Storia e personaggi: i Girondini e la rivoluzione francese

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Storia – La Francia ha avuto una storia molto interessante e ricca di eventi e personaggi. Come non ricordare l’importanza di girondini e giacobini nel periodo rivoluzionario. Andiamone  a rivisitare le ideologie ed i membri che ne hanno fatto la storia.

I girondini furono assertori delle libertà civili e individuali nonché strenui difensori della proprietà privata borghese, i girondini furono dei rivoluzionari moderati, convinti che attraverso le idee dell’illuminismo la società francese e tutta l’umanità avrebbero potuto rinnovarsi profondamente. Tendenzialmente disposti al compromesso, furono sconfitti a anche a causa del loro rapporto ambiguo con la monarchia.

I girondini erano i membri di un gruppo politico nato in Francia nell’ottobre del 1791, che partecipava con i propri deputati all’Assemblea legislativa ed alla Convenzione Nazionale, nel corso della rivoluzione francese. Erano così chiamati perché provenienti dal dipartimento della Gironda; facevano inoltre parte della borghesia provinciale proveniente dai grandi porti costieri. Essi miravano al decentramento amministrativo e si confrontarono con il gruppo dei Montagnardi nei primi mesi della Convenzione. All’interno dell’Assemblea questo gruppo assunse un atteggiamento radicale ed anti monarchico, imponendo a Luigi XVI la dichiarazione di guerra alle potenze europee; ma le loro posizioni vennero superate dopo il 1792, dopo questo fatto ebbero vita breve, poiché vennero sciolti nel 1793 in seguito all’insurrezione anti girondina a capo della quale vi era Maximilien de Robespierre, che condannò, durante il periodo del Terrore, a morte molti dei suoi membri. I pochi superstiti tornarono in seno alla Convenzione.

«Una generazione intera è stata inghiottita. E questa generazione giovane, forte, entusiasta e tuttavia chiaroveggente, alimentata dallo studio degli antichi, dai principi della filosofia di Rousseau e di Voltaire, prometteva un complesso di talento, di coraggio e di idee liberali che non ci si può illudere di ritrovare nella generazione che si spegne né in quella che ora sorge: sicché noi oggi siamo divisi tra una vecchiaia ricondotta all’infanzia e un’infanzia senza educazione».
Era il 1797, quattro anni dopo la loro scomparsa, quando Benjamin Constant, celebre esponente francese del liberalismo, si esprimeva così ne Gli effetti del Terrore, dolendosi con amarezza, a proposito dell’eliminazione dei girondini, il gruppo politico moderato della Rivoluzione francese. Ma chi erano i girondini? Erano notabili della media e dell’alta borghesia della Francia di fine Settecento, avvocati, notai, medici, giornalisti, imprenditori in gran parte provenienti dal dipartimento della Gironda (da cui il nome) facente parte a sua volta dell’Aquitania-Limosino-Poitou-Charentes, una regione del sud della Francia bagnata dall’Oceano Atlantico. In realtà il nome di girondini è posteriore agli eventi rivoluzionari, essendo stato coniato solo all’inizio dell’Ottocento dallo scrittore e poeta Alphonse De Lamartine autore della Storia dei Girondini mentre nel corso della Rivoluzione essi furono chiamati brissottini dal nome del loro leader, il giornalista Jacques-Pierre Brissot.

Membri di spicco dei girondini, oltre a Brissot, erano Pierre Vergniaud, avvocato di Bordeaux e brillante oratore, il generale Charles François Dumouriez, il marchese Nicolas De Condorcet, grande pensatore dell’illuminismo, l’economista Jean-Marie Roland e sua moglie Manon Roland, più nota come Madame Roland, animatrice a Parigi del salotto dove si incontravano gli appartenenti al club. Assertori delle libertà civili e individuali nonché strenui difensori della proprietà privata borghese, i girondini furono sostanzialmente dei rivoluzionari moderati – li si potrebbe definire “rivoluzionari ma non troppo” – convinti che attraverso la diffusione delle idee dell’illuminismo la società francese e in genere tutta l’umanità avrebbero potuto rinnovarsi profondamente.

Estranei e al tempo stesso inclini a decisioni radicali che potessero o comprometterne o salvaguardarne la posizione economica e sociale nonché tendenzialmente disposti al compromesso, nel corso della Rivoluzione essi assunsero atteggiamenti ambigui e misero in atto meccanismi politici che determinarono alla fine la loro rovina. Prima della Rivoluzione i futuri girondini si erano battuti per l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi ed avevano fondato la Confederazione Universale degli Amici della Verità, un misto di associazione politica rivoluzionaria, loggia massonica e salotto letterario aperto anche alle donne presso cui si tenevano conferenze e dibattiti su temi come l’unità del genere umano, il cosmopolitismo, la felicità umana, l’utilità del sapere. Della Confederazione faceva parte anche una piccola casa editrice che pubblicava libri di filosofia, politica, letteratura oltre a vari periodici.
Ecco i profili biografici dei principali esponenti del gruppo politico dei girondini.

 Jacques-Pierre Brissot (Chartres 1754 – Parigi 1793) fu il leader dei girondini. Di estrazione popolare, proveniva da una famiglia povera di osti. Autodidatta, prima di diventare giornalista e di dedicarsi alla politica, soggiornò in Inghilterra, dove scrisse un pamphlet contro la regina Maria Antonietta, cosa che, una volta ritornato in Francia, gli costò un periodo di reclusione alla Bastiglia. Successivamente emigrò negli Stati Uniti, dove lavorò per conto di un banchiere. Rientrato nuovamente in Francia, alla vigilia della Rivoluzione tentò invano di farsi eleggere deputato del Terzo Stato all’assemblea degli Stati Generali. Ciononostante ebbe la buona intuizione di fondare a Parigi, nel 1789, il giornale democratico Le Patriote Français grazie al quale ottenne rispettabile notorietà e nel 1791 l’elezione a deputato nelle file dei girondini all’Assemblea Nazionale Legislativa. Un anonimo del tempo descrisse Jacques-Pierre Brissot come un uomo sedentario, di ottimo carattere, dedito agli studi, ma privo dell’audacia necessaria per essere un capo. Paradossalmente quest’uomo tranquillo, gioviale, amante della cultura, nei primi mesi del 1792 chiese a gran voce che la Francia rivoluzionaria facesse la guerra contro l’Europa monarchica non soltanto per consolidare la Rivoluzione, ma anche e soprattutto per portare la libertà in tutto il vecchio continente. La guerra ebbe effettivamente inizio in aprile, ma si rivelò un disastro per la Francia. Per Brissot, diventato nel frattempo membro della Convenzione Nazionale che era subentrata all’Assemblea Nazionale Legislativa, ebbe inizio una lenta fine: egli non era un rivoluzionario autentico, ma solo un mediocre ambizioso che intratteneva rapporti segreti con la corona per impedire la deposizione del re Luigi XVI e che, in fondo, considerava la guerra come lo strumento migliore per sconfiggere la Rivoluzione, pure così tanto esaltata nei suoi discorsi, e dar vita ad una monarchia costituzionale molto legata agli interessi della classe borghese di cui i girondini erano i rappresentanti politici. Maximilien Robespierre, il leader dei giacobini, fu il suo implacabile accusatore: per aver voluto una guerra sciagurata e per aver tergiversato nella lotta contro la monarchia. Nelle drammatiche giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793 che videro la fine dei girondini, Jacques-Pierre Brissot fu accusato dai giacobini di essere un traditore ed un nemico della libertà. Avrebbe potuto comunque salvarsi politicamente, ma condannò se stesso scrivendo nel settembre successivo un pamphlet contro i giacobini medesimi. Imputato di aver organizzato una cospirazione contro la Repubblica fuggì, ma venne arrestato e ricondotto a Parigi. Il 30 ottobre fu processato con l’accusa di essere un realista e di essersi arricchito alle spalle della Repubblica. Condannato a morte, fu ghigliottinato insieme agli altri girondini il giorno dopo. Lasciò queste parole: «La vanità è stato il mio primo movente, la fortuna il mio secondo».

Pierre Vergniaud (Limoges 1753 – Parigi 1793). Laureatosi in legge all’Università di Bordeaux, divenne avvocato presso il Parlamento di Parigi. Brillante oratore, fu un convinto sostenitore della Rivoluzione, militando nelle file dei girondini ed ottenendo dalla città di Bordeaux la nomina di amministratore della Gironda. Nel 1791 fu eletto deputato all’Assemblea Nazionale Legislativa della quale divenne a più riprese presidente, appoggiando le rivendicazioni del Terzo Stato, borghesia e classi popolari, ed auspicando la nascita in Francia di una monarchia costituzionale. Nel 1792 Vergniaud intrattenne rapporti segreti con re Luigi XVI, rifiutandosi in un primo tempo di adottare provvedimenti contro la monarchia, ma dinanzi al progressivo radicalizzarsi della Rivoluzione si vide costretto, essendo in quel momento presidente dell’Assemblea Nazionale Legislativa, a dichiararla ufficialmente decaduta. Cercò di contenere l’influenza del movimento rivoluzionario popolare parigino e venne eletto, sempre tra i girondini, deputato alla Convenzione Nazionale di cui ricoprì la carica di presidente nell’inverno 1792-93 in occasione del processo a Luigi XVI, durante il quale, rendendosi conto di non poter fare più nulla per salvarlo, si pronunciò a favore della pena capitale e come presidente ne dovette leggere anche la sentenza. Arrestato con gli altri girondini nelle giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793, fu rilasciato in attesa del processo, ma invece di fuggire, come avrebbe potuto fare, preferì restare. Processato e condannato a morte il 30 ottobre, venne ghigliottinato insieme agli altri girondini il giorno dopo.

 Charles François Dumouriez (Cambrai 1739 – Londra 1823). Entrò giovanissimo nell’Esercito francese, diventando presto ufficiale e partecipando alla guerra dei Sette Anni durante la quale fu ripetutamente ferito. In seguito svolse una missione segreta a Madrid. Promosso generale, combatté in Corsica che venne annessa al Regno di Francia. Dopo altre missioni segrete in Polonia e in Svezia, Luigi XVI lo inviò dapprima in Prussia ad addestrarne le truppe, poi lo nominò governatore di Cherbourg, in Normandia, dove fece eseguire diverse ed importanti opere portuali. Membro della Massoneria, dopo essere ritornato a Parigi aderì cautamente alla Rivoluzione riuscendo a farsi eleggere deputato del Terzo Stato all’assemblea degli Stati Generali. Schieratosi con i girondini, nell’aprile 1792 Dumouriez divenne ministro degli esteri nel governo costituito dagli stessi girondini, dimostrandosi un deciso sostenitore della guerra contro l’Europa monarchica. Il 20 settembre, al comando di una parte dell’Esercito rivoluzionario e in stretto collegamento con altre truppe francesi guidate dai generali François Kellermann e Pierre Beurnouville, riuscì a fermare i prussiani nella celebre battaglia di Valmy. Il 6 novembre successivo Dumouriez ottenne un altro notevole successo battendo le truppe austriache a Jemappes ed iniziando ad occupare il Belgio. I rapporti di Dumouriez con la Convenzione Nazionale iniziarono però a deteriorarsi, dal momento che il generale accarezzava l’idea di fare del Belgio una nazione indipendente e non un possedimento francese. Nel marzo 1793 al comando di un piccolo esercito male armato ed equipaggiato invase i Paesi Bassi, ma venne duramente battuto dagli austriaci a Neerwinden. Giunta la notizia della sconfitta a Parigi, i giacobini chiesero alla Convenzione Nazionale di metterlo sotto accusa. Dumouriez, comprendendo di essere in grave pericolo anche per la situazione sempre più difficile in cui si trovavano i girondini, fuggì in territorio austriaco dopo aver fatto arrestare la delegazione francese che era stata inviata dalla Convenzione per fare luce sulla sua posizione e dopo essere stato abbandonato dalle sue truppe. Negli anni successivi Dumouriez vagò per diversi paesi europei, soggiornando anche in Spagna dove organizzò efficacemente la guerriglia contro l’occupazione napoleonica, e stabilendosi alla fine in Inghilterra dove morì.

 Nicolas De Condorcet (Ribemont 1743 – Bourg-La-Reine 1794) oltre ad occuparsi di politica e a militare nelle file dei girondini fu anche e soprattutto un matematico, un economista ed un filosofo dell’illuminismo nonché collaboratore de L’Encyclopédie. Marchese, apparteneva ad una famiglia della nobiltà, venne educato dapprima a Reims e successivamente a Parigi. A ventidue anni pubblicò il saggio Sul calcolo integrale e a venticinque i Saggi di analisi matematica, entrando poco dopo a far parte dell’Académie Royale des Sciences. Diventato notissimo per i suoi studi di matematica, ebbe modo di lavorare a fianco di scienziati famosi come Eulero e Benjamin Franklin. Verso la metà degli anni Settanta Condorcet iniziò ad interessarsi di politica, propugnando la difesa dei diritti dell’uomo in generale, delle donne e dei neri, divulgando i principi della costituzione degli Stati Uniti d’America e progettando riforme politiche, amministrative ed economiche per rinnovare la Francia. Nel 1785, pochi anni prima dello scoppio della Rivoluzione, Condorcet scrisse il Trattato sull’applicazione dell’analisi delle probabilità e delle decisioni a maggioranza contenente, tra l’altro, un generico metodo di voto ideato per simulare votazioni a due opzioni anche quando in una elezione c’erano più candidati. Nicolas De Condorcet, che desiderava una rinascita razionalista della Francia e sostenne per questo diverse istanze di ispirazione liberale, svolse un ruolo molto importante nelle prime fasi della Rivoluzione francese. Nel 1791 fu rappresentante di Parigi all’Assemblea Nazionale Legislativa, propose un progetto per dare vita ad un nuovo sistema educativo, elaborò una bozza di costituzione per trasformare la monarchia di Francia da assoluta a costituzionale e si espresse a favore del voto alle donne. Pur non appartenendo formalmente a nessun gruppo politico, Condorcet venne considerato un girondino, sia per motivi contingenti – era amico di diversi girondini e fu presidente dell’Assemblea Nazionale Legislativa nei primi mesi del 1792 quando era in carica il governo girondino – sia per essersi pronunciato nel gennaio 1793, in qualità di membro della Convenzione Nazionale, contro la pena capitale del re, pur appoggiandone il processo, nel momento in cui il gruppo giacobino stava sopraffacendo i girondini. La posizione di Condorcet precipitò poi quando la sua bozza di costituzione venne rielaborata pesantemente dai giacobini, fatto quest’ultimo che lo irritò moltissimo e lo spinse a criticare, sembra, lo stesso Robespierre, il quale nell’ottobre del 1793 fece emettere un mandato di cattura nei suoi confronti. Per diversi mesi Condorcet si nascose a Parigi, dove scrisse l’Abbozzo di un ritratto storico dei progressi dello spirito umano: si tratta di una delle maggiori opere del pensiero illuministico in cui il suo autore traccia una storia della civilizzazione mostrando la stretta connessione tra il progresso scientifico e lo sviluppo dei diritti umani e della giustizia oltre a ipotizzare la creazione di una società razionalista modellata dalla conoscenza scientifica. Il 25 marzo 1794 Condorcet, non sentendosi più al sicuro, lasciò il suo nascondiglio e cercò di allontanarsi da Parigi. Due giorni dopo fu arrestato e incarcerato nella cittadina di Bourg-La-Reine, non distante dalla capitale. Il 29 fu ritrovato morto nella sua cella, forse suicida, essendo rimasto deluso dalla piega violenta e sanguinaria presa dalla Rivoluzione, forse assassinato, dal momento che i giacobini ritenevano impopolare la sua esecuzione capitale in pubblico.

Jean-Marie Roland (Thizi 1734 – Bourg-Beaudouin 1793). Visconte, apparteneva ad una famiglia aristocratica, studioso di questioni economiche, collaboratore de L’Encyclopédie, fece parte del corpo degli ispettori delle manifatture e in questo suo ruolo si prodigò per la meccanizzazione di molti stabilimenti tessili in diverse regioni della Francia. Nel 1780 sposò la giovane Marie- Jeanne Philipon, detta poi Manon o Madame Roland, grazie alla quale ottenne la nomina di ispettore delle manifatture di Lione. Scoppiata la Rivoluzione divenne membro della municipalità lionese, che lo inviò a Parigi per informare l’Assemblea Nazionale Costituente, il primo parlamento della Rivoluzione francese, sulle deplorevoli condizioni economiche della città e del suo territorio. Nella capitale Roland strinse amicizia con diversi rivoluzionari, tra cui Robespierre e Brissot, e verso la fine del 1790 vi si trasferì con la moglie. Quest’ultima si appassionò fortemente alla politica ed iniziò a ricevere nel suo salotto i membri del club dei girondini. Nel marzo 1792 Jean-Marie Roland, sempre grazie alle relazioni della moglie, entrò a far parte del governo girondino ricoprendo l’incarico di ministro degli interni ed inviando una lettera, per la verità scritta dalla consorte, al re Luigi XVI con la quale lo invitava a non ostacolare le decisioni dell’Assemblea Nazionale Legislativa. Questa lettera fu scoperta e resa pubblica e Roland venne destituito dal suo incarico di ministro degli interni. Nei mesi successivi la sua posizione politica si andò indebolendo: i giacobini di Robespierre lo accusarono di aver rimosso taluni documenti compromettenti per i girondini e nel gennaio 1793 durante il processo a Luigi XVI cercò di salvare il sovrano proponendo che la condanna di quest’ultimo fosse sottoposta all’approvazione popolare mediante appello. Subito dopo l’esecuzione del re Roland, attaccato duramente dai giacobini e colpito anche dal tradimento della moglie, si ritirò dalla scena politica. Arrestato con gli altri girondini nelle giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793, riuscì a fuggire da Parigi rifugiandosi in Normandia dove il 10 novembre, dopo aver appreso la notizia dell’esecuzione capitale della moglie, si uccise con due colpi di spada.

Marie-Jeanne Roland nata Philipon più nota come Madame Roland Manon Roland (Parigi 1754 – ivi 1793) fu la consorte di Jean-Marie Roland nonché, come abbiamo già detto, animatrice del salotto girondino di Parigi, tanto da essere chiamata anche La Musa dei Girondini. Nata in una famiglia della piccola borghesia, fin da bambina dimostrò grande attitudine per lo studio. A otto anni si appassionò alla lettura delle Vite parallele di Plutarco, che divenne uno dei suoi autori preferiti e che restò alla base dei suoi ideali filosofici e politici in virtù dei quali lo Stato doveva esistere solo per il benessere dei suoi cittadini, non per quello del sovrano, mentre ogni cittadino doveva condividere la responsabilità del governo dello Stato stesso. Negli anni successivi lesse anche le opere di Montesquieu, Voltaire e Jean-Jacques Rousseau. Dopo una crisi mistica, nel 1774 ebbe modo di trascorrere alcuni giorni a Versailles, nell’appartamento di una cameriera della regina Maria Antonietta dove maturò il suo risentimento verso la monarchia, la quale disprezzava apertamente e profondamente il mondo borghese. Nel 1780 convolò a nozze con il visconte Jean-Marie Roland, che proprio grazie alla moglie ottenne la nomina di ispettore delle manifatture di Lione. Scoppiata la Rivoluzione, alla fine del 1790 la coppia si trasferì a Parigi, dove Madame Roland si appassionò alla politica e, come abbiamo detto, iniziò a ricevere nel suo salotto gli appartenenti al club dei girondini. Successivamente, di fronte all’inasprirsi degli eventi – dalla nascita del movimento rivoluzionario popolare parigino ai massacri del settembre 1792 all’esecuzione capitale di Luigi XVI – Madame Roland, pur continuando a professare gli ideali rivoluzionari, cominciò ad assumere un atteggiamento cauto e distaccato verso la Rivoluzione e molto critico nei confronti dei giacobini anche in concomitanza con l’uscita del marito, che fra l’altro aveva tradito, dalla scena politica. Arrestata con gli altri girondini nelle giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793, restò in carcere per diversi mesi, durante i quali cercò, invano, dapprima di attuare uno sciopero della fame fino alla morte, poi di suicidarsi. Processata subito dopo l’esecuzione dei girondini, venne ghigliottinata l’8 novembre. Sembra che passando davanti alla statua della Libertà, mentre veniva condotta al patibolo, abbia detto: «O Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!»

La guerra contro l’Europa

Il 1° ottobre 1791 si riunì a Parigi l’Assemblea Nazionale Legislativa, creata dalla costituzione monarchica che la Rivoluzione aveva promulgato nello stesso anno. Composta da ben 745 deputati si suddivideva in tre grandi schieramenti: a destra i sostenitori della nuova monarchia costituzionale, i membri del club dei foglianti fermamente decisi a chiudere la Rivoluzione; a sinistra i sostenitori, sia pure in modo diverso, della continuazione del processo rivoluzionario, i membri del club dei giacobini, del club dei cordiglieri e del club dei girondini; al centro un considerevole numero di deputati fedeli alla causa rivoluzionaria, ma di orientamento incerto.
Nell’inverno 1791-92 la situazione sociale ed economica della Francia rivoluzionaria divenne critica: le province erano in agitazione contro Parigi, nelle campagne le popolazioni saccheggiavano i possedimenti dei nobili che allo scoppio della Rivoluzione erano fuggiti all’estero, la produzione agricola ristagnava mentre il prezzo del grano e dei generi di prima necessità aumentava di continuo. Tuttavia fu proprio in questo contesto che l’Assemblea Nazionale Legislativa andò maturando l’idea della guerra contro l’Europa, idea di cui si fecero portavoce i foglianti e soprattutto i girondini; quest’ultimi nel marzo 1792 avevano formato un governo ed assunta la direzione politica della Francia rivoluzionaria. Diversi furono i motivi che indussero i girondini a volere la guerra contro l’Europa: in primo luogo un conflitto armato contro le potenze europee apparve loro come il mezzo più idoneo per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle difficoltà interne e per rilanciare, almeno in parte, l’economia dal momento che una guerra avrebbe incrementato la produzione bellica a tutto vantaggio di quei ceti imprenditoriali che politicamente aderivano allo schieramento girondino; attraverso la guerra i girondini intendevano anche consolidare il potere dell’Assemblea Nazionale Legislativa chiamando a raccolta tutti i francesi contro un nemico comune ed impedire nello stesso tempo che la Rivoluzione si allontanasse dalle sue linee istituzionali e ponesse in primo piano la questione della ridistribuzione delle ricchezze; inoltre i girondini pensavano che con la guerra il re Luigi XVI avrebbe abbracciato totalmente la causa della Rivoluzione – in realtà il sovrano sperava che il conflitto stroncasse la Rivoluzione e gli restituisse il potere assoluto – mentre le monarchie europee, pur combattendola, avrebbero riconosciuto la nuova Francia fondata sul patto tra l’Assemblea Nazionale Legislativa e la monarchia; infine i girondini sognavano di esportare la Rivoluzione e con essa la libertà in tutto in vecchio continente combattendo una crociata contro l’assolutismo al punto che parlavano di una vera e propria marcia trionfale dell’esercito francese attraverso l’Europa. Agli occhi dei girondini, quindi, la Rivoluzione francese si presentava come un “modello” per gli altri popoli: la libertà degli uomini si identificava perfettamente nella libertà dei popoli mentre i due fondamenti dell’Europa monarchico-feudale, il trono e l’altare, venivano messi in discussione.
Soltanto Maximilien Robespierre e pochi altri erano contrari alla guerra. In particolare Robespierre sapeva che la Francia non era affatto pronta per affrontare un conflitto armato per diversi motivi: in primo luogo perché il suo esercito era male armato ed equipaggiato e i suoi quadri di comando costituiti da ufficiali di estrazione nobiliare; in secondo luogo perché l’economia francese non avrebbe potuto sostenere il peso di una guerra che si preannunciava lunga e sanguinosa. Inoltre Robespierre era convinto che la Rivoluzione avesse ancora troppi nemici interni da affrontare prima di imbarcarsi in un conflitto armato esterno e che la Rivoluzione stessa dovesse prima di tutto consolidare le sue conquiste interne. Gli ammonimenti di Robespierre però restarono inascoltati ed il 20 aprile 1792 il governo girondino dichiarò guerra alla Prussia e all’Austria. Sembra che Jean-Marie Roland, il ministro degli interni girondino, avesse dichiarato: «Dobbiamo far marciare le migliaia di uomini che abbiamo sotto le armi fin dove le gambe potranno portarli, altrimenti verranno a tagliarci la gola».
Gli eventi immediatamente successivi dimostrarono quanto fosse stata scellerata la decisione di volere la guerra: l’esercito francese infatti, nonostante che la Prussia non fosse ancora pronta, fu incapace di combattere efficacemente a causa della diserzione degli ufficiali, dell’indisciplina che regnava tra le truppe, del sospetto di tradimento che serpeggiava ovunque, subendo numerose e pesanti sconfitte lungo il fronte belga. La posizione politica dei girondini iniziò così ad indebolirsi mentre si andava sempre più rafforzando il movimento rivoluzionario popolare, soprattutto quello parigino costituito dai famosi sanculotti (piccoli commercianti, artigiani, operai), di tendenza molto radicale, movimento che, paradossalmente, era sorto proprio in conseguenza della guerra voluta dai girondini i quali, per meglio sostenere la loro decisione, avevano orchestro anche una campagna propagandistica contro i “complici dello straniero” e i “traditori della patria” innescando così un pericoloso clima di sospetto e di violenza. Al di là delle questioni prettamente politiche, il forte senso di pericolo che incombeva alla frontiera spinse la Francia a mobilitare tutte le sue risorse per fronteggiare i prussiani e gli austriaci: tra il giugno e il luglio 1792 l’Assemblea Nazionale Legislativa fece infatti convergere verso Parigi truppe provenienti dalle province ed approntare opere in difesa della capitale, proclamò la patria in pericolo e dette il via al reclutamento di migliaia e migliaia di uomini. Il 20 settembre l’esercito rivoluzionario, grazie all’abilità dei suoi comandanti (uno di essi, come abbiamo già detto, era il girondino Charles François Dumouriez), alla superiorità e all’utilizzo innovativo delle sue artigliere, fermò i prussiani a Valmy, passando poi nelle settimane successive all’offensiva.

I girondini e la monarchia

I girondini ebbero nel corso della Rivoluzione un rapporto molto particolare, molto ambiguo con la monarchia. Abbiamo già detto come Jacques-Pierre Brissot, il loro leader, intrattenesse rapporti segreti con la corona per impedire la deposizione del re Luigi XVI e considerasse la guerra come lo strumento migliore per sconfiggere la Rivoluzione e creare una monarchia costituzionale molto legata alla classe borghese i cui interessi erano politicamente rappresentati proprio dai girondini. Secondo alcuni storici poi i girondini avrebbero organizzato segretamente la manifestazione del 20 giugno 1792, in occasione della quale il movimento rivoluzionario popolare parigino invase il palazzo reale delle Tuileries costringendo Luigi XVI, che aveva bloccato alcune decisioni assembleari, a bere alla salute della nazione (non più regno) di Francia. L’evento, nelle intenzioni dei suoi promotori, avrebbe dovuto avere più obiettivi: da un lato “punire” il re, il quale aveva precedentemente licenziato alcuni ministri girondini e nello stesso tempo “ricordare” al sovrano che c’era la Rivoluzione; dall’altro lato dimostrare al popolo francese, ancora piuttosto legato alla monarchia, come la persona del sovrano potesse essere esposta ad atti di oltraggio da parte dei gruppi rivoluzionari più estremisti, i quali costituivano un pericolo non solo per la monarchia medesima, ma anche per la Rivoluzione (girondinamente intesa) ed in ultimo per la Francia intera.
In ogni caso la posizione politica dei girondini, già compromessa per il cattivo andamento della guerra contro la Prussia e l’Austria, si andò ulteriormente indebolendo proprio per questo rapporto ambiguo, talvolta complice talvolta ostile, in entrambi i casi comunque sempre pericoloso, che i girondini stessi ebbero con la monarchia: rapporto che li spinse nell’estate del 1792, timorosi com’erano di ogni novità radicale sul piano economico e sociale, anche a commettere il grave errore di attaccare i giacobini di Robespierre proprio nel momento in cui la Rivoluzione assumeva in maniera irreversibile un orientamento decisamente estremista sia sul piano politico, che su quello socio-economico. Il 10 agosto il movimento rivoluzionario popolare parigino dette vita alla celebre Comune Insurrezionale, palese testimonianza di questo orientamento estremista, la quale assalì il palazzo delle Tuileries inducendo così l’Assemblea Nazionale Legislativa a proclamare la decadenza di re Luigi XVI e a convocare una nuova assemblea, la Convenzione Nazionale, che avrebbe dovuto trasformare la Francia da monarchia in repubblica. La caduta della monarchia fu un durissimo colpo per i girondini dal momento che spezzò in due tronconi la borghesia francese: quella moderata, girondina, che nell’arco di un anno vide tramontare nel sangue i suoi ideali liberali venendo eliminata dalla scena politica; quella radicale, giacobina, che divenne protagonista assoluta della Rivoluzione e che lanciò la Rivoluzione stessa verso conquiste sempre più democratiche e radicali.

I girondini e i giacobini

La Convenzione Nazionale si riunì a Parigi il 20 settembre 1792, lo stesso giorno in cui l’esercito rivoluzionario, come abbiamo già detto, sconfiggeva i prussiani nella battaglia di Valmy. Il 21 la Convenzione ratificò il crollo della monarchia e proclamò, tra l’entusiasmo generale, la repubblica. Immediatamente la nuova assemblea iniziò i lavori per approntare una costituzione repubblicana che sostituisse quella monarchica del 1791 e soprattutto per giudicare Luigi XVI, reo di alto tradimento. La Convenzione Nazionale si componeva di 750 deputati suddivisi in tre grandi schieramenti: a destra vi erano i girondini, a sinistra i giacobini, al centro la cosiddetta Palude, un gruppo considerevole di deputati che con le loro decisioni potevano determinare il trionfo di questa o di quella proposta.
I girondini erano diventati più compatti dopo gli ultimi drammatici avvenimenti e si rendevano ormai perfettamente conto come la lotta politica contro i giacobini fosse diventata alquanto rischiosa: la Rivoluzione, come abbiamo accennato, stava irreversibilmente acquistando un orientamento estremista, radicale che vedeva la partecipazione diretta delle masse popolari e metteva in pericolo l’esistenza stessa della proprietà privata di cui i girondini, per la loro estrazione sociale, erano strenui difensori. Essi, per meglio fronteggiare la nuova fase della Rivoluzione che si stava aprendo, continuarono ad avversare, più di quanto avessero fatto in passato, il primato di Parigi come capitale della Rivoluzione e a rafforzarsi nelle province. Rimasero, comunque, convinti che con la caduta della monarchia ogni forma di tirannia in Francia fosse stata eliminata e continuarono a dimostrarsi fautori di una trasformazione pacifica delle istituzioni.
Al polo opposto i giacobini guidati da Maximilien Robespierre, che avevano l’appoggio del movimento rivoluzionario popolare in particolare di quello parigino. Lo schieramento giacobino, che oltre a Robespierre annoverava altri celebri protagonisti della Rivoluzione francese quali Georges Jacques Danton, Jean-Paul Marat, Louis Antoine Saint-Just e Georges Couthon, era costituito da esponenti della piccola borghesia formatisi culturalmente sulle dottrine di Jean-Jacques Rousseau e dediti soprattutto alle professioni legali. I giacobini si facevano interpreti dei bisogni elementari delle classi popolari sempre più assillate dalle difficoltà economiche, dal carovita e dalla scarsezza di generi di prima necessità, sostenevano il primato di Parigi come capitale della Rivoluzione ed erano fautori di una trasformazione immediata e profonda delle istituzioni e della società.

Il processo al re

La lotta politica tra i girondini e i giacobini si acuì in occasione del processo a cui venne sottoposto Luigi XVI. Fin da subito questo processo venne interpretato essenzialmente come una necessità politica, ma in modo diverso dai due schieramenti. I girondini volevano scaricare sulla figura del sovrano le colpe e gli errori del passato condannandone la figura, ma salvandone la persona, porre fine alla Rivoluzione e dare vita ad un governo repubblicano, ma liberale, borghese e moderato. Al polo diametralmente opposto i giacobini, i quali volevano condannare la figura del re ed eliminarne anche la persona, lanciare con l’esecuzione capitale del sovrano un monito a tutti i nemici interni ed esterni della Rivoluzione e dare inizio ad una nuova fase della Rivoluzione stessa proiettandola verso nuove conquiste politico-sociali. Il processo a Luigi XVI da un punto di vista strettamente giuridico fu un atto illegittimo. La Convenzione Nazionale occupò alcune sedute proprio per decidere come essa avrebbe potuto giudicare il re il quale, in virtù della costituzione monarchica del 1791 ancora in vigore, non poteva essere processato. I membri della Convenzione Nazionale, ricorrendo ad alcuni funambolismi formali, decisero di costituirsi in una specie di tribunale speciale, una corte suprema di giustizia abilitata a pronunciarsi sul cittadino Luigi Capeto anche se, in realtà, volevano condannare Luigi XVI. L’accusa, come abbiamo già detto, era quella di alto tradimento: dalle varie manovre controrivoluzionarie messe in atto negli anni 1789-1792 fino al delitto più grave, l’appello al nemico cioè alle potenze europee affinché sconfiggessero l’esercito rivoluzionario e restaurassero la monarchia nella pienezza dei suoi poteri. Il processo ebbe inizio l’11 dicembre 1792. Dopo nemmeno una settimana, il 16 dicembre, i girondini, temendo sia il movimento rivoluzionario popolare parigino che reclamava a gran voce la testa del re considerato un traditore della Francia, sia la rappresaglia degli eserciti europei che avrebbe fatto sicuramente seguito all’esecuzione del sovrano, proposero la messa al bando della dinastia dei Borbone, non solo di Luigi XVI, della regina Maria Antonietta e dei loro quattro figli, ma anche del ramo degli Orléans, in particolare di Luigi Filippo II di Borbone, duca d’Orléans nonché cugino del re. In questo modo Luigi XVI avrebbe potuto avere salva la vita mentre i giacobini avrebbero incassato una sonora sconfitta politica. Tuttavia i giacobini si imposero alla Convenzione sostenendo che esiliare l’Orléans, il quale era stato eletto deputato dal popolo poiché con il nome di Philippe Égalité appoggiava attivamente la Rivoluzione, avrebbe significato violare la sovranità dei cittadini. I girondini escogitarono allora un’altra proposta: l’appello al popolo, in base al quale sarebbe toccato agli elettori l’onere e l’onore di esprimersi sulla colpevolezza del re e sull’eventuale pena da infliggergli. In apparenza, o perlomeno in parte, l’appello al popolo si presentava, in quel particolare contesto storico, come una decisione corretta e democratica; in realtà, nelle intenzioni dei suoi ideatori, aveva il duplice obiettivo di eliminare dalla scena politica i giacobini ed insieme il movimento rivoluzionario popolare soprattutto quello parigino. Inoltre i girondini cercarono di dimostrare che l’eventuale esecuzione capitale del re avrebbe accresciuto l’odio delle monarchie assolute europee contro la Francia rivoluzionaria. La proposta girondina venne messa ai voti il 15 gennaio 1793, ma non passò poiché i giacobini riuscirono a trascinare dalla loro parte gran parte dei deputati della Palude. Se fosse passata, sicuramente Luigi XVI non sarebbe stato condannato alla pena capitale. Per i girondini fu una sconfitta pesante ed inattesa, preludio della sconfitta finale che avrebbero subito quattro mesi e mezzo dopo.

La caduta

Nella fattispecie il contrasto tra girondini e giacobini fu l’origine di tutti i drammi dei mesi immediatamente successivi (Terrore, guerra civile) come l’esecuzione capitale del re fu la causa del vuoto istituzionale e di tutti i vari colpi di Stato (dalla caduta di Robespierre alla presa di potere di Napoleone Bonaparte) che agitarono la società francese negli ultimi anni del XVIII secolo. Nella lotta politica che si svolgeva alla Convenzione Nazionale i girondini si rivelarono una maggioranza fittizia, divisi e appesantiti dai conflitti e dalle rivalità interne. Il centro della Convenzione, la cosiddetta Palude, aveva sposato la posizione dei giacobini forse perché considerava i girondini come un pericolo: per il popolo, per la Rivoluzione, per la Francia intera. D’altra parte girondini e giacobini davano due differenti impressioni: i girondini apparivano come un gruppo elitario che concepiva la politica come una sorta di gioco, spesso sotterraneo, da condurre nei salotti senza neppure cercare il contatto con la gente comune; i giacobini, al contrario, suggerivano l’immagine di un gruppo agguerrito che considerava la politica come un lavoro, una missione da svolgere alla luce del sole e soprattutto a contatto con il popolo. È importante poi ricordare che i girondini disponevano di una capacità decisionale e di azione eccessive rispetto alla loro forza politica insieme ad una capacità intellettuale notevole, ma che forniva loro una visione deformata della realtà oltre al fatto che volevano creare il centro della Rivoluzione francese, aperto però – un disegno difficilissimo da realizzare – su entrambe le ali dello schieramento politico, a destra e a sinistra.

IL FINALE DI UN’ALLEANZA

Tra l’aprile e il maggio 1793 i giacobini scatenarono l’offensiva politica finale contro i girondini, accusandoli di aver ispirato il tradimento del generale Dumouriez (vedi il relativo profilo biografico) e di affamare il popolo per difendere la proprietà borghese. L’offensiva giacobina si inseriva in un quadro politico-sociale ben preciso nel quale la Rivoluzione aveva ormai acquistato una carica fortemente estremista rappresentata in particolare dal movimento rivoluzionario popolare parigino, il cui programma costituiva un gravissimo pericolo per la posizione politica dei girondini: controllo dell’economia, confische della proprietà privata, requisizioni, calmierazioni, limitazione delle libertà individuali oltre all’affermazione del primato di Parigi, che era ormai nelle mani dei giacobini e del locale movimento rivoluzionario popolare, rispetto alle realtà provinciali, dove invece erano forti i girondini. Quest’ultimi finirono per diventare i capri espiatori di tutti i problemi economici che affliggevano la Francia rivoluzionaria, soprattutto per la grave carestia che affamava Parigi e molte altre città. La situazione da questo punto di vista era in effetti drammatica: il prezzo del grano aumentava vertiginosamente, i contadini si rifiutavano di rifornire i centri urbani, briganti assalivano i convogli di cereali, l’assegnato, la moneta della Rivoluzione, aveva perso metà del suo valore nominale.
A mettere fuori gioco i girondini fu proprio il movimento rivoluzionario popolare parigino nelle giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793. In realtà la fine violenta dei girondini fu un vero e proprio colpo di Stato mascherato da insurrezione popolare e pilotato dai giacobini i quali, comunque, ebbero, sia pure solo momentaneamente, il timore che la situazione potesse sfuggire al loro controllo. Nel pomeriggio del 31 maggio una folla di sanculotti armati si presentò alla Convenzione Nazionale alla quale sottopose un lungo elenco di rivendicazioni: epurazioni dalla pubblica amministrazione e dall’esercito, diritto di voto riservato solo al popolo, provvedimenti di carattere economico a vantaggio dei ceti sociali meno abbienti, arresto di ventidue deputati girondini considerati traditori e colpevoli anche del fatto che durante il processo al re Luigi XVI avevano proposto l’appello al popolo. Durissima fu la requisitoria di Robespierre contro i girondini: «[…] Contro di voi che, dopo la rivoluzione del 10 agosto, volevate condurre al patibolo coloro che l’hanno fatta; contro di voi, che non avete smesso di provocare la distruzione di Parigi; contro di voi, che volevate salvare il tiranno; contro di voi, che avete cospirato con Dumouriez… Ebbene, la mia conclusione è il decreto di accusa contro tutti i complici di Dumouriez».
Nonostante le parole infuocate di Robespierre, la Convenzione Nazionale prese tempo assegnando un piccolo salario ai sanculotti e non cedette minimamente alla pressione dei sanculotti medesimi i quali rifoderarono le armi e si ritirarono. Tuttavia i giacobini si resero subito conto che senza l’appoggio del movimento rivoluzionario popolare parigino non avrebbero mai potuto estromettere i girondini dalla scena politica. Il 2 giugno, una folla di ottantamila sanculotti con centocinquanta cannoni, circondò la Convenzione Nazionale: il loro capo François Henriot, un ex-impiegato del dazio, si presentò in aula con la sciabola sguainata reclamando l’arresto dei ventidue deputati girondini. Alcuni membri della Convenzione cercarono di uscire, ma i sanculotti li fermarono mentre Henriot, al quale era stata chiesta una spiegazione dell’accaduto, ordinò ai cannonieri di prepararsi ad aprire il fuoco. La Convenzione Nazionale era ostaggio del movimento rivoluzionario popolare parigino e non ebbe altra scelta che quella di procedere all’arresto di tutti i deputati girondini, primo fra tutti i loro leader Jacques-Pierre Brissot. Esclusi dalla scena politica e già destinati al patibolo, i girondini ebbero comunque, almeno in parte, la loro vendetta: il 13 luglio 1793, infatti, Marie-Anne-Charlotte Corday D’Armont, una giovane normanna di sentimenti girondini passata alla Storia semplicemente come Charlotte Corday, colpita dalla proscrizione dei moderati e dagli eccessi sempre più frequenti, pugnalava a morte Jean-Paul Marat, uno dei capi giacobini che ella riteneva il principale responsabile della parabola sanguinaria imboccata dalla Rivoluzione francese. Tre mesi e mezzo dopo, nel clima del Terrore, Brissot e altri ventuno girondini, nel corso di un breve processo durato dal 24 al 30 ottobre, vennero condannati a morte e ghigliottinati a Parigi il 31 dello stesso mese. La scomparsa dei girondini pose fine da un lato al cosiddetto romanticismo rivoluzionario – per più di un anno essi avevano conferito alla Rivoluzione francese un’affascinante aureola di idealità mista ad un travolgente entusiasmo – e dall’altro lato all’egemonia borghese sugli eventi della Rivoluzione aprendo la strada all’instabilità e soprattutto generando nei giacobini, rimasti padroni della situazione ma incapaci di comprendere quanto fosse difficile creare nuove istituzioni, il fantasma del complotto, cioè l’idea terribile che la Rivoluzione non potesse esistere senza un nemico da annientare. In questo senso la scomparsa dei girondini non costituì soltanto la fine della partecipazione borghese alla Rivoluzione francese, ma rappresentò una grave sconfitta per la Rivoluzione stessa.




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