Single per scelta (di chi?) della psicoterapeuta Ludovica Bedeschi

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Camminando per strada, tempo fa, ho letto su una maglietta di un ragazzo una scritta che recitava: “single per scelta”, stampato sulla parte anteriore, e dopo essersi voltato, nella parte posteriore della maglietta c’era scritto: “non mia!”.
Ho riso divertita, ma poi, sull’onda della mia ormai radicata deformazione professionale ho cominciato a riflettere e mi è partita l’idea di poter condividere con voi alcune considerazioni fatte.
Sarebbe impossibile, nelle poche righe di un articolo, riuscire a toccare tutti i punti che un tema tanto vasto racchiude in sé, ma vale la pena comunque di soffermarci a riflettere su come mai, a differenza di una ventina di anni fa’, oggi gli assetti relazionali siano così cambiati.
Tempo addietro si parlava di “zitelle”, e “scapoli incalliti”, per tutti coloro che arrivavano oltre la quarantina senza la fede nuziale al dito. Gli uomini forse venivano risparmiati dalla velata compassione per non essersi ancora accasati, ma venivano pur sempre visti da amici e parenti, come quelli “da sistemare”.
Oggi, al contrario, sembra quasi che essere single, specie dopo una certa età, sia una conquista! I dati parlano di un 11% della popolazione italiana di cui il 68% è dato da donne e un 38% di uomini. Molti hanno definito la loro condizione come “transitoria”, e qui mi sento di dire: “menomale!”.
Le riviste femminili spesso pubblicano articoli su diversi personaggi (famosi e non) che alla soglia dei loro “primi quarant’anni” sembra abbiano raggiunto tutti, o quasi, i traguardi che nella vita si vorrebbero raggiungere: un lavoro soddisfacente e relative entrate economiche, status sociale, consapevolezza del proprio aspetto sia esteriore che interiore, e perché no, anche dei figli senza dover essere necessariamente passate per un donatore in carne e ossa! Interrogati su queste scelte di vita, spesso rispondono di sentirsi pienamente appagati delle loro vite “monocomponenziali” e adducono le motivazioni della loro scelta a diversi fattori tra cui: delusioni affettive ricevute (più spesso le donne), disillusi dalla possibilità di incontrare “la persona giusta”, erigendosi così ad emblemi viventi del “chi fa da sé fa per tre”. E su certi aspetti ci si potrebbe anche trovare d’accordo. Vivere in coppia è davvero un lavoro impegnativo. Modulare le proprie esigenze ed i propri spazi in base a quelli di un’altra persona è un equilibrio molto sottile e spesso difficile da raggiungere.
L’essere “single” non è necessariamente sinonimo di solitudine. Un periodo di “singletudine” (passatemi la licenza linguistica) può rivelarsi una fase ricca di spunti per crescere interiormente; ci si può dedicare a noi stessi imparando a conoscerci meglio nelle nostre sfumature più intime, e dandoci la possibilità di imparare cosa davvero fa per noi e cosa meno. Non tutti però vivono questa condizione allo stesso modo. Ad alcuni, sembra che nello stato di single, siano state consegnate le chiavi del paradiso: si dedicano alle proprie passioni, recuperano i rapporti di vecchia data che durante il loro legame di coppia avevano trascurato, riprendono a viaggiare e appaiono quasi ringiovaniti! Altri invece sprofondano nella più cupa tristezza, associando negativamente il valore della propria persona alla loro condizione di solitudine e disperano nella possibilità di essere amati ancora. Chiaramente gli equilibri di coppia sono mutati negli ultimi trent’anni. La coppia di oggi si presenta molto più vulnerabile rispetto alle inevitabili crisi che caratterizzano ogni legame a due, e gli sforzi per rimanere insieme sembrano spesso rimpiazzati dalla speranza (non sempre realistica) che si troverà qualcosa di meglio. Le donne sono sempre più emancipate nel loro ruolo, sia come lavoratrice che come “metà della coppia”; e gli uomini sono sempre più intimoriti da questa autonomia femminile che, delle volte, viene brandita in aria come una scure. Oggi siamo più portati a credere che vi siano infinite possibilità di scelta in senso affettivo e, le rigide convenzioni sociali di qualche tempo fa, hanno lasciato posto a famiglie allargate a dismisura, a trasgressioni di ogni genere che da quanto frequenti, risultano ormai quasi la norma. Forse si stava meglio quando si stava “peggio”? Voglio dire che forse, tempi addietro, quella serie di convenzioni e norme sociali portavano le coppie (e intendo forse più le donne) a tentare di salvare il salvabile più strenuamente di quanto oggi non si faccia. Chiaramente condivido appieno il fatto che, se un’ unione si trasforma in una gabbia (dorata o di ferro arrugginito non conta, è pur sempre una gabbia!), sia legittimo cercare di uscirne per trovare altrove, soli o con un nuovo partner, un po’ di sacrosanta serenità; però sono altrettanto convinta che oggi ci sia molta più paura dei legami affettivi di quanto non ce ne fosse in passato. Forse, alcuni modelli di unione delle tre o quattro generazioni passate basate, sull’impossibilità di poter evadere da situazioni sofferte o sull’ipocrisia, hanno rappresentato “lo scenario da evitare” per eccellenza per parecchi single di oggi che preferiscono adeguarsi al proverbio di cui sopra. Però è altrettanto tristemente vero che, per paura di mettersi davvero in gioco e andare inevitabilmente incontro a crisi da superare,a momenti di stallo e possibili incomprensioni, oggi ci si lascia senza troppo pensarci su o non ci si impegna nemmeno, e il risultato è un panorama costellato da “costruzioni lasciate a metà”. Non credo, e non voglio, potermi eleggere guru del tema in questione, ma non posso negarvi di rimanere sempre affascinata da quelle coppie che scopro stare insieme da 25 o 30 anni (ormai il record è questo..), e mi sembra quasi di vedere dietro loro come una scia di mattoni invisibili da cui provengono; alcuni un po’ ammaccati, altri lucidissimi e ben posati che però hanno rappresentato il cammino percorso insieme fino ad oggi. E un po’ li invidio per il coraggio e la volontà messa per non averla data vinta alla voglia di lasciare la costruzione a metà. Come disse il Piccolo Principe “ E’ il tempo che hai dedicato alla tua rosa, che ha reso la tua rosa così importante”.

di Ludovica Bedeschi (psicoterapeuta)




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