Nei luoghi della guerra, in Siria e non solo al guerra ha tolto ai giovani ed ai tifosi anche le normali gioie di una partita di calcio mentre quelli che dalla guerra sono fuggiti si sono a fronteggiati oggi allo Stadio Olimpico di Roma in sette formazioni nazionali formate da una novantina di calciatori scelti tra quanti risiedono nei 24 centri Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiato) allestiti a Roma e nel Lazio.
Differenze abissali che è giusto portare alla luce: accoglienza ok ma di famiglie e non di giovani forti e robusti che vengono nel nostro paese lasciando familiari indifesi nella guerra e che poi ci ritroviamo per le strade a chiedere denaro.
Eccovi un racconto della Rete da leggere con la massima attenzione!
Nell’estate del 2014, Ali Adnan Kadhim Nassir al Tameemi era già una stella del calcio iracheno. Protagonista ai Mondiali under 20 dell’anno prima – dove (anche) con un gol da videogioco segnato in semifinale all’Uruguay consolidò i suoi soprannomi di “Bale del Medio Oriente” e “Roberto Carlos di Baghdad” – il laterale sinistro stuzzicava in quei giorni le fantasie della Roma mentre si faceva le ossa in Turchia, al Rizespor. D’improvviso, in quel calciomercato di giugno, si smise di parlare delle sue prestazioni per raccontare una storia ancora più appetitosa per giornali e tv: Ali Adnan – oggi semplicemente così, sulla sua maglia numero 53 dell’Udinese – si era arruolato nell’esercito iracheno per combattere contro l’Isis.
A corredo e riprova, le sue foto in tuta mimetica accanto ad alti ufficiali e presunti commilitoni. Una narrazione suggestiva ma decisamente fuorviante, spiegherà il calciatore al suo arrivo in Italia, dove è diventato il primo iracheno a giocare (e segnare) in Seria A: «Ho fatto solo una pubblicità. La mia era semplicemente una forma di sostegno per il mio Paese e niente più. Io sono un giocatore e non mi piace occuparmi di politica». Insomma, uno spot per tirare su il morale delle truppe e dare credito al fragile governo di Baghdad in una guerra ai jihadisti che ancora oggi resta tutta da vincere. Eppure, nel suo caso c’è molto del limite estremo su cui oggi si gioca da quelle parti. E la propaganda a sostegno dell’esercito – pur senza sparare – lo dimostra. In tempi e luoghi dell’Isis, il calcio stesso è diventato una battaglia.
Chi attacca il pallone
La questione di fondo è semplice, le risposte – come spesso accade – un po’ meno: nel mondo dell’Isis, con le ambizioni di farsi Stato e gestire tutti gli aspetti della vita pubblica, il calcio è davvero vietato? E fino a che punto? Cosa rischia chi viene beccato a rincorrere un pallone, o magari a guardare quelli che lo fanno? Punizioni, frustate o persino le decapitazioni che sono tanto utili alla propaganda del terrore? «Sul calcio la comunità militante islamista, cioè i jihadisti ma anche gruppi come Hezbollah o Hamas, è divisa in due: ci sono i “moderati”, di cui se fosse ancora vivo farebbe parte lo stesso Osama Bin Laden, che comprendono anche tifosi di calcio o amanti del gioco; e poi ci sono gli altri – l’Isis, al Shabaab, Boko Haram – che vedono nel calcio una deviazione dai doveri della fede». James M. Dorsey è co-direttore dell’Institute for Fan Culture dell’Università di Würzburg, in Germania, e attento osservatore delle dinamiche calcistiche – in campo e fuori – del Medio Oriente, raccontate sul suo blog “The Turbulent World of Middle East Soccer”, che è diventato anche un libro.
Negli ultimi anni ha monitorato gli episodi di terrorismo che, in vari modi, erano riconducibili al calcio: «L’Isis ha alle spalle una lunga storia di attacchi agli stadi, soprattutto in Iraq. Nell’estate del 2014, furono scioccanti le immagini di soldati iracheni uccisi con addosso magliette da calcio, probabilmente per non farsi riconoscere indossando le uniformi». A metà maggio, un attacco attribuito al gruppo jihadista ha provocato almeno 16 morti e 20 feriti nel circolo “Iraq Blancos”, fan club del Real Madrid a Balad, località 80 km a nord di Baghdad. Uomini armati di kalashnikov sono entrati nel locale aprendo il fuoco contro i presenti, in modo indiscriminato: semplicemente perché si trovavano lì, in un luogo deputato alla “celebrazione” del calcio. Una ricostruzione avvallata dallo stesso club spagnolo, che all’indomani della strage, nell’ultima partita di Liga, ha deciso di scendere in campo con il lutto al braccio.
Quello che rimane del Real Madrid fan club dopo l’attentato
Tanti sono anche gli attentati compiuti durante partite di calcio, spesso amatoriali. «Purtroppo spesso non abbiamo testimonianze dirette, sappiamo solo quello che viene riportato attraverso i video diffusi in rete. Ma è certo che indipendentemente dal rapporto con il calcio, lo stadio rimane un obiettivo importante perché permette di colpire un gran numero di persone, e per il grande impatto mediatico che ne consegue. E della lista fa parte ovviamente anche l’attacco allo Stade de France di novembre». Non c’è però solo l’Isis. Tutti i gruppi più estremisti tendono a fare del calcio un simbolo della corruzione occidentale contro cui combattere . «Nel 2010 in Somalia, quando controllava diverse aree a Mogadiscio, al Shabaab minacciava di giustiziare i civili se avessero guardato delle partite di nascosto. E lo stesso accadeva con i giornalisti sportivi».
Non è detto, però, che un divieto tout court del calcio sia tra gli obiettivi strategici di gruppi come l’Isis. Di certo, non è facile riuscirci. Come dimostrano alcune “eccezioni”, che in qualche caso riguardano persino militanti del gruppo. «Verso l’esterno, lo Stato islamico ha un controllo molto forte, soprattutto di internet; al suo interno ha eliminato il calcio professionistico. Ma questo non sempre riguarda anche i foreign fighters europei, abituati ad altri stili di vita». Nel gruppo intorno al boia britannico “Jihadi John” – al secolo Mohammed Emwazi – pare ci fossero per esempio molti appassionati, cui veniva concesso di vedere le partite nelle loro ville di lusso, abbandonate dalla popolazione in fuga e occupate lontano dagli occhi dei militanti locali. Lui stesso, hanno rivelato i tabloid inglesi, da piccolo sognava di fare il calciatore. Per Dorsey, «semplicemente, il calcio è troppo popolare per essere completamente vietato».
Terreno di propaganda
Anche intorno ai territori controllati dall’Isis i conflitti hanno ostacolato – quando non bloccato – il calcio professionistico. Come Ali Adnan, tanti suoi connazionali meno dotati sono andati a giocare all’estero, in cerca di condizioni (e ingaggi) migliori. In Iraq il campionato si gioca regolarmente, tranne nelle zone controllate dallo Stato islamico, che sono comunque una minoranza del Paese. Ma le condizioni di sicurezza spesso non ci sono. In uno degli ultimi attacchi di fine marzo, a poche decine di chilometri da Baghdad, 29 persone sono rimaste uccise da un kamikaze durante una partita. Il calcio non si è fermato neppure in Siria, anche se le partite vengono disputate solo a Damasco e Latakia. «Oggi si gioca un campionato, anche se ovviamente solo nelle zone controllate da Bashar al Assad, e la Nazionale si è qualificata per la prossima Coppa d’Asia.
Tutto sommato è un successo, per un Paese in guerra. Ma le divisioni sono fortissime, e ovviamente questo si riflette nel calcio», spiega ancora Dorsey. La squadra di Latakia, per esempio, è controllata da un cugino di Assad e considerata la favorita della Shabhia, le milizie armate del regime baathista. «Per il regime è molto importante dare con il calcio un’immagine della Siria diversa rispetto a quella di guerra che si vede ogni giorno», suggerisce Dorsey. Qualche giorno fa, la Federazione siriana ha persino fatto circolare un’improbabile lettera (in spagnolo) a José Mourinho, offrendogli formalmente la panchina della Nazionale «per poter arrivare per la prima volta nella storia alla Coppa del Mondo» in Russia. Un appello a fini propagandistici, che però prova una volta di più l’importanza del calcio per il regime.
Iraqis attend a football match between the Iraqi national team and the Karbala club to celebrate the opening of the new Karbala International Stadium on May 12, 2016 in the holy Shiite city of Karbala. / AFP / Mohammed SAWAF (Photo credit should read MOHAMMED SAWAF/AFP/Getty Images)
Il migliore
«La nazionale è tutta pro-Assad: l’allenatore, il capitano e alcuni giocatori esprimono un sostegno diretto, altri pensano di non avere scelta, molti giocano all’estero e non vogliono compromettersi troppo politicamente» spiega Dorsey. «Ma altri hanno fatto scelte diverse, diventando rifugiati piuttosto che continuare a restare in Siria, o anche membri dell’opposizione armata».
La storia più emblematica è probabilmente quella di Abdul Baset al Sarout, portiere molto promettente dell’Under 17 e poi dell’Under 20 siriana. Dopo aver messo da parte i guantoni, è diventato un eroe della resistenza al regime a Homs. Per Al Jazeera, «un’icona della rivolta siriana». I suoi 4 fratelli sono rimasti uccisi in guerra. Per quanto si sa, lui – oggi 24enne – è invece ancora vivo e comanda una brigata che combatte al fianco di Jabhat al Nusra, la branca siriana di al Qaeda, che si oppone ad Assad. Fino a 5 anni fa, quando è iniziata la guerra, difendeva i pali dell’Al Karamah, la squadra della sua città. Pare che in Siria fosse il migliore della sua generazione.
Pubblicato in data 18 maggio 2016
Di Cristoforo Spinella