacciatore di luce distante e compatto, sarebbe necessario un osservatorio con una parabola del diametro di 10.000 chilometri. Difficile da realizzare sul nostro pianeta, ma avvicinabile mettendo in rete i radiotelescopi di tutto il mondo, come previsto nel progetto Event Horizon Telescope.
Ma senza l’algoritmo realizzato da Katie Bouman, ricercatrice del MIT capofila del nuovo studio, denominato CHIRP, ciò non sarebbe sufficiente. L’algoritmo ha infatti l’obiettivo di permettere la decodificazione di qualsiasi sistema di imaging che utilizzi interferometria radio (una tecnica che combina i segnali rilevati da coppie di telescopi di modo che gli input interagiscano tra loro).
Tuttavia, nell’interferometria la captazione dei segnali è asincrona ed il ritardo è esasperato per via dell’atmosfera terrestre. Il che può rendere l’imaging interferometrico inutile. Con l’introduzione della soluzione algebrica di Bouman anche i ritardi aggiuntivi legati al rumore atmosferico si annullerebbero a vicenda, purché i dati raccolti provengano da non più di due radiotelescopi, che permette un sensibile aumento della precisione nelle rilevazioni.