Superga – La Tragedia di Superga del 4 Maggio del 1949 è una storia che il mondo non ha mai voluto dimenticare. A bordo di quell’aereo che si abbatte a causa delle pessime condizioni meteo c’era una squadra di uomini prima che calciatori, un gruppo di amici che si divertiva a giocare al calcio e che scaldava il cuore non soltanto a Torino ma a mezza Europa. Era un calcio molto lontano da quello attuale che viene però narrato come qualcosa di straordinario come era straordinaria la squadra del Torino.
AEREO
L’aereo stava riportando a casa la squadra da Lisbona, dove aveva disputato una partita amichevole contro il Benfica, organizzata per aiutare il capitano della squadra lusitana Francisco Ferreira, in difficoltà economiche. Nell’incidente perse la vita l’intera squadra del Torino, vincitrice di cinque scudetti consecutivi dalla stagione 1942-1943 alla stagione 1948-1949 e che costituiva la quasi totalità della Nazionale italiana.
Mazzola e Ferreira si erano conosciuti in occasione della gara tra Italia e Portogallo giocata a Genova. Ferreira chiese a Capitan Valentino di disputare con un’amichevole contro il Torino in occasione del suo addio al calcio. Mazzola si disse d’accordo e l’intesa fu presto raggiunta. L’incontro fu fissato per martedì 3 maggio 1949 ed il Torino ottenne dalla Federazione il permesso di anticipare al 30 aprile la sfida con l’Inter. La gara contro il Benfica fu una vera amichevole, la formazione granata sconfitta 4-3 con grandi applausi al capitan Ferreira che abbandonava il calcio, in uno stadio gremito da quarantamila persone.
Mazzola e compagni sono stanchi, per questo decidono di ripartire subito per Torino la mattina seguente. L’aereo con a bordo tutta comitiva, un trimotore FIAT G.212, con marche I-ELCE, delle Avio Linee Italiane, decolla dall’aeroporto di Lisbona alle 9:40 di mercoledì 4 maggio 1949. A comandarlo è il tenente colonnello Pierluigi Meroni, il cui nome tornerà alla ribalta 18 anni dopo con la morte del giovane talento granata quasi suo omonimo, e sarà letto anch’esso come un inquietante segno del destino.
Il velivolo atterra alle 13 all’aeroporto di Barcellona per fare rifornimento. Qui i calciatori del Torino incrociano quelli del Milan che stanno andando a Madrid per giocare a loro volta un’amichevole contro il Real Madrid. Fra questi c’è anche Carappellese, attaccante che vestirà in futuro anche la divisa granata, e racconta di aver visto i giocatori granata distrutti dalla stanchezza.
Il FIAT G.212 riparte alle 14.50, ma, anziché dirigersi a Milano Malpensa, come inizialmente programmato, fa rotta diretta per l’aeroporto di Torino-Aeritalia. Ma chi ha deciso il cambio di destinazione? Ancora oggi resta il mistero, ma si fanno diverse ipotesi.
La prima possibilità è che proprio perché particolarmente stanchi, i giocatori granata e in particolare Valentino Mazzola abbiano chiesto al comandante Meroni di arrivare direttamente a Torino. La seconda è che il cambio di rotta fosse dovuto a motivi di dogana: era probabile che la comitiva avesse fatto acquisti a Lisbona e in caso di arrivo diretto nel capoluogo piemontese avrebbe goduto di controlli più leggeri da parte dei finanzieri rispetto a Milano.
All’altezza di Savona l’aereo vira verso nord, e si prevede arrivi a destinazione nel giro di mezzora. Sta di fatto che a Torino il tempo è pessimo, con nuvole basse e fitte che ricoprono il cielo, pioggia battente, forte vento di libeccio con raffiche e visibilità orizzontale scarsissima (40 metri). Sicuramente non le condizioni ideali per viaggiare. La comunicazione arriva ai piloti del FIAT G.212 alle ore 16.55.
Dopo alcuni minuti di silenzio, alle 16.59 arriva la risposta dall’aereo: “Quota 2.000 metri. QDM su Pino, poi tagliamo su Superga”.
A Pino Torinese, a sud est di Torino, c’è una stazione radio VDF (VHF direction finder), per fornire un QDM (rotta magnetica da assumere per dirigersi in avvicinamento a una radioassistenza) su richiesta. In un’epoca in cui la radionavigazione non disponeva di strumenti tecnologicamente avanzati, normalmente si sarebbe optato per quello che in gergo aeronautico è chiamato QCO, ossia la deviazione del volo verso uno scalo più sicuro, in questo caso Malpensa o Linate. Tuttavia l’ordine da Torino non arriverà mai.
Alle 17:02 l’equipaggio chiama così per l’ultima volta la torre di Torino, per avere conferma dell’angolo di approccio alla pista, che viene confermato. Il pilota, una volta giunto sulla perpendicolare di Pino Torinese, conta dunque di virare di 290 gradi di prua per allinearsi alla pista do Torino-Aeritalia, lasciandosi sulla destra il Colle di Superga con la relativa basilica.
Ma l’aereo, anziché con la pista di atterraggio, si allinea fatalmente con la Collina di Superga: il forte vento di libeccio avrebbe spostato di qualche grado l’angolo di approccio di I-ELCE alla pista, inoltre l’altimetro (si scoprirà nelle indagini che seguiranno l’incidente) è impazzito, bloccandosi a quota 2000 metri, mentre in realtà il velivolo si trova a soli 600 metri dal suolo.
Il pilota è indotto in errore, si vede sbucare davanti la basilica all’improvviso e con una velocità di 180 chilometri orari non può più far nulla. Non risultano del resto tentativi in extremis di riattaccata o virata. Sono le 17.03 del 4 maggio 1949 e il trimotore FIAT G.212 con a bordo il Grande Torino si schianta contro il terrapieno della Basilica di Superga, avvolta in una fitta nebbia. Alle 17.05 Aeritalia Torre chiama I-ELCE, non ricevendo alcuna risposta.
L’aereo si disintegra, scoppia un incendio e i corpi bruciacchiati dei 31 occupanti vengono sbalzati fuori fra il prato e alcune stanze della stessa basilica. Non ci sono sopravvissuti. Qualcuno, dopo il boato generato dall’incidente, urla: “È caduto un aereo!”. Quando le fiamme iniziano a dissolversi, il primo ad accorrere sul luogo della tragedia è il capellano di Superga Don Tancredi Ricca, che stava nella sua stanza al primo piano leggendo il suo libro di preghiere, e subito si trova di fronte uno spettacolo terribile e straziante.
Sul posto arrivano i primi soccorritori. Fra questi anche Amilcare Rocco, muratore che abita a pochi metri dalla basilica, con altre persone. Qualcuno trova una foto per terra e vede che è quella del Torino del 1946. In quel momento si materializza il dramma che è appena accaduto: “Ma quello è il Torino!”, esclama in dialetto. Don Ricca trova le maglie granata con lu Scudetto cucito. Non ci sono più dubbi.
Centinaia di persone provano a salire sul colle. Fra i primi c’è anche Vittorio Pozzo, ex Ct. della Nazionale, cui viene chiesto l’ingrato compito di riconoscere le salme sfigurate dei suoi ragazzi, che i carabinieri stavano via via estraendo.
Accetta e dopo aver individuato le prime salme, fra cui quella di Romeo Menti, che portava sulla giacca una spilla con il simbolo della Fiorentina, sente qualcuno che gli tocca le spalle. “Your boys”, “I tuoi ragazzi”, gli dice un gigante avvolto in un impermeabile.
È John Hansen, il centravanti danese della Juventus, anche lui accorso a Superga per accertarsi con i suoi occhi di quello che era accaduto al Torino. Pozzo ha un primo mancamento. Termina comunque il suo compito, non senza fatica, e la sera davanti ai periti nelle due camere mortuarie del cimitero, deve ripetere il riconoscimento salma per salma.
“Uno per uno, li riconobbi tutti. – annoterà nelle sue memorie – Mi occupai di tutto, fuorché dei portafogli, dopo di aver controllato il contenuto di qualcuno di essi: lasciai al commissario di polizia la ingrata e delicata bisogna. Pochi dei giocatori erano deformati nelle fattezze, parecchi avevano perduto le scarpe od addirittura ambo i piedi come tanti soldati in guerra. Il solo allenatore inglese, Lievesley era perfettamente intatto”.
Quando deve pronunciare gli ultimi 2 nomi, l’ex C.t., che fino a quel momento aveva mantenuto una forza incredibile, stramazza però per terra. Sono Martelli e Maroso, 25 e 23 anni. Gli riconosce per eliminazione, dato che i loro corpi sono completamente straziati.
«Su un lato del terrazzo – ricorderà Pozzo dieci anni dopo – spazzando i rottami, qualcuno aveva già disposto quattro o cinque cadaveri. Erano i corpi, non martoriati, di Loik, di Ballarin, di Castigliano… Li riconobbi, e li nominai, sentendo uno dei presenti che aveva dato un’indicazione errata. Li conoscevo, oltre che dal viso, dagli abiti, dalle cravatte, da tutto. Fu allora che mi accorsi di un maresciallo dei carabinieri, che mi seguiva e prendeva nota di quanto dicevo. “Nessuno meglio di lei…”, sussurrò, mettendosi sull’attenti. Fu allora, mentre rovistavo fra i resti di un po’ di tutto che giacevano al suolo, che un uomo più alto di me ed avvolto in un impermeabile, mi mise una mano sulla spalla e mi disse in inglese: ‘Your boys”, i suoi ragazzi. Era John Hansen della Juventus, accorso fin lassù. Non so se piangessi, in quel momento. Dopo sì».
Il 5 maggio 1949 tutta Italia si risveglia avvolta in un lutto e in un dolore insostenibile, facendo proprie le parole del noto giornalista. Un’intera squadra, quella che era stata forse la più forte di sempre, sconfitta soltanto dal fato, aveva perso la vita nella tragedia aerea di Superga dopo quella disgraziata amichevole giocata a Lisbona. Decisa all’ultimo, con un cambio di programma.
“Se si fosse giocata l’amichevole programmata a Cagliari il 4 maggio, – sottolinea lo storico dello sport, Fadda – sicuramente non sarebbero stati a Torino quel pomeriggio verso le 17. Sarebbero rientrati il giorno dopo, il 5, con una situazione climatica differente e non sarebbe accaduto loro nulla. Purtroppo le cose andarono come sappiamo…”.
Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta”, scrive Indro Montanelli nel suo pezzo commemorativo per il ‘Corriere della Sera’.
Il 6 maggio a Palazzo Madama è allestita la camera ardente, con tutte le bare delle vittime allineate. Oltre mezzo milione di persone presenziano ai funerali, fra cui rappresentanze di tutte le squadre italiane e di molte squadre straniere, un giovane Andreotti a nome del Governo ed il Presidente della FIGC, Ottorino Barassi, che fece l’appello della squadra come se il Torino dovesse scendere in campo.
Il giorno del funerale, Torino è una città distrutta: al passaggio delle salme in molti si inginocchiano singhiozzando, come se in quelle bare ognuno avesse lasciato un pezzo della propria giovinezza. Carlin, su Tuttosport, riferisce il toccante discorso del presidente federale Barassi: «Egli aveva parlato agli atleti racchiusi tutt’intorno (sorridevano i loro ritratti sulle bare) come se sentissero, e ci era parso veramente che sentissero. Aveva assegnato ad essi, ufficialmente, il quinto scudetto consecutivo, li aveva premiati simbolicamente per nome, uno per uno, chiamando anche i giornalisti, i dirigenti, gli uomini dell’equipaggio, infine aveva ancora chiamato Mazzola: “La vedi questa bella Coppa? (e disegnava con le braccia aperte una gran coppa nell’aria). La vedi com’è bella? E’ per te, è per voi. E’ molto grande, è più grande di questa stanza, è grande come il mondo: e dentro ci sono i nostri cuori».
Una vicino all’altra, le bare di Bacigalupo, Martelli e Rigamonti, quelli del “trio Nizza”, com’erano chiamati dalla via in cui abitavano. «Noi tre dobbiamo morire insieme – diceva Rigamonti – perché siamo troppo amici; e tu Martelli, che sei piccolo, ti porteremo in tasca dal Signore Iddio». «Siamo vecchi torinesi – annota ancora Carlin – ma non ricordiamo di aver mai visto nulla di simile, una unanimità così commossa, una vibrazione così profonda».
La FIGC proclama il Torino Campione d’Italia per la 5ª volta consecutiva, con le ultime 4 giornate che vengono disputate dalle formazioni Primavera delle varie squadre. I giovani granata vincono le 4 partite rimanenti, chiudendo il torneo a 60 punti, 5 di vantaggio sull’Inter. Ma è un successo amarissimo. Valentino e gli altri invincibili non c’erano più. Spazzati via troppo presto da un beffardo destino.
Il 26 maggio seguente al Comunale di Torino è organizzata un’amichevole internazionale il cui incasso è devoluto ai famigliari delle vittime di Superga. In campo da un lato ci sono il grande River Plate di Alfredo Di Stefano, dall’altro il Torino Simbolo, una squadra composta da undici fuoriclasse prestati da tutte le squadre italiane, che indossano la maglia granata.
Per il Torino vanno in campo Sentimenti IV, Manente, Furiassi, Annovazzi, Giovannini, Achilli, Nyers, Boniperti, Nordhal, Hansen, Ferrari II, Lorenzi.
È il primo passo per la ripartenza. Ancora sotto shock, la Federazione nel 1950 manderà la Nazionale in Brasile con un’estenuante viaggio in nave, e gli azzurri, fiaccati dal lungo viaggio e privi dei loro giocatori simbolo, vengono precocemente eliminati dai Mondiali.
Ancora oggi a Superga, nel luogo dello schianto, sorge una lapide commemorativa davanti alla quale una delegazione del club granata ogni anno va in visita per ricordare i suoi campioni. Lo Stadio Filadelfia, luogo simbolo in cui quella squadra giocava, è stato recentemente recuperato dalla società e modernizzato per ospitare gli allenamenti della Prima squadra e le Giovanili, mentre agli ‘Invincibili’ è stato intitolato lo Stadio Olimpico del capoluogo piemontese.
Nell’incidente morirono anche i dirigenti della squadra e gli accompagnatori, l’equipaggio e tre noti giornalisti sportivi italiani: Renato Casalbore (fondatore di Tuttosport); Renato Tosatti (della Gazzetta del Popolo, padre di Giorgio Tosatti) e Luigi Cavallero (La Nuova Stampa).
Lo spezzino Sauro Tomà, infortunato al menisco, non prese parte alla trasferta portoghese; non presero quel volo neanche il portiere di riserva Renato Gandolfi (gli fu preferito il terzo portiere Dino Ballarin, fratello del terzino Aldo, che intercedette per lui), il radiocronista Nicolò Carosio (bloccato dalla cresima del figlio), Luigi Giuliano (capitano della Primavera del Toro e da poco tempo in pianta stabile in prima squadra, fu bloccato da un’influenza) e l’ex C.T. della Nazionale nonché giornalista Vittorio Pozzo (il Torino preferì assegnare il posto a Cavallero).
Neanche Mazzola era ancora del tutto guarito dalla sua influenza, ma come poteva rinunciare a quella trasferta che proprio lui aveva organizzato? Invano un altro grande giornalista e disegnatore di Tuttosport, Carlin Bergoglio, aveva cercato di persuaderlo: «Non andare, sei ancora malato». «I campioni e lo sport vanno onorati degnamente», sosteneva capitan Valentino
Tommaso Maestrelli, invitato ad aggregarsi alla squadra per l’amichevole da Valentino Mazzola pur giocando nella Roma, non prese il volo poiché non riuscì a rinnovare in tempo il passaporto. Anche il presidente del Torino Ferruccio Novo non prese parte al viaggio perché influenzato.
il Grande Torino era da tempo al di sopra del tifo di parte e delle beghe di campanile. Era l’orgoglio di tutti; un simbolo della rinascita italiana dopo le piaghe di guerra; un inno alla gioventù, alla forza, alla lealtà.