La concentrazione quando muoio
di Emanuele Fant
Il mio insegnante di scuola guida un giorno mi lasciò a bocca aperta: “Adesso non azzecchi una marcia. Io ti dico, però, che arriverà un momento in cui saprai guidare mentre parli col vicino e regoli il volume dell’autoradio”. Quella desiderabile capacità-multitasking sarebbe stata la conferma che la guida faceva ormai parte delle mie abilità, così interiorizzata da seguire di per sé i suoi protocolli, senza intervento razionale. Conoscendo la mia poca attitudine ai motori, la profezia mi sembrò campata in aria. Eppure, quel giorno venne davvero. Tutt’oggi, specie con due bimbi, so fare un gran numero di cose mentre guido. Anche, ad esempio, scrivere parte di questo post. Fine della premessa.
Se c’è una cosa che odio è avere l’influenza a Natale. Vedere le lasagne e altre cose deliziose e non provare il desiderio di inghiottirle mi sconforta, confonde la mia idea di me. Quest’anno ho avuto l’influenza a Natale. Come molte mogli sostengono, i maschi accolgono i virus con qualche eccesso di tragicità. Io, naturalmente, non sono uno di quelli. Da solo, in camera, al buio, mi è parso il caso di ordinare due o tre cose in vista della mia possibile promozione alla milizia celeste (se aveste avuto un mal di testa come il mio, allora sì che capireste).
Ogni volta che non sono in salute mi intestardisco sullo stesso nodo: possibile che il momento fondamentale della mia esistenza, ovvero il passaggio alla vita eterna, succederà proprio quando non sto bene? Se uno ha mal di denti, non fissa un colloquio di lavoro. Se uno ha trentanove di febbre, rimanda un esame all’università. Lo fa perché l’esame o l’incontro sarebbero viziati dalla scarsa lucidità, dalla distrazione che si accompagna al dolore. E allora perché il mio Appuntamento per eccellenza è già fissato proprio per quando avrò tutt’altro per la testa? Inoltre, avrò quel -tutt’altro- in sommo grado, perché quando muori non si parla di gastrite o vesciche, ma di un male intenso sul serio.
Possiamo anche ipotizzare che una volta in vetta alla sofferenza materiale ci aspetta un rifugio di non-dolore, dove possiamo sederci e bere qualcosa, per poi affrontare in piena forza l’ultimo salto verso l’Eterno. Possiamo ipotizzarlo, ma non darlo per scontato, dato che nessuno è tornato indietro e ha aperto un blog per raccontarlo. Io, nelle mie riflessioni private e non teologiche, parto da quel che vedo: la gente muore soffrendo, consumata, svuotata.
La disgregazione del corpo a favore dello spirito è una cosa che mi ha spiegato una famosa monaca. Lei è talmente una professionista nel campo, che appena sono uscito dal parlatorio già non ero più sicuro di avere avuto di fronte qualcuno in carne e ossa. Comunque, con parole più belle e più giuste, la pallidissima madre, mi ha insegnato un’evidenza che mi ha cambiato l’umore per anni: il corpo deve disfarsi, mentre lo spirito, per nostra iniziativa, deve seguire il percorso inverso: irrobustirsi. Comprendendolo, possiamo avviare già dalla terra quel processo che salverà il nocciolo di noi.
Oh, che bel mondo sarebbe, con le palestre di pilates riconvertite a cattedrali, se tutti ci credessimo davvero! Allora sì che avrebbe senso festeggiare i compleanni, ma pure ogni ruga e cicatrice, come fossero maniglie nuove sulla parete liscia che ci porta a Dio.
Risolto il problema dei danni al corpo mentre vivo, resta quello della scarsa concentrazione in prossimità del passo estremo. La mia soluzione privata si rifà all’ insegnante di scuolaguida della premessa, alzando un po’ gli obiettivi. Tutti i giorni che mi separano dal Cielo, hanno una funzione precisa che travalica anche l’accumulo del TFR: servono all’allenamento. Servono ad entrare così in confidenza con l’Eterno, da rendere immediato e non più pensato il nostro dialogo. In questa maniera non ci sarà iceberg contingente da temere, perché la rotta fatta mille volte, la si percorre pure ad occhi chiusi. Quando rivolgermi a Lui sarà la cosa più spontanea che so fare, allora attraverserò volentieri tutto il dolore che posso, con il pilota automatico e senza più parole.