Movienerd – Cinema – “Miserere” e la gioia di essere infelice

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Miserere mette in scena la storia di un uomo felice solamente quando si sente infelice, o meglio… Solo quando gli altri lo credono infelice.

Un uomo di circa 45 anni, l’Avvocato, vive col figlio adolescente in una bella villetta. E’ in salute, ha un volto affabile, buone maniere, una bella presenza. I suoi capelli sono ben curati e tagliati. Tuttavia, sua moglie, in seguito ad un incidente, è ricoverata in un ospedale privato, ed è in coma. La tristezza causata da questa situazione è diventata il principale, quasi vitale elemento della sua esistenza, avendogli donato una sensazione di piacere che è diventato dipendenza. Grazie al suo dolore, improvvisamente tutti dimostrano compassione nei suoi confronti: la vicina gli porta spesso una torta fatta in casa, il proprietario della sua lavanderia gli fa lo sconto, perfino quella segretaria che conosce appena trova il modo di condividere un momento di emozione con lui. La sua vita non è mai andata meglio di adesso, che è triste e compatito. Poi, un giorno, la moglie si risveglia dal coma. Il ritorno a casa della donna cambia radicalmente la sua routine quotidiana, fatta di compatimento e dolore. La tristezza viene subito rimpiazzata dalla gioia: ma l’Avvocato è sopraffatto dal desiderio di tornare a quello stato precedente di depressione. Comincia ad inventarsi ogni maniera possibile per attrarre quella pietà che aveva cominciato a piacergli così tanto. All’inizio, prova ad annientare qualunque barlume di felicità gli arrivi, ma via via quello che sembrava un piano studiato gli sfugge di mano, e comincia a perdere il controllo di se stesso.

Questa la storia narrata in “Miserere” film nelle sale cinematografiche italiane.

 

Yorgos Lanthimos il regista ci racconta del suo film…..

 

Anche se il soggetto è serio, “Miserere” è anche sorprendentemente divertente. E’ qualcosa che avevi previsto?

 

“Che posso dire – sono un tipo divertente. Ciò che dico sempre è che la sceneggiatura è un work in progress. Quando lavori a qualcosa per un po’ di anni, cambi anche tu come persona. Cominci a buttarci dentro nuove idee, quindi fino al risultato finale qualcosa può cambiare. Ma con Efthimis Filippou (co-sceneggiatore) volevamo che lo script fosse intinto di humor, perché, ai nostri occhi, ogni film è una commedia.

Quindi, questo è stato esattamente ciò che abbiamo comunicato ai nostri collaboratori. Mi piacerebbe pensare che “Miserere” abbia qualcosa di Jacques Tati. Io sono un suo grande fan, e mentre giravo, me lo sentivo sempre vicino, che mi dava dei consigli.

Stessa cosa per Buster Keaton: ha influenzato in misura equivalente i miei lavori precedenti. Buster Keaton era noto per il suo volto impassibile”.

 

Il tuo protagonista, l’Avvocato, è proprio così, è veramente difficile capire cosa stia succedendo nella sua testa.

 

“Mi piacciono i personaggi misteriosi, perché forzano lo spettatore a fare uno sforzo per provare a capire cosa sta succedendo. E’ questa la bellezza del cinema: tutti possono interpretarlo alla propria maniera. Mi piace uscire dalla porta pensando a ciò che ho appena visto: se te lo dimentichi in 5 minuti, si tratta di un brutto film. Per come la vedo io, i film dovrebbero solo porre domande, non dare risposte. Per il resto, è lavoro di Hollywood”.

 

Come per il tuo film precedente, “L”, hai scritto “Miserere” con l’ormai celebre sceneggiatore Efthimis Filippou. E’ conosciuto soprattutto per il suo lavoro con Yorgos Lanthimos – il principale esponente della cosiddetta ‘greek Weird Wave’. Ti consideri parte diquesta corrente?

 

“Non mi piace mettere delle etichette ai film. L’industria cinematografica greca ha una ricca offerta in questo momento: drammi sociali, film per famiglie e commedie. Siamo davvero qualcosa di più di questa sola corrente. Dopo aver finito con Efthimis la sceneggiatura del mio primo film, è passato Circa un anno prima che cominciassimo a parlare dell’argomento del successivo. Alla fine, ci siamo focalizzati su “Miserere” – ci sembrava il soggetto più interessante. Abbiamo letto alcuni libri che parlano del concetto di pietà, come L’impazienza del cuore di Stefan Zweig. E’ stato bello, ma non era così vicino a ciò che avevamo in mente”.

 

Volevi dimostrare che, per qualcuno, il dolore può facilmente trasformarsi in piacere?

 

“Quando ero giovane, ti faceva sentire bene ascoltare una canzone malinconica a qualche festa. Anche solo per attirare qualche ragazza preoccupata che ti si avvicina e ti chiede: “Tutto bene?”. Magari è così che ci si procurano le ragazze. Non è qualcosa che ci piaccia ma come esseri umani, ci divertiamo a suscitare pietà negli altri, come se fossimo il centro dell’universo. Detto questo, credo ci siano due tipi di pietà: la prima si verifica quando vedi un senzatetto per strada, e gli dai qualche soldo per sentirti meglio. Tu, non lui. Il secondo tipo è quello che ho voluto esplorare nel film: si tratta di quella pietà che cerchiamo di suscitare negli altri, e fin dove siamo disposti ad arrivare per ottenerla”.

 

Hai veramente incontrato persone simili?

Certo che si. E’ la ragione per cui credo che, rispetto al mio film precedente, questo sia più realistico. Ci sono persone che sviluppano molto presto questo bisogno. Immagina di avere 3 anni, e il tuo gatto muore. Tutti attorno a te iniziano improvvisamente a compatirti, il che per un bambino può significare che ti danno dei dolcetti o fanno dei regali. Questo sentimento è proprio come qualunque altra dipendenza, puoi abituarti ad esso e poi non poterne più fare a meno. Ed è allora che la gente comincia a mentire”.

 

Questo è il motivo per cui non dici allo spettatore dove guardare?

 

“In molte scene, la cinepresa è completamente immobile. Mi piace quando la cinepresa non partecipa all’azione. Voglio che guardi, non che interferisca. Con questo film era estremamente importante non partecipare all’azione, perché non volevo dare troppi indizi. Ma non voglio nemmeno che la gente lasci la sala pensando “Ma di che diavolo si parlava?”, così ho aggiunto alcune didascalie, scritte insieme ad Efthimis. Non volevo usare una voce fuori campo, perché quelle frasi aggiungono qualcosa di speciale al film: aiutano a capire che sta succedendo”.

 

E lo fa anche la musica. Volevi che fosse una parte così essenziale del film?

 

“Mi piace pensare che questo film ricorda l’opera – è la musica a trascinarti. Nella prima parte, il sottofondo è L’Inno alla gioia di Beethoven. Quindi, hai questo tizio che sembra essere triste, ma la musica tende a sollevare. Nella seconda parte, quando ha tutte le ragioni del mondo per essere ben contento, ecco il Requiem di Mozart – la canzone più triste del mondo Questa contrapposizione mostra precisamente cosa sta succedendo. Ti dice cosa quell’uomo sta provando”.

 

Hai fatto ascoltare della musica allo stesso modo anche agli attori?

 

“Quando ci siamo incontrati per la primissima volta, ho fatto ascoltare loro un pezzo dei The Residents – questa band sperimentale anni 70. Si intitola Breath and Length. Nessuno sa chi loro siano – portavano sempre delle maschere. Ma la loro musica è divertente e tragica: ha tutto ciò che mi serviva per questo film. Penso che gli attori abbiano capito immediatamente cosa stavo cercando. Alle volte mettevamo su anche della musica durante le riprese, cercando di aiutarli ad inserirsi nello stato d’animo giusto. Non mi piace parlare troppo dei personaggi e delle loro esperienze passate, mi sembrano sciocchezze. E nemmeno faccio delle prove, voglio fidarmi degli attori, specialmente di quelli che sono miei amici. Conoscono il mio stile, e gli lascio fare tutto quello che vogliono, perché mi piace che un attore arrivi sul set senza sapere troppo di quello che sta per fare. Quando lo sanno, ciò che viene fuori mi pare troppo rigido”.

 

Nel film, molto spesso sentiamo il protagonista prima di poterlo vedere. Si può sentire piangere in sottofondo, mentre ti focalizzi invece sulle palme, sul mare. Perché?

 

“Quando vedi un bellissimo paesaggio e poi senti qualcuno piangere, la bellezza di quel paesaggio finisce per corrompersi. E’ estate, tutto è piacevole, e l’Avvocato ha un’incantevole casa vicino al mare. Tutto attorno a lui è bellissimo. Ma lui non vuole bellezza, lui vuole distruzione. Gli piace essere triste. E’ geloso della tristezza degli altri. Questa è anche la ragione per cui abbiamo deciso di fargli fare il mestiere dell’avvocato, e non un musicista, o un insegnante. Si tratta di un mestiere basato sulla commiserazione: quello che cerchi di fare è far provare alla gente dispiacere per il tuo cliente”.

 

E’ per questo che hai deciso di includere una scena in cui parla del celebre film strappalacrime di Franco Zeffirelli, “Il campione” ?

 

“Si è trattato di un’idea di Efthimis, ed ho solo pensato che fosse molto divertente. “Il campione” è un film così commovente, chiunque piange vedendolo. Quindi calzava perfettamente: perché lui sente veramente, veramente il bisogno di piangere. Questa scena è veramente importante – svela molto del film. E’ un punto di svolta, perché è in quel momento che realizzi che gli manca veramente essere triste. Se “Il campione” uscisse improvvisamente di nuovo al cinema, lui sarebbe lì, a pagare il biglietto ogni giorno: a guardarlo di continuo e farsi uscire le lacrime. Quindi, credo che “Miserere” sia, alla fine, un film ottimista. Lo capisci vedendone la fine.




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