MARTE – La vita sul Pianeta rosso, se esiste, deve affrontare condizioni ambientali sfavorevoli. Non tanto per l’assenza di acqua, che potrebbe formarsi in piccole quantità da un processo noto come deliquescenza, quanto per la presenza di sali, in grado di distruggere la struttura tridimensionale di Dna, Rna e proteine.
Nonostante gli enormi sforzi della comunità scientifica, finora la ricerca di vita su Marte ha dato esito negativo. Ma se esistesse, probabilmente nella forma più semplice che riusciamo a immaginare, che tipo di sfide dovrebbe affrontare?
La vita come la conosciamo richiede energia e la presenza di carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo e zolfo, elementi indicati dagli addetti ai lavori con l’acronimo CHNOPS. Ma anche oligoelementi e acqua liquida. Su Marte, l’energia potrebbe essere fornita dalla luce solare o da processi chimici. Il carbonio è disponibile nella sottile atmosfera sotto forma di anidride carbonica, mentre gli oligoelementi sono abbondanti nella regolite, lo strato di polvere fine che ricopre la superficie del pianeta. Il problema è la disponibilità di acqua liquida, fortemente limitata a causa della bassa pressione atmosferica – oltre cento volte inferiore rispetto alla Terra (circa 6 millibar contro i circa mille millibar della Terra) – e delle temperature prevalentemente sotto lo zero. Una delle poche possibilità di generare acqua sulla superficie di Marte è attraverso la deliquescenza, un processo in cui un sale igroscopico assorbe vapore d’acqua dall’atmosfera, generando una soluzione salina; un processo che sarà testato in situ con lo strumento Habit (HabitAbility: Brine Irradiation and Temperature) del rover ExoMars Rosalind Franklin dell’Esa (l’esperimento si chiama Bottle (Brine Observation Transition To Liquid Experiment)), che ha come ulteriore obiettivo anche quello di indagare l’eventuale abitabilità di queste salamoie.
Sulla superficie di Marte sono stati rilevati diversi sali igroscopici. Tra questi ci sono i perclorati: sali capaci di attrarre e trattenere l’acqua tramite assorbimento o adsorbimento dall’atmosfera, subire deliquescenza e potenzialmente creare piccole salamoie. L’acqua così prodotta sarebbe sufficiente a sostenere il metabolismo di eventuali microorganismi. Ma c’è un problema, anzi due: l’elevata salinità che avrebbe quest’acqua, in grado di modificare l’equilibrio osmotico delle cellule, e l’effetto caotropico dei perclorati, cioè la capacità di questi composti di distruggere la struttura tridimensionale delle macromolecole biologiche: Dna, Rna e proteine.
E qui arriviamo alla sfida di cui abbiamo parlato al primo capoverso: come riuscire a vivere in queste condizioni. Per capire quali adattamenti fisiologici sarebbero necessari affinché un ipotetico microrganismo marziano possa sopravvivere a questi stress, un team di ricercatori guidato dall’Università tecnica di Berlino (Tu Berlin) ha studiato la risposta specifica a queste condizioni e i processi cellulari correlati in un organismo modello in grado di sopportare bene differenti concentrazioni saline: il lievito Debaryomyces hansenii.
«Per comprendere la potenziale vita microbica su Marte è importante scoprire come i microrganismi affrontino tali fattori di stress, perché solo se sviluppano una buona risposta possono far fronte alle alte concentrazioni di sale e trarne vantaggio con la deliquescenza e l’abbassamento del punto di congelamento», dice Jacob Heinz, ricercatore alla Tu Berlin e primo autore dello studio, pubblicato sulla rivista Environmental Microbiology, che riporta i risultati della ricerca.
Per valutare l’eventuale risposta, i ricercatori hanno preso una coltura madre di questi organismi unicellulari eucarioti e l’hanno divisa in cinque popolazioni uguali. Quattro sono state fatte crescere in terreni di coltura liquidi contenenti ciascuno concentrazioni diverse del sale perclorato di sodio (NaClO4) e del cloruro di sodio (NaCl) – i campioni trattati. La quinta è stata fatta crescere in un terreno senza sali – il campione di controllo. Dopo diversi giorni di crescita, le cellule sono state raccolte e centrifugate per estrarne le proteine. L’estratto, infine, è stato sottoposto a un’approfondita analisi proteomica per valutare, all’interno del set completo di proteine cellulari e tra campione di controllo e trattato, quali di queste macromolecole fossero sovra-regolate e quali invece sotto-regolate. E all’interno dei campioni trattati, per verificare cosa cambiava nel panorama proteico tra cellule cresciute con perclorato e cellule cresciute nel comune sale da cucina, l’NaCl.
Il risultato? I ricercatori hanno scoperto che le risposte allo stress causato dai due sali condividono molte caratteristiche metaboliche comuni – ad esempio le stesse vie di segnalazione dello stress, l’aumento del metabolismo energetico e la formazione di composti in grado di regolare l’equilibrio salino all’interno delle cellule e mantenere il corretto volume cellulare. Ma non tutte.
«Abbiamo identificato anche diverse nuove risposte specifiche del perclorato, come ad esempio la glicosilazione delle proteine e il rimodellamento della parete cellulare, attuate presumibilmente per stabilizzare le strutture proteiche e la membrana cellulare», sottolinea Hans-Peter Grossart, ricercatore al Leibniz Institute of Freshwater Ecology and Inland Fisheries (Igb) di Berlino e coautore della pubblicazione. «Queste reazioni allo stress sarebbero di grande importanza anche per presunte forme di vita su Marte».
«Se cerchiamo la vita su Marte, dobbiamo avere una mentalità aperta, perché i microbi marziani indigeni – se esistono – si sono certamente adattati alle condizioni ambientali presenti attraverso processi biochimici diversi, che potrebbero non verificarsi sulla Terra», aggiunge il ricercatore della Tu Berlin, e coautore dello studio, Dirk Schulze-Makuch. Ma se indaghiamo come gli organismi sulla Terra affrontino i fattori stressogeni presenti su Marte, quali ad esempio i perclorati, avremo i primi indizi su come la vita su questo pianeta potrebbe far fronte alle difficili condizioni ambientali».