Movienerd – Francese di origine tunisina, Manele Labidi ritrova le sue radici attraverso l’epopea di Selma, eroina scapigliata in bilico tra due culture. Disorientata come la sua psicanalista davanti a un paese in mutazione, la regista sceglie la commedia e si confronta con le barriere culturali della pratica analitica.
Il primo apprezzamento da fare su “Un divano a Tunisi” è la scelta di affrontare il suo soggetto con il sorriso. Manele Labidi comprende tutto il potenziale comico della situazione e la dimensione assurda di una società schizofrenica che rifiuta un aiuto psicologico. La comicità affiora a ogni seduta, provocando scene esilaranti e collezionando una galleria di ritratti irresistibili (e stonati): un imàm che ha perso la ‘fede’ e la moglie, un’esuberante proprietaria di un salone di bellezza che ha un rapporto difficile con la madre, un paranoico che sogna presidenti e dittatori, un adolescente ribelle pronta a tutto pur di lasciare la Tunisia, un poliziotto reazionario. In Tunisia c’è stata la Primavera araba, ma forse aprire uno studio da psicanalista per una donna è ancora troppo presto…
Selma (Golshifteh Farahani) è una giovane psicanalista dal carattere forte e indipendente cresciuta a Parigi insieme al padre, quando decide di tornare nella sua città d’origine, Tunisi, determinata ad aprire uno studio privato le cose non andranno come previsto…. La ragazza si scontrerà con un ambiente non proprio favorevole, i suoi parenti cercheranno di scoraggiarla, lo studio inizierà a popolarsi di pazienti alquanto eccentrici…
La regista Malene Labidi ci racconta: l’idea per questo film mi è venuta il giorno in cui ho detto a mia madre che ero in analisi. Ho avuto paura che morisse. Come hai osato? Dopo tutti i sacrifici che ho fatto per te? Come giustifichi di aver scelto di partecipare attivamente alla demolizione della tua cultura, della tua famiglia? Di uccidere tuo padre? Tua madre? Edipo? Ma come, vuoi liberarti del peso di tutta la tua vita raccontandola ad un estraneo? Come caspita potrebbe esserti di qualche aiuto? Quanto costa? In contanti? Preoccupazioni di ordine economico, sentimenti di tradimento, paura, stupore, delusione… Per una donna tunisina, musulmana e tradizionalista come mia madre, era decisamente troppo. Quel giorno ha fatto nascere in me il desiderio di osservare più da vicino la Tunisia, dove vive ancora gran parte della mia famiglia, e di ambientare lì il mio film. La pratica psicoanalitica resta tuttora marginale nel paese, malgrado i tentativi di introdurla risalgano agli anni 1950. Selma decide di esercitare a Tunisi in modo da poter ascoltare gli abitanti della capitale incoraggiandoli ad esprimersi liberamente in un periodo in cui l’intero paese sta scoprendo e sperimentando per la prima volta la libertà di pensiero e di parola. Le motivazioni inziali di Selma sono semplici e razionali: vuole portare la sua professionalità in un paese che ha appena vissuto una rivoluzione e sta iniziando ad aprirsi ma soffre di una carenza di psicoanalisti e psicoterapeuti per le classi operaie. Ma Selma è tornata nel suo paese anche per fare i conti con il suo passato. Ristabilire il legame con la storia della sua famiglia, per arrivare a confrontarsi con essa, le sarà di aiuto per portare a termine il suo personale percorso terapeutico. Il ritorno alle origini inizia lentamente a scalfire la sua maschera. Scegliendo di esercitare la sua professione nella sua madrepatria, Selma cerca di rimediare alla sofferenza patita in silenzio da sua madre, sofferenza che l’ha portata a togliersi la vita. Ed è un aspetto di cui assumerà consapevolezza quando le sue aspirazioni saranno messe alla prova.
Quando arriva in Tunisia, Selma è un’estranea. La sua professione disorienta la gente, che non la capisce. È a suo agio con la sua androginia e ignora i codici della femminilità nordafricana. Rifiuta l’idea del matrimonio e della famiglia, canalizzando le sue energie nel lavoro. È soddisfatta di essere single all’alba dei quarant’anni, una donna solitaria che coltiva la solitudine. Il suo desiderio di stare sola è messo a dura prova dalla configurazione del luogo dove vive. Si è trasferita in una casa costruita e arredata da un padre che credeva nel “mito del ritorno” in cui si ritrova circondata da chiassosi e invadenti vicini. Oltre ai suoi pazienti, incontra Naïm, un poliziotto più giovane di lei, il cui aspetto e idealismo si scontrano con i suoi, malgrado un accenno di reciproca attrazione. Ho circondato Selma di una galleria di personaggi che ho creato con lo scopo di cogliere l’energia pressoché incessante della loro vita quotidiana a casa, in automobile o a tavola in cucina. Un’energia che è stata amplificata dalla rivoluzione che ha scagliato le persone in un territorio incerto e pericoloso con l’ascesa del terrorismo islamico. Ciascuna delle persone con cui Selma entra in contatto ha una sua sofferenza, visibile o nascosta dietro una facciata. Sono personaggi liberamenti ispirati alla mia famiglia tunisina borghese che vive nei sobborghi meridionali di Tunisi. Per me Selma è un mezzo per esplorare il rapporto ambiguo che ho con questo paese che penso di conoscere, di cui parlo la lingua e di cui conosco bene le consuetudini, ma con cui spesso non mi sento in sintonia. Rompendo con la tradizione, le mie scelte personali e professionali hanno confermato alla mia famiglia tunisina l’impressione che ha sempre avuto di me: quella di una donna strana e atipica, pazza agli occhi di alcuni, stravagante e scandalosa agli occhi di altri. È questo il motivo per cui racconto questa storia da un punto di vista personale, attraverso la lente di una doppia cultura, francese e tunisina.Il mio desiderio era filmare la Tunisia e in particolare la classe media, la fascia di popolazione più lacerata tra modernità e tradizione. La principale preoccupazione delle classi meno abbienti è la sopravvivenza economica e le classi più benestanti sono per lo più occidentalizzate. Il conflitto si concentra sulla borghesia che ha sulle spalle il peso dell’economia nazionale ed è spesso piena di ipocrisie quando si tratta di sessualità e religione. Il tema della religione è trattato in modo implicito. È un elemento importantenella vita dei miei personaggi, ma non è il centro della storia. Era importante per me ambientare il racconto alcuni mesi dopo la caduta di Ben Ali. Quel periodo che è succeduto alla rivoluzione mi ha fatto pensare alla fase iniziale del percorso analitico: ti senti perso, pensi di dover ricostruire, metti in discussione ogni cosa e poi, piano piano, ogni tassello ritrova il suo posto. I dialoghi sono prevalentemente in francese, la lingua che usano i tunisini quando vogliono parlare liberamente di temi delicati, in particolare durante le sedute analitiche. In Tunisia, l’arabo e il francese si fondono allegramente al punto di diventare un dialetto a se stante. Avevo voglia di giocare con la musicalità unica di questa lingua, passando dall’arabo al francese e viceversa all’interno di una stessa conversazione, come aveva fatto Ronit Elkabetz nel suo film Viviane, in cui si mescolano ebraico, francese e arabo. La fusione linguistica è tanto più interessante durante le sedute di psicoterapia. Ho scelto di trattare l’argomento in chiave di commedia. Le situazioni e icontesti sono spesso tragici, ma l’ilarità e il paradosso non sono mai molto lontani. I tunisini che conosco e che osservo da tutta la vita mi tirano pazza e al tempo stesso mi fanno ridere. Le commedie italiane degli anni 1960 e 1970 sono state un riferimento importante per me in quanto trattano tematiche sociali e politiche in chiave umoristica e satirica. Quelle commedie (I soliti ignoti, I mostri, Matrimonio all’italiana, Boccaccio ‘70, Brutti, sporchi e cattivi…) per quanto possano essere sfacciate, volgari ed eccessive, sono sempre venate di poesia e di umanità. Anche in questo caso, il legame tra quella stagione del cinema italiano e la mia cultura arabomediterranea è evidente e il modo di parlare, mangiare e vivere descritto in quei film esercita una eco immensa dentro di me.
Realizzando Un divan à Tunis, mi sono sentita molto come Selma, che si trasferisce in un paese al tempo stesso estraneo e familiare, determinata a riappropriarsi di una parte della sua storia personale. Quello che io spero di recuperare è la natura divertente, comica e a volte un po’ pazza della società tunisina. Malgrado il sottotesto socio-politico sia serio e a tratti cupo, desidero porre l’accento sulla dolce sconsideratezza dei miei personaggi e sulla loro espansività, sulla loro vitalità e sul loro umorismo”.