Merillon – Nel 2019 i Marillion festeggiano 40 anni di carriera e lo fanno con un album, “With Friends From The Orchestra”, in cui rileggono alcuni dei loro brani. Sono arrivati, acclamati ed attesi da fan di tutte le età, in Italia ed hanno deciso di esibirsi in due bellissime città, Roma e quel “piccolo gioiello” di Padova, dapprima all’’Auditorium di Roma il 12 dicembre e al Gran Teatro Geox di Padova il 13, due serate di grande successo.
Noi vi raccontiamo quella di Roma, una serata di spettacolo della città eterna che i presenti ricorderanno a lungo.
Ripercorrendo quasi tre decadi di carriera, la band britannica in formazione allargata si è esibita davanti ad un pubblico provenienti da mezza Italia due ore e venticinque minuti di spettacolo ed emozioni.
Accompagnato da un ensemble di sei elementi, il gruppo capitanato da Steve Hoagarth ha proposto agli spettatori 11 brani nelle quali i suoni del rock-prog sono stati impreziositi dalle suggestioni della musica sinfonica.
Il concerto si è snodato lungo le vie dell’impegno civile, sociale e politico, è avanzato per paradigmi esistenziali, ha raggiunto vette elevate di poesia.
Nella vita nessuno se la cava senza un graffio: l’oscurità è sempre in agguato, possiede diverse forme, si manifesta con modalità differenti e abita molti “luoghi”. L’oscurità è dentro di noi, arriva dalle relazioni interpersonali, si nutre dell’indifferenza e dei soprusi, ci aggredisce attraverso la brama di potere e il cinismo dei “nuovi re”. Ma fortunatamente c’è il Bene
Le canzoni dei Marillion sono battaglie per la il bene ed il bello, con sguardi puntati verso le ingiustizie del nuovo capitalismo e del neo liberismo, riflessioni profonde sull’individuo e il suo rapporto con l’altro, sprazzi di poesia e di speranza. Insomma alla buona musica si aggiungono temi di grande interesse!
La “festa” ha avuto il suo inizio alle 21.16 con Gaza, il lunghissimo brano di apertura di Sounds That Can’t Be Made (2012) che descrive con realismo le condizioni drammatiche ed estreme nelle quali continuano a vivere i palestinesi: “quando ero giovane, tutto sembrava un gioco / vivere qui non mi ha portato nessun senso di vergogna /ma ora che sono più vecchio, inizio a capire / una volta avevamo case, una volta possedevamo territori / fecero piovere proiettili su di noi mentre le nostre case crollavano / eravamo sotto le macerie, terrorizzati”.
La canzone non è, però, contro il popolo ebraico e non approva alcun tipo di soprusi e violenze (“per ogni pietra lanciata da una testa calda ne tornano indietro cento”), solleva interrogativi importanti (“quando la gente sa di non avere futuro, si può biasimare se non riusciamo a domarla?”) e si avvia alla conclusione con una drammatica certezza : “essere obbligati a vivere in questo modo è semplicemente ingiusto”.
Arrivano poi i toni introspettivi che descrivono in maniera chiara l’ossessione d’amore narrata in prima persona in Beyond You (Afraid of Sunlight, 1995): “non posso vivere con me stesso, non posso avere un aiuto, cerco di volerlo, ma non riesco ad andare oltre te”.
La terza canzone si rivolge all’ambiente: con Seasons End, tratta dall’omonimo album del 1989 (il primo con il cantante Steve Hogarth), i Marillion cantano: “racconteremo ai figli dei nostri figli perché siamo diventati così grandi e siamo arrivati così in alto, abbiamo lasciato le nostre orme sulla terra e abbiamo aperto un buco nel cielo, spiegheremo loro come abbiamo cambiato il mondo e il modo in cui abbiamo domato il mare e le stagioni che non conosceranno mai”.
Come non evidenziare le tastiere di Mark Kelly, mentre gli archi del quartetto tutto al femminile “In Praise of Folly”, il corno francese di Sam Morris e il flauto di Emma Halnan aggiungono al brano suggestioni classiche che hanno l’intento (ben riuscito) di evidenziare le sofferenze della Terra maltrattata dall’uomo.
Dal bordo del palco Steve Hogarth al termine del brano presenta l’orchestra: “Abbiamo due violini, in caso di emergenza”, dice scherzando con il pubblico in delirio.
A seguire le “dure” riflessioni sulla perdita contenute in Estonia (This Strange Engine, 1997). “Trovare la risposta è un’ossessione umana, sarebbe lo stesso se tu parlassi con le pietre e gli alberi e il mare, perché nessuno sa e così pochi possono vedere che ci sono soltanto bellezza e premura e verità oltre l’oscurità”. Ed ancora: “nessuno ti lascia quando tu vivi nel suo cuore e nella sua mente, e nessuno muore, se ne va soltanto dall’altra parte” e sono brividi forti per chiunque sappia cosa significa perdere (su questa Terra) qualcuno di caro.
Dopo lo show del bassista Pete Trewavas vautentico protagonista di You’re Gone (Marbles, 2004) ecco giungere The New Kings (F.E.A.R., 2016).
Si tratta di una critica senza appello del capitalismo moderno, una fotografia spietata del neo liberismo e delle menzogne e delle sperequazioni sociali ed economiche che tutto questo comporta.
Fuck Everyone And Run, ha il compitpo di fare il quadro della situazione: “noi siamo i nuovi Re, solchiamo i nostri mari di diamanti e oro… facciamo come vogliamo mentre voi fate ciò che vi viene detto”.
Quindi quello che può essere considerato il chiaro attacco che “i padroni della Terra” rivolgono alle masse: “il nostro mondo orbita intorno al vostro e si gode la vista: da questa altezza non vediamo i bassifondi e i barboni per strada… siamo troppo grandi per cadere e quando lo facciamo siete voi che ci rimettete”.
I “nuovi re” non si accontentano di prendersi tutto, vogliono e devono strafare, umiliare la gente dopo averla spogliata dei diritti e della dignità.
In Russia’s Locked Doors, si scende nello specifico e si identificano i “nuovi re” A Scary Sky, sottolinea la sensazione di impotenza della gente: “non so se riesco a credere nelle notizie: possono fare qualsiasi cosa al giorno d’oggi”.
Nella quarta e conclusiva parte, Why is Nothing Ever True?, si rivolge uno sguardo al passato, al tempo in cui le persone erano sicure di appartenere ad una collettività e si cantava l’inno nazionale con il cuore. Oggi la popolazione mondiale vive con il compito di accrescere il benessere e il potere dei nuovi re.
Si giunge poi alla parte romantica del concerto dei Merillon. Ecco la speranza di superare le incomprensioni contenuti in The Sky Above The Rain (Sounds That Can’t Be Made): “forse parleranno / anima ad anima / testa a testa / cuore verso cuore / gli occhi negli occhi / alzandosi verso quello spazio blu sopra le nuvole / dove i problemi muoiono / e le lacrime si asciugano… in quel posto dove il sole non smette mai di splendere / La pioggia è sotto di noi”.
Afraid of Sunlight (Afraid of Sunlight): “come siamo arrivati ad aver paura della luce del sole? Dimmi, ragazza, perché tu ed io siamo spaventati dalla luce del sole?”.
The Space… (Seasons End, 1989) è un viaggio nell’unuverso, una dichiarazione d’amore infinito per l’umanità, per un’umanità che merita il meglio è può impegnarsi per arrivare a tale risultato. Ogni individuo, ognuno di noi, si rispecchia nell’altro.
Quindi qualche minuto dopo le 23 l’acclamatissimo bis dei Merillon. Ocean Cloud (Marbles) e per chiudere This Strange Engine .
L’orologio segna la 23.36, il tempo è volato più velocemente del solito, la musica è questo emozioni, natura, bellezza.
Il cantante Steve Hogarth:
Tutto lo show è realizzato con l’orchestra. Il nostro produttore Michael Hunter si è occupato degli arrangiamenti, li ha arricchiti…. Abbiamo scelto i brani che pensavamo fossero più adatti a questo tipo di arrangiamento e non quelli più famosi. A proposito di “A Collection”, credo sia stata una proposta di Mark Kelly (il tastierista – ndr). Sono convinto sia una gemma da riscoprire, tanto che all’epoca, nel 1991, anche se era una b-side la suonavamo in concerto. Ma d’altronde noi non siamo una band che ha mai badato troppo all’aspetto commerciale…
Sì, se fossimo stati interessati a quell’aspetto avremmo scritto qualche pezzo ruffiano in più nel corso degli anni. Ma noi preferiamo concentrarci sulla qualità della musica e sulla sua spontaneità. Siamo stati fortunati a trovare il modo di cavarcela anche con questo approccio, perché molti artisti devono essere sempre attenti all’aspetto commerciale o perché vogliono fare più soldi o perché vogliono avere sempre più successo. Noi fortunamente ci siamo creati questa bolla in cui possiamo permetterci di guardare solo all’aspetto artistico.
La gente ha capito che con noi non puoi sapere prima cosa aspettarti e, anzi, ci apprezza per questo. Tanto che da anni, quando pubblichiamo un nuovo album, siamo soliti lanciare delle campagne online dove lo si può comprare in anticipo, in cambio di un’edizione di lusso, e i fan che lo acquistano al buio, senza sapere cosa conterrà, sono sempre tantissimi. Hanno fiducia in noi, si è creato un rapporto unico con i fan.
Il modo migliore per ripagarlo è essere noi stessi. Nel corso degli anni ci siamo sentiti sempre più liberi e questa è una grande fortuna. Possiamo creare soltanto seguendo il nostro istinto, senza pensare al mercato o a quello che vorrebbero i fan o a quello che abbiamo fatto prima.
Ognuno di noi ha interessi musicali propri e spesso molto diversi. Ma non li portiamo dentro il gruppo. Anche perché il nostro modo di comporre è abbastanza inusuale. Noi ci incontriamo in studio e suoniamo improvvisando quello che ci viene sul momento. Facciamo questo per mesi registrando tutto. Alla fine il nostro produttore, Mike, prende tutto questo materiale e scova le cose più interessanti, magari mettendo insieme spunti che sono emersi uno a mesi di distanza dall’altro. Dopodiché ci lavoriamo sopra In questo modo le canzoni non nascono mai a tavolino, quello che cerchiamo è uno spunto che sia fortuito e brillante.
L’ultimo album di inediti, “F.E.A.R.” risale al 2015. Al momento state lavorando su materiale nuovo?
In effetti è passato molto tempo ma siamo stati a lungo in tour. La scorsa estate abbiamo iniziato a suonare in studio ma poi siamo partiti per questa nuova serie di concerti. Quindi al momento abbiamo gli hard disk pieni di registrazioni sulle quali ancora non abbiamo iniziato a lavorare. Quindi ne riparleremo almeno per l’anno prossimo.
foto di Giusy Chiumenti