Movienerd – Nelle sale “Sposa in Rosso” di Gianni Costantino

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Movienerd – E’ nei cinema, distribuita da Adler EntertainmentSPOSA IN ROSSO, la nuova commedia corale di Gianni Costantino. Il film, prodotto da Fenix Entertainment e Vision Distribution vede come protagonisti l’attrice Sarah Felberbaum e l’attore spagnolo Eduardo Noriega, affiancati da Massimo Ghini, Anna Galiena, Cristina Donadio, Dino Abbrescia, Maurizio Marchetti e Roberta Giarrusso.

SPOSA IN ROSSO, scritta da Gianni Costantino con Lorenzo Ciorcalo e Francesca Scialanca, nasce come una crime story e si trasforma in una commedia frizzante per poi esplodere in una originale e appassionante storia d’amore, quella di Roberta (Sarah Felberbaum) e Leòn (Eduardo Noriega).

La storia si dipana e gioca sugli equivoci tipici della commedia all’italiana e porta i due protagonisti a vivere una stramba relazione disseminata di ostacoli, in cui i due provano a cambiare le loro rispettive esistenze per poi prendersi la rivincita che meritano. E forse anche qualcosa di più…

LA STORIA

Roberta (Sarah Felberbaum) e Leòn (Eduardo Noriega) si incrociano per caso in autobus a Malta. Lei è incinta, gli sviene tra le braccia. Lui la soccorre e viene scambiato per il padre. Quando il giorno dopo si presenta in ospedale per accertarsi delle condizioni di Roberta dopo il parto, lei lo presenta come il padre del bambino ai suoi genitori e al fratello, appena arrivati dalla Puglia. La messa in scena di cinque minuti ideata da Roberta per liberarsi della presenza ingombrante dei familiari evolve in una truffa tra due quarantenni precari in cerca di riscatto. 

Lei, donna indipendente e orgogliosa, ha sempre viaggiato e ora fa la guida turistica nell’isola di Malta. Rimasta incinta in seguito a una storia con un uomo che non ha voluto prendersi le proprie responsabilità.

Lui, giornalista spagnolo precario, è stato appena sfrattato di casa. Un uomo dall’animo buono ma ancora immaturo che vive una situazione simile a quella di Roberta; la sua esistenza è tutta un po’ alla deriva. 

Roberta e Leòn, privi di prospettive, decidono quindi di inscenare in Puglia un matrimonio finto per dividersi i soldi delle buste che parenti e amici regalano agli sposi.

Intorno a loro si muovono diversi personaggi. Centrale è sicuramente la figura di Lucrezia (Anna Galiena), madre di Roberta, che incarna la tradizione immersa nel mondo contemporaneo. Il cliché rivisitato in coriandoli trash, kitsch, pop. Il colore supersaturo di un’Italia da soap opera che all’improvviso si desatura in spaccati di autenticità. Una donna autoritaria, “decadente” e aristocratica.

La affianca Alberto (Maurizio Marchetti), il padre di Roberta, figura sfuggente e solitaria. Quasi aliena. In grande sintonia con la figlia, Alberto coltiva una propria ostinata estraneità ai riti e alle questioni di famiglia. Tanto da meditare di abbandonarla in cerca di libertà. A trattenerlo sarà un tenero e sincero amore che nonostante tutto nutre ancora nei confronti della moglie. Una pervicace volontà di salvarla.

A cercare di far naufragare il piano degli sposi c’è Sauro (Dino Abbrescia), fratello di Roberta, frustrato, tracotante e possessivo. È da subito convinto che Leòn nasconda un passato compromettente e che il matrimonio sia un espediente architettato dalla sorella per sottrargli l’eredità che gli spetta.

Ma Roberta e Leòn possono anche contare su due preziosi alleati: Giada (Cristina Donadio), sorella di Lucrezia e zia di Roberta, costumista teatrale in rotta da sempre con la famiglia tradizionalista. Figura di riferimento per la nipote che l’ha sempre percepita come un modello alternativo a Lucrezia, una preziosa confidente e un rifugio sicuro.

L’altro complice è Giorgio (Massimo Ghini), pittoresco fotoreporter amico e mentore di Leòn, divertito all’idea di calarsi nel ruolo del finto prete. 

A loro si aggiunge Rita (Roberta Giarrusso), moglie di Sauro, apparentemente immersa in una vita perfetta, ma che realizzerà anche grazie all’arrivo di Leòn che c’è qualcosa di sbagliato nella sua vita e soprattutto nel suo matrimonio.

Roberta e Leòn una volta messo in moto il meccanismo ne saranno quasi travolti. Dovranno fare i conti con i loro sentimenti e paradossalmente la parodia della coppia perfetta porterà alla luce una nuova realtà.

Dietro il racconto di un’avventura travolgente si nasconde una bizzarra storia d’amore ma anche una sofferta riflessione sul rapporto tra realtà e finzione. Sul valore della fiaba come antidoto alle verità deludenti della vita.

Una commedia dei sentimenti. E tra realtà e finzione la promessa di una grande storia d’amore. 

 

NOTE DI REGIA di GIANNI COSTANTINI

Sposa in Rosso è una “strana” storia d’amore, ma non solo. 

Sposa in Rosso è anche una singolare truffa di una coppia di precari, e non solo.

Sposa in Rosso è anche la voglia di riscatto di una generazione, crearsi un’opportunità in una vita senza opportunità.

Sposa in Rosso è soprattutto una commedia romantica. Con una particolarità.

La vera storia d’amore inizia quando il film finisce.

Sposa in Rosso è una storia che avevo in testa da molto tempo anche perché tocca dei temi che mi sono cari.  Già nel mio precedente film Tuttapposto (2019) mettevo in scena una ribellione dei figli verso le famiglie e i genitori, ma in quel caso i protagonisti erano giovani universitari. Stavolta sono andato un pò più in là con l’età cercando di raccontare una generazione, quella dei quarantenni, nei confronti dei quali spesso la vita si accanisce. Perché si tratta di una generazione che non ha tanti punti di riferimento, una generazione indefinita. Troppo vecchia per essere millennials, troppo giovane per essere x. Una generazione schiacciata da quella precedente, quella dei genitori, e divorata da quella successiva. Che ha faticato a trovare un posto nel mondo.

I due protagonisti, Roberta (Sarah Felberbaum) e Leòn (Eduardo Noriega), infatti si muovono in un’incertezza emotiva costante, annaspano in uno stato di precarietà non solo lavorativa ma esistenziale e non avendo ancora trovato una loro strada finiscono inevitabilmente per scontrarsi con la famiglia, con la tradizione, con le aspettative degli altri. Con un dover essere che non li rappresenta. Il fattore economico nel dipanarsi della storia è scatenante ma è quello identitario il più bruciante. Chi siamo. Chi avremmo voluto essere. Chi possiamo ancora diventare.

La traccia è semplice. Roberta, italiana a Malta con un figlio senza un lavoro e senza un progetto di vita, incontra per caso un giornalista spagnolo, Leòn, quarantenne precario come lei e lo convince a sposarla per finta per intascare i soldi delle “buste” che in Puglia gli invitati regalano agli sposi.

Roberta e Leòn si ritrovano così a dover recitare e costruire con fatica la loro intesa, la loro unione, il loro matrimonio anche se è finto. Durante la preparazione del matrimonio i due devono fingere di amarsi ma finiscono sempre per litigare, proprio perchè iniziano ad entrare in gioco i sentimenti veri. E in questa simulazione sta la cifra del loro rapporto di coppia che potrà solo alla fine evolvere in un confronto più sincero. Una sincerità a cui potranno giungere solo con le bugie. 

Insomma questo “finto” matrimonio alla fine sarà la soluzione alle loro frustrazioni, alla loro ansia di realizzarsi, anche al timore della solitudine. Ma non sarà scontato trasformare una singolare truffa nella storia d’amore di una vita. 

Roberta e Leòn insieme comprendono che a volte il realismo è sopravvalutato, che la finzione può essere la via per giungere a un’altra verità. Per entrambi e forse anche per il pubblico il senso del film sarà in questa scoperta.

La vicenda procede quindi con il gusto consapevole della finzione, delegando a una vorticosa galleria di “maschere” il ritratto contemporaneo di un paese congelato nell’eterna riproposizione degli stessi crismi. I personaggi che fanno da contorno alla storia si interfacciano in un gioco di specchi deformati in cui ciascuno vede ciò che vuole vedere.   Il linguaggio narrativo adotta il codice di un continuo disvelamento, giocando con la rappresentazione e il camuffamento sia delle intenzioni che dei sentimenti. Funzione chiave è appunto quella della maschera. 

Il film ha una forte impronta femminile, anche matriarcale. L’impatto dei due protagonisti con la famiglia pugliese di Roberta, i Caradonna, farà emergere questo aspetto. Un’asfissiante famiglia del sud, esagerata nei suoi affetti e nei suoi difetti, che darà tutto il colore che serve a un film di uomini sfuggenti, inadeguati e di donne al contrario dominanti e totalizzanti. Un ambiente in cui la maschera è lo scudo, sia di chi rimane a difendere la tradizione (Lucrezia e le tre zie) sia di chi cerca un’altra identità (zia Giada), un altro mondo, un’altra vita.

Una frase portante del film e “Litigare è il nostro modo di volerci bene”.  Questo concetto io lo trovo fondamentale: dove c’è rumore c’è vita mentre il silenzio è morte, è disinteresse, è indifferenza.  Roberta riavvicinandosi alla famiglia prende coscienza di sé e il suo nuovo ruolo di madre l’avvicina anche a Lucrezia che ha sempre tenuto distante.

In fondo in questo film non ci sono buoni o cattivi. Come diceva il maestro Monicelli: “Quando si racconta una storia i giudizi morali lasciateli al pubblico”.