Accadde oggi- 20 Ottobre 2011- Libia: dopo 8 mesi di guerra civile, viene ucciso Muammar Gheddafi

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Il 20 Ottobre 2011 venne assassinato brutalmente, con tanto di video, il rais libico Muammar Gheddafi.

Fu la guida ideologica del colpo di stato militare che il 1º settembre 1969 portò alla caduta della monarchia (accusata di essere corrotta ed eccessivamente filo-occidentale) del re Idris I di Libia e del suo successore Hasan. Senza ricoprire stabilmente alcuna carica ufficiale, ma fregiandosi soltanto del titolo onorifico di Guida e Comandante della Rivoluzione della Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, Gheddafi fu, per i successivi quarantadue anni, la massima autorità della Libia. All’inizio instaurò una dittatura militare; in seguito, dopo un iniziale avvicinamento al socialismo arabo di Gamal Abd el-Nasser, proclamò la “repubblica delle masse”, basata su una nuova ideologia, da lui stesso teorizzata nel “Libro Verde” e nota come “Terza Via Universale”, che al tempo stesso rifiutava capitalismo e lotta di classe a favore di un socialismo di ispirazione nazionale. Ciò nonostante, continuò per tutta la durata del suo regime a mantenere una politica opportunista e a correggere e cambiare la sua posizione ideologica a seconda del mutare degli equilibri internazionali.

Nel febbraio del 2011 anche la Libia, sull’onda della cosiddetta Primavera Araba, vide l’insorgere di moti di insurrezione popolare, che ben presto sfociarono in una guerra civile, nella quale la Nato avrebbe in seguito fatto il suo ingresso fiancheggiando le forze ribelli, che avrebbero infine rovesciato il regime di Gheddafi.

Gli scontri, sin dalle prime sollevazioni, si rivelarono molto cruenti. Le forze del regime misero in atto una dura repressione armata che causò la morte di numerosi civili, sui quali veniva aperto il fuoco, con attacchi sommari e violenti sia nelle case che in luoghi e uffici pubblici. Per tali ragioni il 16 maggio del 2011, sulla base delle numerose prove raccolte, il procuratore del Tribunale penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, chiese alla corte penale l’incriminazione di Gheddafi per crimini contro l’umanità, insieme al figlio Sayf al-Islam Gheddafi e al capo dei servizi segreti libici Abd Allah al-Sanussi.

Nel corso del mese di agosto le forze ribelli erano in procinto di conquistare Tripoli e Gheddafi veniva localizzato presso la sua città natale, Sirte.

Il 20 ottobre 2011, risultando vana ogni ulteriore resistenza nella difesa di Sirte, nella quale si era asserragliato contestualmente alla caduta di Tripoli, Muʿammar Gheddafi tentò di guadagnare il deserto per continuare la lotta, ma il convoglio in cui viaggiava fu individuato dai droni inviati dal Presidente degli Stati Uniti Obama e attaccato da parte di aerei militari francesi.

Raggiunto da elementi del CNT, Gheddafi fu ferito alle gambe e catturato vivo. Dopo essere stato ripetutamente picchiato, stuprato e brutalizzato, fu ucciso con un colpo di pistola alla testa; i suoi ultimi momenti di vita furono registrati dai presenti all’avvenimento in numerosi video. Successivamente il suo cadavere fu trasportato a Misurata, esposto al pubblico e, quindi, sepolto in una località segreta nel deserto libico.

La sua eredità politica e la guida della Giamahiria furono raccolte dall’altro figlio Sayf al-Islam Gheddafi, il quale, il 23 ottobre 2011, per mezzo della Tv siriana al-Rāʾī (L’opinione), dichiarò in un breve messaggio audio di voler vendicare la morte del padre e di continuare la resistenza contro il CNT, le forze della NATO e l’esercito francese sino alla fine: “Io vi dico, andate all’inferno, voi e la NATO dietro di voi. Questo è il nostro Paese, noi ci viviamo, ci moriamo e stiamo continuando a combattere”. Il CNT decise poi di aprire un’inchiesta sulla morte di Mu’ammar Gheddafi.

In cerca di vendetta per l’uccisione, i simpatizzanti di Gheddafi rapirono, torturarono per 50 giorni e infine assassinarono uno dei suoi catturatori, il ventiduenne Omran Shaaban, nei pressi di Bani Walid nel settembre.

Nel suo libro Un ambasciatore nella Libia di Gheddafi, l’ex ambasciatore italiano Trupiano descrive il leader come un personaggio “schiavo del suo stesso mito“. Tra spinte riformatrici e spinte conservatrici, tra una retorica politica che inizia a non fare breccia più come prima ed annunci di cambiamenti nella realtà non attuati, Gheddafi sembra iniziare a perdere leggermente contatto con il suo stesso Paese. Nella Jamahiriya si formano due correnti di pensiero: una più riformatrice, rappresentata dal figlio Saif Al Islam, l’altra invece più conservatrice e fedele ai dettami ideologici del 1969. Anche all’interno della famiglia Gheddafi non mancano divisioni: Saif prova a presentarsi come innovatore, il quintogenito Mutassim cerca invece di scalare i ranghi della sicurezza nazionale.

In poche parole, la sfida che sembra avere davanti il rais all’indomani dei 40 anni dalla sua presa di potere, è quella di trasformare la Libia in una vera nazione. Fino a quel momento il collante è dato dagli ideale della rivoluzione e dalla retorica anti coloniale. Ma le divisioni in tribù permangono, la frammentazione del paese in tante fazioni più fedeli alla propria famiglia che al proprio Paese è un qualcosa che frena enormemente le trasformazioni di cui il Paese ha bisogno. L’immobilismo del governo, timoroso di sbilanciarsi troppo verso l’ala riformatrice o conservatrice, sembra far entrare Gheddafi in un vicolo cieco. Il rais forse è a conoscenza di questa situazione: purtroppo non si saprà mai se avesse escogitato un modo per uscirne fuori oppure se, al contrario, il leader libico aspettasse semplicemente il corso della storia. Ma la stessa storia, poco dopo, questa volta è destinata ad essere più veloce dei pur sempre dinamici pensieri di Gheddafi.

Non è dato sapere nemmeno se, dopo l’avvio delle proteste nel dicembre 2010 in Tunisia ed Egitto, Gheddafi abbia previsto o meno una simile situazione nel suo Paese. In tanti ancora oggi si chiedono se, dalla sua residenza di Bab Al Azizia, il Raìs sia rimasto sorpreso od indifferente nel leggere i rapporti che parlano di proteste in Cirenaica nel febbraio 2011.

Quella regione, con l’estremismo islamico, gli dà problemi negli anni Novanta, mentre nel 2006 il Raìs si vede costretto a sparare per provare a difendere il consolato italiano di Bengasi dai manifestanti che urlano contro l’esposizione delle vignette su Mamometto da parte dell’allora ministro Calderoli. Fatto sta che, proprio nella sua Bab Al Azizia, già a fine febbraio del 2011 è costretto a tirar fuori tutto il suo repertorio politico per parlare alla nazione ed invitare i cittadini ad isolare i facinorosi: “Puliremo il paese strada per strada, casa per casa”, urla con sullo sfondo la statua fatta costruire nel 1986 dove si raffigura una mano che prende in pugno un aereo americano.

Sono giorni terribili a livello personale per Gheddafi. Capisce di aver perso la Cirenaica, di avere nel Paese diverse tribù che provano ad andargli contro ed a destabilizzare il suo stesso esercito. Nel discorso di fine febbraio, oltre alla retorica politica si intravede l’atteggiamento di una persona che dà fondo alle proprie ultime certezze per provare a cambiare la situazione. Ma il contesto è destinato a peggiorare. La storia di quei giorni, ci rimanda le accuse (poi rivelatesi false) di fosse comuni di rivoltosi e di repressione spietata da parte dei suoi fedelissimi. Tanto basta per mettere in piedi, a marzo, una missione a guida Nato su pressing soprattutto francese ed inglese. Questa volta c’è anche l’Italia. Da Tripoli Gheddafi vede gli aerei occidentali che bombardano il Paese, una nazione che forse mai tale è stata ma che adesso si va lentamente a disgregare ed a vedere l’avvicinarsi della fine di una lunga era.

Si dice che il 30 dicembre 2006, dinnanzi alle immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein, Gheddafi abbia avuto addirittura una reazione isterica. Come se, in qualche modo, in quell’istante ha immaginato lui al posto dell’ex leader iracheno. A lui è andata anche peggio. Con un Paese oramai non più controllato e con i beni finanziari sequestrati e congelati, Gheddafi sceglie sì di restare in Libia ma intuisce che oramai è solo questione di tempo. Ed il 20 ottobre 2011 tutto finisce lì dove è iniziato: a Sirte.

Nel marzo 2012 la Guardia di Finanza ha sequestrato beni in Italia della famiglia Gheddafi per oltre un miliardo di euro. Tra questi l’1,256% di Unicredit (pari ad un valore di 611 milioni di euro), il 2% di Finmeccanica, l’1,5% della Juventus, lo 0,58% di Eni, pari a 410 milioni, lo 0,33% di alcune società del gruppo Fiat, come Fiat SpA e Fiat Industrial.

Oltre alle quote azionarie, le Fiamme Gialle hanno apposto i sigilli anche a 150 ettari di terreno nell’isola di Pantelleria, due moto (una Harley Davidson e una Yamaha) e un appartamento in via Sardegna, a Roma. Diversi anche i conti correnti posti sotto sequestro: il deposito più consistente, 650 000 euro in titoli, è quello presso la filiale di Roma della Ubae Bank, una joint venture italo-libica. Oltre a ciò, in numerosi altri paesi sono stati sequestrati beni di vario tipo e conti bancari, per un totale di duecento miliardi di dollari. Ciò avrebbe fatto di Gheddafi l’ottava persona più ricca della storia.

Nel corso della sua carriera politica Gheddafi si è auto attribuito numerosi appellativi allo scopo di magnificare la sua statura come figura simbolo dell’Islam e delle popolazioni musulmane e africane Tra questi: Imam di tutti i musulmani, decano dei governanti arabi,  re dei Re dell’Africa

Gheddafi soleva apparire in pubblico abbigliato in maniera molto eccentrica, vistosa e sgargiante. Alternava pompose uniformi militari a camicie variopinte, non disdegnando elaborati abiti tradizionali beduini. La sua tendenza all’istrionismo era molto marcata. Capitava spesso che si cambiasse diverse volte al giorno e ha dichiarato di essere colui che dettava la moda nel suo Paese. La cura maniacale della sua immagine lo ha spinto a ricorrere svariate volte alla chirurgia estetica. La sua effigie era raffigurata su grandi cartelloni in tutte le città della Libia, era l’immagine stessa della Libia.

Gheddafi formò una guardia personale composta esclusivamente da donne, che lo accompagnava dappertutto nel corso dei suoi numerosi viaggi internazionali. Pubblicamente si è proclamato uno strenuo difensore dei diritti delle donne e ha asserito con convinzione di voler elevare la condizione della donna araba. Il suo esercito di Amazzoni, formate nell’Accademia militare femminile da lui voluta, era la testimonianza vivente della sua volontà e del suo impegno.

La realtà, tuttavia, secondo alcune testimonianze fornite da ex membri della milizia femminile e da ex esponenti di spicco del regime, sarebbe stata molto differente. Tali testimonianze avrebbero portato alla luce il fatto che quel corpo speciale fosse soprattutto un harem ad uso personale del Colonnello, del quale avrebbero fatto parte anche alcune giovani donne rapite e strappate per anni alle proprie famiglie. Le ragazze avrebbero subito soventi pestaggi e stupri, e sarebbero state obbligate a partecipare a sessioni di sesso estremo e di gruppo. Sarebbero state spinte e costrette a fumare, a bere alcolici e a sniffare cocaina, e sarebbero state tenute prigioniere in una sorta di bunker a Bab-el-Aziza in attesa di essere chiamate a soddisfare gli appetiti sessuali del loro Leader. Talvolta, Gheddafi avrebbe usato le sue soldatesse, anche minorenni, per sedurre e poi ricattare potenti diplomatici esteri allo scopo di poterli manovrare. Qualunque congiunto delle giovani vittime avesse osato ribellarsi al destino delle proprie familiari sarebbe stato eliminato, anche in modo brutale.

Sempre secondo tali testimonianze Gheddafi, nelle visite ufficiali alle scuole del suo Paese, avrebbe scelto con cura molte giovani vittime (spesso tra i 13 e i 14 anni, sia femmine che maschi), carezzandone il capo come segnale per gli incaricati che avrebbero dovuto, in un secondo momento, prelevarle. In alcuni casi le giovani vittime sarebbero state restituite alla famiglia dopo lo stupro; in altri sarebbero state rapite e aggregate alla guardia delle Amazzoni, benché senza aver mai ricevuto un addestramento militare.

Infine, sempre secondo queste testimonianze, tra le prede sessuali di Gheddafi vi sarebbero state, oltre alle giovani studentesse, anche modelle, hostess, infermiere, impiegate e donne sposate. In più circostanze, allo scopo di umiliarne i mariti per fini politici, avrebbe consumato rapporti sessuali (sia consenzienti che non consenzienti) con mogli o figlie di alti dignitari e potenti libici, nonché di Capi di Stato africani.

Dopo l’uccisione di Gheddafi e la conseguente caduta del suo quarantennale regime, la Libia è sprofondata in una nuova e cruenta fase di guerra civile. L’uscita di scena del Colonnello, che per lunghissimo tempo era stato in grado di fungere da collante tra tutte le confessioni tribali libiche, ha drammaticamente condotto il Paese in una spirale senza fine di scontri tra tribù e fazioni rivali, che stanno dilaniando la Libia soprattutto in ragione del controllo dei numerosi giacimenti petroliferi e delle più importanti vie commerciali. Nondimeno, l’escalation delle forze islamiste, in parte (ma non solo) legate allo Stato Islamico dell’autoproclamato “califfo” Abū Bakr al-Baghdādī, che hanno approfittato della guerra civile per appropriarsi di numerosi arsenali militari presenti sul suolo libico e per occupare città e regioni su cui estendere il proprio dominio, ha portato con sé, con il ripristino della Shari’a, la persecuzione di cristiani e minoranze religiose.

Dal canto loro, le potenze occidentali che hanno rivestito un ruolo fondamentale nel determinare la caduta del regime (Stati Uniti e Francia in primis) si sono rivelate incapaci tanto di prevedere le potenziali conseguenze disastrose del loro intervento armato, quanto di garantire che le lotte intestine tra opposte fazioni e l’escalation dei gruppi jihadisti potessero cessare.

La realtà del Paese, a pochi anni di distanza dalla caduta del regime di Gheddafi, vede la contemporanea e parallela presenza di due governi (uno con sede a Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale) e l’altro con sede a Benghasi)), di oltre 200 milizie armate e di gruppi jihadisti tra cui lo Stato Islamico. Il parlamento si è dovuto inizialmente trasferire, nell’agosto del 2014, per ragioni di sicurezza in Cirenaica.

Il governo di Tripoli (GNA, riconosciuto dalla comunità internazionale) è sostenuto da parte dell’esercito regolare e da varie milizie prevelentemente di origine Tripolitana e Misuratina, oltre a godere dell’appoggio economico e militare di Turchia e Qatar. Il governo parallelo, con sede a Benghasi, è soggetto alla forte influenza del Generale Khalifa Haftar e del suo LNA (formazione militare che avrebbe dovuto costituire il nucleo del nuovo esercito libico, prima della sua rivolta contro il governo internazionalmente riconosciuto del GNA) e gode dell’ aperto appoggio economico e militare di Egitto, UAE e Arabia Saudita, oltre che da un appoggio ambiguo di Russia e Francia (che ufficialmente sostengono il GNA) .

La situazione drammatica in cui versa la Libia, tra lacerazioni interne, instabilità, guerre, guerriglie, gruppi jihadisti, milizie armate, Stato Islamico, povertà, persecuzioni, porta con sé anche un ulteriore risvolto con cui gli Stati europei, con l’Italia in prima fila, stanno facendo i conti. In assenza di un solido governo centrale che assicuri il controllo del territorio, i flussi migratori che attraversano il paese sono degenerati in un vero e proprio traffico di esseri umani e in un’escalation di approdi clandestini sulle coste europee che si sono rivelati difficili da contenere e regolarizzare. I flussi di migranti sono gestiti da trafficanti con pochi scrupoli, parte di vere e proprie organizzazioni criminali a volte legate allo Stato Islamico o ad altri gruppi islamisti, che considerano il traffico di esseri umani come uno dei business maggiormente remunerativi (ancor più dei rapimenti a scopo estorsivo) per finanziare le loro attività propagandistiche, terroristiche e militari.

 




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