Luigi Calabresi – Il commissario Luigi Calabresi fu assassinato a Milano Il 17 Maggio 1972. La sua è una storia tutta da raccontare, un impegno che lo ha portato alla morte ama anche al processo di beatificazione.
Accusato dall’opinione pubblica di sinistra di responsabilità nella morte di Giuseppe Pinelli, fu ucciso in un attentato i cui colpevoli vennero individuati solo dopo molti anni nelle persone di Ovidio Bompressi e Leonardo Marino quali esecutori, mentre Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri furono ritenuti i mandanti. Tutti erano esponenti di Lotta Continua. Venne insignito della medaglia d’oro al merito civile alla memoria.
Di famiglia romana medio-borghese, padre commerciante in oli e vini, frequentò il liceo classico presso l’Istituto San Leone Magno e si laureò nel 1964 all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” in giurisprudenza con una tesi sulla mafia siciliana. Da giovane entrò nel movimento cristiano Oasi, fondato dal padre gesuita Virginio Rotondi. Alla carriera forense preferì quella nella polizia, spiegando agli amici che non «sente la vocazione del magistrato né dell’avvocato». L’anno seguente, nel 1965, vinse il concorso per vicecommissario di pubblica sicurezza e quindi frequentò il corso di formazione nell’Istituto superiore di polizia, allora all’EUR, per prendere poi servizio a Milano. Ha scritto saltuariamente per il quotidiano socialdemocratico Giustizia e nel 1968, con uno pseudonimo, sul quotidiano romano Momento Sera.
A Milano fu inserito nell’ufficio politico della Questura e incaricato di sorvegliare e indagare gli ambienti della sinistra extraparlamentare, che iniziava allora a prendere consistenza: tra questi, indagò in particolare i gruppi maoisti e quelli anarchici con cui instaurò una buona dialettica. Gli ambienti anarchici erano sospettati, a seguito di comunicazioni del controspionaggio statunitense, di essere i fornitori di esplosivi usati in Grecia per una serie di attentati che avvenivano a quel tempo in quel Paese governato dalla dittatura dei colonnelli, sostenuta dagli Stati Uniti d’America. Si trattava dell’area politica entro cui avrebbe svolto le sue indagini nel corso della sua breve carriera.
Nel 1967 ottenne dalla Questura di Como, su richiesta degli anarchici, il permesso per un campeggio anarchico a Colico, e durante questi contatti conobbe Giuseppe Pinelli, a cui nel Natale 1968 avrebbe regalato, assieme al suo superiore Antonio Allegra, il libro Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli. Il dono fu ricambiato l’agosto successivo con l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, il libro preferito di Pinelli, come raccontato dal figlio giornalista Mario Calabresi.
Nella notte del 16 novembre 1967 guidò le forze della polizia nello sgombero dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, occupata da poche ore dagli studenti guidati da Mario Capanna: questa occupazione fu il primo atto di lotta studentesca che iniziò la stagione della contestazione nota a Milano come Sessantotto. Nel 1968 diventò commissario capo, trovandosi anche a dirigere le cariche dei reparti della polizia durante gli scontri per il mantenimento dell’ordine pubblico nel corso di manifestazioni di protesta per le vie milanesi; la sua carriera proseguirà fino alla carica di vice capo dell’Ufficio politico della Questura di Milano.
Il 25 aprile 1969 fu incaricato delle indagini relative agli attentati con bombe avvenuti nel padiglione della FIAT alla Fiera Campionaria e alla stazione Centrale: si trattava della prima indagine che lo espose alla stampa e alla conoscenza della pubblica opinione. Calabresi svolse le indagini entro l’area anarchica e quindici persone della sinistra extraparlamentare furono fermate e arrestate. Costoro saranno incarcerate per sette mesi, dopo i quali furono scarcerate per «mancanza di indizi». Il 21 novembre 1969, ai funerali dell’agente Antonio Annarumma, dovette intervenire in difesa di Mario Capanna, sottraendolo ad un tentativo di pestaggio da parte di agenti incolleriti dalla presenza dell’esponente delle sinistra extraparlamentare alle esequie funebri[7].
Il 12 dicembre 1969 scoppiano cinque bombe di cui una posta nella filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a Milano, che provoca la morte di 17 persone e il ferimento di altre 88. Calabresi, che aveva già in corso inchieste su attentati da bombe, viene incaricato delle indagini sul caso.
Proprio nelle indagini sulla bomba a piazza Fontana, Calabresi divenne noto all’opinione pubblica, in seguito al tragico evento accaduto nel corso delle prime indagini sulla strage: l’anarchico Giuseppe Pinelli, già noto a Calabresi per via di indagini precedenti nell’ambiente degli anarchici, convocato nelle prime ore seguenti all’attentato insieme ad altri 84 sospettati, tenuto illegalmente in stato di fermo da più di due giorni per essere interrogato riguardo al suo alibi, precipitò alle 23:57 del 15 dicembre dalla finestra dell’ufficio del commissario, al quarto piano, dell’edificio della Questura di Milano. La prima versione data dalla questura, per voce del questore Marcello Guida (già direttore del carcere per prigionieri politici di Ventotene durante il fascismo) durante una conferenza stampa, a cui parteciparono anche Calabresi e Antonino Allegra, responsabile dell’Ufficio politico della Questura, affermò che Pinelli si sarebbe suicidato in quanto implicato negli attentati e senza un alibi valido, versione poi ritrattata quando l’alibi di Pinelli, al contrario di quanto affermato, si rivelò veritiero.
Mentre gli inquirenti sostennero la tesi del suicidio, le formazioni extraparlamentari di sinistra e gli esponenti giornalistici di sinistra accusarono le forze dell’ordine di aver ucciso Pinelli gettandolo dalla finestra durante l’interrogatorio. A questa tesi, poi smentita da due istruttorie della magistratura, si aggiunse Calabresi come capro espiatorio: anche se le successive inchieste dimostrarono che non era presente nella stanza dell’interrogatorio al momento della caduta, divenne il bersaglio di una martellante campagna di denuncia, sia da parte di intellettuali di sinistra (tra gli altri, Elio Petri e Nelo Risi che girarono il lungometraggio militante Documenti su Giuseppe Pinelli, e Dario Fo, che s’ispirò alla vicenda di Pinelli per un’opera teatrale, Morte accidentale di un anarchico, in cui Calabresi era il «dottor Cavalcioni»), che da parte di gruppi più estremisti (con minacce quotidiane scritte su moltissimi muri d’Italia e della città di Milano) con parole forti e minacciose critte di intimidazioni contro Calabresi, asserzioni destinate ad entrare nella storia nella maniera più tragica possibile: Calabresi fascista sei il primo della lista, Calabresi sarai suicidato, Calabresi boia.
L’inchiesta conclusiva della magistratura sulla morte di Pinelli fu poi condotta dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio: l’istruttoria terminò il 27 ottobre 1975 con una sentenza assolutoria per Calabresi, scagionando completamente la polizia, giungendo alla conclusione che la caduta avvenne per «l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio», classificando la morte come «accidentale», escludendo sia il suicidio che l’omicidio, e accertando peraltro che Calabresi non si trovava neppure nella stanza al momento del fatto.
Particolarmente pesante fu un articolo, anonimo, ma non a firma di Adriano Sofri, direttore del quotidiano. Esso diceva:
«Questo processo lo si deve fare, e questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai ed è inutile che si dibatta “come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme”.» |
(Un’amnistia per Calabresi?, Lotta Continua, 6 giugno 1970, p. 15[16].) |
La citazione sul «bufalo inferocito», secondo quanto ipotizzato da Sofri, sarebbe forse di origine maoista[17]. L’articolo, intitolato Un’amnistia per Calabresi, contiene anche una vignetta con Calabresi raffigurato come un boia accanto a una ghigliottina, però prende le distanze dalle frasi murali che invitano a uccidere il commissario, in quanto la morte avrebbe evitato il giusto processo:
«”Archiviano Pinelli, ammazziamo Calabresi”: è scritto sui muri di Milano, è scritto anche sulla caserma S. Ambrogio, e noi, solo per dovere di cronaca, come si dice, riportiamo la cosa. A prima vista, a noi superficiali lettori di scritte murali, questo sembrerebbe un incitamento all’omicidio di funzionario di P.S. Quello che infastidisce è che, se qualcuno segue il suggerimento, si rischia di vedere saltare, per morte del querelante, il processo Calabresi-Lotta Continua, e la cosa in effetti ci dispiacerebbe un po’…» |
Nell’articolo compaiono però anche parole di minaccia, che lo stesso Adriano Sofri ha definito in seguito «raccapriccianti», riferite al giudice Caizzi, al questore Guida e a Sabino Lo Grano di cui si parla nel paragrafo precedente[16]:
«A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per “falso ideologico in atto pubblico”; noi che, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento…» |
La versione citata spesso e derivata dal libro di Gemma Capra Calabresi e Luciano Garibaldi, secondo Adriano Sofri, non riporta le numerosi frasi sul processo: nella versione completa l’articolo appare molto pesante e duro, ma è messo bene in chiaro che Lotta Continua auspicava la condanna di Guida e Calabresi dentro un’aula di Tribunale (rifiutando perciò l’amnistia che coprisse anche il reato di diffamazione mosso ad alcuni attivisti del movimento, nonostante si dica in un capoverso che non esigono una nuova denuncia), e non l’omicidio dei due funzionari, come fatto intendere nella versione incompleta[17].
Pubblicazioni di Camilla Cederna e altri
A questa campagna accusatoria si unì la giornalista Camilla Cederna (secondo una leggenda metropolitana autrice dell’articolo citato, cosa in realtà non vera) che oltre ad articoli sul settimanale L’Espresso, diretto da Eugenio Scalfari, scrisse il libro Pinelli. Una finestra sulla strage, nel quale sottolineava le responsabilità del commissario nel suicidio dell’anarchico. A causa di questi giudizi il questore di Milano, all’indomani dell’assassinio, l’additò come «mandante morale» dell’omicidio Calabresi. Un’altra opera di contenuto analogo, con prefazione del deputato del PSI Riccardo Lombardi, fu pubblicata nel 1971 dal giornalista dell’Avanti Marco Sassano
Ne seguirono querele da parte di Calabresi che portarono alla condanna di alcuni esponenti di Lotta Continua ma che contribuirono anch’esse ad acuire tensioni e contrasti, dando luogo a nuove, accese discussioni sull’operato del commissario Calabresi.
Nel 1971 Camilla Cederna fu la principale ispiratrice della lettera aperta pubblicata sul settimanale L’Espresso contro il commissario Calabresi e i magistrati che, secondo la giornalista, lo avevano tutelato durante l’inchiesta sul caso Pinelli. Quando Calabresi fu freddato di fronte alla sua abitazione, la giornalista si trovò al centro di dure contestazioni iniziate con il commento accusatorio del prefetto Libero Mazza ai giornalisti radunati, tra cui la stessa Cederna, all’ospedale San Carlo mentre all’interno veniva composto il cadavere del commissario. Il commento fu: «E pensare che è tutta colpa di quella carogna di Camilla Cederna che col suo libro su Pinelli e contro Calabresi, tra l’altro, ha guadagnato decine di milioni».
Nel 1991 Vittorio Sgarbi, in una trasmissione televisiva, affermò: «Camilla Cederna è stata quasi la mandante dell’omicidio Calabresi perché ha scritto un libro contro di lui, incriminandolo come se fosse stato l’assassino del famoso anarchico Pinelli». Successivamente la Cederna chiese un risarcimento danni per 100 milioni di lire che in primo grado le fu riconosciuto. In secondo grado, nel 2000, la Corte d’appello di Milano ritenne che Sgarbi avesse esercitato un legittimo diritto di critica e revocò il risarcimento. Contro questa sentenza gli eredi della scrittrice ricorsero in Cassazione ma il ricorso venne rigettato con la sentenza n. 559/05, depositata il 13 gennaio 2005[23].
Su Calabresi vengono diffuse notizie completamente false e inventate. Scrissero che era un agente della CIA addestrato negli Stati Uniti, anche se non vi aveva mai messo piede, e che era stato «l’uomo di fiducia del generale Edwin Walker, uomo di Barry Goldwater». Pur sconsigliato dalla moglie, Calabresi aveva chiesto ai suoi superiori, ottenendone l’assenso dopo molte esitazioni, di poter querelare per diffamazione Lotta Continua, che conduceva contro di lui una feroce campagna di stampa: e il processo al foglio calunniatore s’era presto trasformato in un processo al calunniato.
Il quotidiano extraparlamentare scrisse inoltre: «È chiaro a tutti che sarà Luigi Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara… È per questo che nessuno, e tantomeno Calabresi, può credere che quanto diciamo siano facili e velleitarie minacce. Siamo riusciti a trascinarlo in Tribunale, e questo è certamente il pericolo minore per lui, ed è solo l’inizio. Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese, infatti, sono giustamente del tutto estranei alle nostre esperienze… Il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo… Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati: ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino.»
Il settimanale L’Espresso, in tre successivi numeri apparsi in edicola a partire dal 13 giugno 1971, pubblicò un appello in cui Calabresi era definito «un commissario torturatore» e «il responsabile della fine di Pinelli», formulando accuse a magistrati e altri soggetti che avrebbero ostacolato l’accertamento delle responsabilità in favore di Calabresi. L’appello fu sottoscritto da numerosi intellettuali, politici e giornalisti
«Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.
Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini.» |
(Testo dell’appello.) |
Tra i sottoscrittori (757 in tutto) c’erano Umberto Eco, Paolo Portoghesi, Lucio Colletti, Tinto Brass, Paolo Mieli, Cesare Zavattini, Giovanni Raboni, Giulio Carlo Argan, Domenico Porzio, Giuseppe Samonà, Salvatore Samperi e Natalia Ginzburg, oltre ad altre personalità d’indiscutibile livello culturale e morale come Norberto Bobbio, Federico Fellini, Mario Soldati, Carlo Levi, Paolo Spriano, Alberto Moravia, Primo Levi, Lalla Romano, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Andrea Barbato, Vittorio Gorresio e Carlo Ripa di Meana.
Quasi vent’anni dopo L’Europeo intervistò alcuni firmatari chiedendo se non avessero rinnegato quell’adesione: Samperi disse che «ognuno ha il diritto di sostenere che bisogna prendere le armi, senza che questo significhi prenderle», Argan sostenne di non ricordare nulla e di non volerne più parlare, mentre la Ginzburg disse stupita «non so cosa si vuole da me, non ho niente da dichiarare». Domenico Porzio raccontò: «Eravamo giovani e scatenati», ma Saverio Vertone osservò, in un commento, che all’epoca Porzio doveva avere almeno 45 anni.
Il commissario Luigi Calabresi, in quel periodo, partendo da sue indagini sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba che l’editore stava collocando su di un traliccio, stava investigando su di un traffico internazionale di esplosivi e di armi che sarebbe avvenuto attraverso il confine triestino e quello svizzero: in relazione a questo traffico illegale vennero collegati i nomi di alcuni estremisti di destra tra cui Gianni Nardi. Luigi Calabresi è sepolto nel Cimitero Maggiore di Milano.
Il 17 maggio 1973, a un anno dall’assassinio, durante l’inaugurazione di un busto commemorativo in memoria del commissario nel cortile della Questura di via Fatebenefratelli di Milano, cerimonia cui partecipò l’allora Ministro dell’Interno Mariano Rumor, Gianfranco Bertoli, dichiaratosi anarchico (si scoprirà diversi anni dopo essere stato, tra il 1966 ed il 1971, informatore del SIFAR prima e agente infiltrato agli ordini del SID poi, con il nome in codice «Negro»), lanciò una bomba a mano tra i partecipanti alla commemorazione. L’esplosione uccise 4 persone e ne ferì 52, ma non colpì Rumor indicato come probabile obiettivo, già allontanatosi dal cortile. Gianfranco Bertoli, che era da poco tornato in Italia dopo un periodo trascorso in un kibbutz israeliano, rivendicò l’azione come vendetta per la morte di Pinelli urlando: «Morirete tutti come Calabresi e ora uccidetemi come Pinelli».
L’omicidio Calabresi fu il primo delitto eseguito con la stessa tecnica utilizzata negli anni successivi dalle Brigate Rosse e da altri gruppi di sinistra: nonostante ciò si indagò sugli ambienti di estrema destra, incriminando il neofascista Gianni Nardi, morto in un incidente d’auto in Spagna. La pista Nardi si rivelò falsa. Nel 1988 Leonardo Marino, un ex militante di Lotta Continua, sì pentì e confessò di aver partecipato insieme ad Ovidio Bompressi all’assassinio del commissario, indicando i mandanti del delitto in Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, anch’essi in precedenza militanti e ai vertici di LC. Leonardo Marino è stato condannato a 11 anni di reclusione (pena poi prescritta grazie alla attenuanti generiche), mentre Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri a 22 anni.
Ma di Luigi Calabresi è interessante conoscere anche un’altra dimensione, quella di uomo cristiano. Flavio Rozza in un articolo su La Nuova Bussola Quotidiana raccontò che era entrato nella Polizia di Stato su suggerimento del suo direttore spirituale, don Ennio Innocenti, il quale ritenne che avrebbe potuto vivere la sua testimonianza cristiana in quel settore. E infatti in uno scritto Luigi Calabresi scrisse in merito alla sua scelta professionale: «È una strada che ho scelto per vocazione. Avrei molti altri modi di guadagnarmi uno stipendio, ma sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana». Non era interessato ai riflettori: «Se volessi intascare e spendere medaglie come quella del successo e del potere, non andrei in polizia, dove si resta poveri. Non andrei coltivando ideali buffi di onestà e di purezza». Luigi Calabresi sosteneva di far parte di un gruppo di giovani che voleva andare controcorrente.
Il processo di beatificazione
Calabresi è stato proclamato servo di Dio dalla Chiesa cattolica, che lo considera martire per la giustizia e le cui qualità cristiane furono riconosciute da Papa Paolo VI. Giovanni Paolo II lo ha definito «testimone del Vangelo e eroico difensore del bene comune»]. È iniziato un processo di beatificazione ad opera del sacerdote Ennio Innocenti. La pratica ebbe il via libera di Camillo Ruini e passò all’esame del cardinale Dionigi Tettamanzi. La fede cristiana del commissario, che trova origine sin dalla partecipazione giovanile al movimento Oasi di padre Virginio Rotondi, gli fu di conforto nel periodo in cui era sotto accusa per la morte di Pinelli, tanto che il commissario ebbe a dichiarare a Giampaolo Pansa: «Da due anni sto sotto questa tempesta e lei non può immaginare cosa ho passato e cosa sto passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non so come potrei resistere…. Analoga testimonianza di fede diede Luigi Calabresi all’amico Enzo Tortora, come il presentatore ricorda in uno scritto il giorno successivo alla morte del commissario.