La brava moglie – In un’epoca non così lontana da noi, nella quale si insegnava alle ragazze a diventare delle casalinghe perfette, Martin Provost ambienta questo racconto leggero e impegnato. La ventata di cambiamenti del ’68 è il motore di questa commedia, in cui i personaggi femminili cercano un’unica strada da seguire: quella dell’emancipazione. La pellicola è una dura presa di posizione contro le casalinghe ed il loro modo di concepire la vita.
Da oggi nelle sale “La Brava Moglie”, di Martin Provost con Juliette Binoche, Yolande Moreau e Noémie Lvovsky.
In un’epoca non così lontana da noi, nella quale si insegnava alle ragazze a diventare delle casalinghe perfette, Martin Provost ambienta questo racconto leggero e impegnato. La ventata di cambiamenti del ’68 è il motore di questa commedia, in cui i personaggi femminili cercano un’unica strada da seguire: quella dell’emancipazione.
Avere cura della casa e piegarsi al dovere coniugale senza fiatare: è ciò che insegna con ardore Paulette Van Der Beck nella sua scuola per casalinghe. Quando improvvisamente si trova vedova e senza soldi, le sue certezze vacillano. Sarà per il ritorno del suo primo amore o per il vento di libertà del maggio ‘68? Il film si avvale di un caste che si basa su Juliette Binoche, Yolande Moreau, Noémie Lvovsky.
Il regista Martin Prost ci parla della sua pellicola.
Da dove viene l’idea de La brava moglie?
Il film è nato da un incontro. Un’estate ho affittato una casa nel Cotentin, penisola della Normandia, appartenente a una signora di 80 anni di nome Albane. Era una nobile, ma viveva da contadina, con i suoi animali. Abbiamo fatto amicizia e mi ha raccontato come avesse deciso, dopo la guerra, di non studiare, contro il parere dei genitori, perché preferiva frequentare la scuola per casalinghe, restando così con le sue amiche. Non sapevo esattamente cosa fosse una «scuola per casalinghe», ma sentendola parlare della sua esperienza ho visto sfilare delle immagini. Con la mia co-sceneggiatrice Séverine Werba ho immediatamente iniziato delle ricerche. Sì, c’è stata davvero un’epoca nella quale si insegnava alle ragazze a diventare delle spose perfette. Intorno a noi delle testimonianze dirette attestavano quell’epoca conclusa eppure non così lontana. Negli archivi dell’INA, Institut National de l’Audiovisuel, abbiamo anche scovato dei documentari sorprendenti su quelle scuole. Mi ricordo del mio stupore quando una presentatrice del tempo, sosia di Denise Fabre, spiegava molto seriamente che una stiratrice degna di quel nome non poteva terminare i due anni d’istruzione se non stirando la camicia del marito, consacrandola così in brava moglie.
Le sono riemersi dei ricordi personali?
Quell’epoca l’ho conosciuta bene, avevo 11 anni nel maggio del ‘68. Abitavamo a Brest e vista da noi era la rivoluzione. Mia madre, spaventata, ammassava pasta, farina, zucchero. Andammo a rifugiarci in campagna, a casa di amici. Mi ricordo certe sue frasi: «sbarcheranno i Rossi», «dovremo condividere l’appartamento con altre famiglie». Mio padre era più pragmatico. Faceva parte di quegli uomini che rientravano dal lavoro, si accomodavano nel salone per leggere il giornale aspettando di mettere i piedi sotto il tavolo. Mia madre si lamentava molto, ma nulla cambiava. Lei era interamente responsabile della sfera casalinga e della nostra educazione. Mio padre le dava una somma che non poteva superare, inoltre doveva rendergli conto di ogni spesa effettuata. Quel lavoro, perché si trattava di un lavoro, la pressione mentale che rappresentava, ai suoi occhi non esisteva perché non produceva denaro. Lei era relegata al suo ruolo di sposa e non aveva diritto a nessun riconoscimento. Era così per la maggior parte delle donne. Le mansioni domestiche hanno sempre fattoparte dell’apprendistato delle ragazze, non dei ragazzi. Mi vengono in mente i biglietti da visita dei miei genitori sui quali era scritto ‘Sig. e Sig.ra Joël Provost’. Ero un bambino e non ne ero evidentemente cosciente, ma mi sono rimasti impressi nella memoria. Mia madre esisteva soltanto in quanto moglie. Ed essere una «brava moglie» significava prima di tutto rinunciare a se stessa. Ciò nonostante, un giorno è stato mio padre, quando avevo 16 anni, a regalarmi Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, di cui un passaggio mi è tornato alla mente mentre giravo LA BRAVA MOGLIE: «Per quell’umanità che ha cresciuto la donna nel dolore e nell’umiliazione verrà il giorno in cui la donna spezzerà le catene della sua condizione sociale. E gli uomini che non sentiranno arrivare quel giorno saranno sorpresi e vinti.» Risale al 1904. Siamo in piena attualità.
Tutti i suoi film parlano di emancipazione femminile…
Senza dubbio ciò proviene dalla mia storia poiché mi sono opposto violentemente a mio padre, per il quale la dominazione maschile era legittima. Tale opposizione mi ha anche spinto a lasciare la mia famiglia quando ero molto giovane e a fare i film che faccio. La brava moglie è certamente il film che più mi assomiglia. Riunisce tutti gli altri. È il mio film più libero, ma forse anche, e contrariamente alle apparenze, il più impegnato. Quando ho realizzato Séraphine, mi ricordo di una discussione con un’amica che mi rimproverava la mia mancanza di impegno politico. Le avevo risposto che fare un film su una donna delle pulizie che si dedica alla pittura verso e contro tutti era il mio modo di impegnarmi. Quando uscì il film successivo, Où va la nuit, fui stupito di constatare fino a che punto fare un film su una donna picchiata che uccide il marito fosse ancora disturbante. Tutti questi personaggi femminili sono raggiunti da un bisogno di libertà che si impone loro come l’unica strada da seguire: quella dell’emancipazione. Perché ha situato la storia in una stagione cerniera, quella del 1967- ‘68?
Perché dopo il 1970-’71 tutte le scuole per casalinghe erano scomparse. E fino a quel momento ce n’erano tantissime. Grandi, piccole, qualcuna più borghese, ma soprattutto quelle chiamate rurali, poiché il trenta per cento della Francia era ancora rurale. È un dato molto importante. C’era Parigi, e poi la provincia. Il maggio ‘68 ha mandato tutto in frantumi: è stato il punto di partenza di una formidabile presa di coscienza che avrebbe accelerato il movimento di emancipazione delle donne.
Sapeva fin da subito che il film sarebbe stato una commedia?
Sì. Perché l’immaginario veicolato da quelle scuole è allo stesso tempo infinitamente bizzarro e spaventoso. Racconta tutta un’epoca. Volevo che il film fosse molto stilizzato, con dei dialoghi cesellati, un ritmo sostenuto, dell’emozione Che fosse pieno di quell’energia incredibile che si è liberata con il ‘68.
Nel film ci sono tutti i segni dell’epoca…
Adamo, Joe Dassin, Menie Grégoire, Guy Lux e Anne-Marie Peysson. Il grande divario tra Parigi e la provincia. Nella mia gioventù Parigi incarnava il sogno assoluto. La rapidità dei trasporti e dei mezzi di comunicazione ha cambiato le prospettive. D’altronde non si parla più di province ma di regioni. Per Séverine abbiamo pensato alla svelta all’Alsazia in quanto è una regione che ha patito molto la Seconda Guerra Mondiale. Una regione remota, selvaggia, come lo era la Bretagna della mia infanzia.
Ha pensato a Juliette Binoche fin da subito?
Ho scritto il ruolo di Paulette per Juliette. Desideravo molto lavorare con lei. È un’attrice incredibile, in costante ricerca, capace di prendere tutti i rischi. Ha il desiderio profondo di superarsi, non avevo alcun dubbio che sarebbe stata una Paulette ideale. Conoscevo inoltre la sua passione per la danza e sapevo che avrebbe potuto cantare. Sul set è di una sincerità e generosità assolute. Sempre attenta, concentrata, disponibile. Ed è incredibilmente concreta. Nel film possiede una comicità irresistibile. È talmente raro essere capaci di passare così velocemente dalla risata alle lacrime.
Gli altri personaggi offrono ai loro attori la possibilità di interpretazioni brillanti
Questo è il mio terzo film con Yolande Moreau, che è più di un’amica, una sorella. Chi altri avrebbe potuto incarnare quella cognata eterea e stravagante che vive come in un mondo parallelo a quello imposto da generazioni da tutti i maschi della sua famiglia? Yolande possiede una grande delicatezza e sensibilità, è piena di poesia. La coppia che forma con Juliette è davvero emozionante. Per quanto riguarda Noémie Lvovsky, ci conoscevamo appena ma ho visto immediatamente in lei Marie-Thérèse. Quando le ho proposto il ruolo era entusiasta, e anche un po’ spaventata. Ma ha recitato la parte dando il massimo ed è stata stupefacente. Edouard Baer mi colpisce per la sua intelligenza e il suo fascino e, soprattutto, per quella grande fragilità che nasconde dietro un umorismo inarrestabile. È stato un piacere immenso lavorare con lui, abbiamo gli stessi riferimenti, gli stessi gusti. Sa ascoltare molto e si è lasciato scivolare nella pelle di André, l’uomo nuovo. François Berléand eccelle in un ruolo, quello di Robert, che ha accettato subito, con divertimento, nonostante sia breve. Robert è il personaggio cardine del film, incarna il maschio dominante di quell’epoca, simbolo del patriarca che vive a spese delle donne.
Come è stato possibile che, all’interno di questa commedia, la storia d’amore tra i personaggi di Juliette Binoche e Edouard Baer fosse così toccante?
Per me La brava moglie non è solo una commedia, o diciamo che è una commedia che tratta argomenti seri come quello dell’emancipazione femminile. Paulette, direttrice della scuola per casalinghe Van Der Beck, è incastrata nel suo proprio ruolo poiché ciò che insegna non ha più valore. Di fronte a lei le sue allieve iniziano ad affermare i loro desideri. Vogliono vivere per se stesse. E quando Paulette ritrova il suo primo amore è, a sua volta, scossa da tutte quelle forze che aveva represso. Per questa ragione la maggior parte delle scene con André si svolge all’aria aperta, lontano dal giogo del suo ambiente del tutto gerarchizzato. Mi rendo conto, senza che ciò sia veramente cosciente, che nei miei film la natura finisce sempre per occupare un posto rilevante, non è una semplice scenografia. Mi piacciono quelle rappresentazioni che relativizzano il ruolo dell’individuo conferendogli una posizione minuscola in paesaggi immensi, come accade in Sempé, Hokusai o Hieronimus Bosch.
Davanti al cosmo i nostri piccoli ego si riducono a ben poca cosa, a delle particelle”