Seveso – Il disastro di Seveso è il nome con cui si ricorda l’incidente, avvenuto il 10 luglio 1976 nell’azienda ICMESA di Meda, che causò la fuoriuscita e la dispersione di una nube della diossina TCDD, una sostanza artificiale fra le più tossiche. Il veleno investì una vasta area di terreni dei comuni limitrofi della bassa Brianza, particolarmente quello di Seveso.
Ecco i fatti di quel drammatico giorno: Verso le 12:28 di sabato 10 luglio 1976, nello stabilimento della società ICMESA sito nel territorio del comune di Meda, al confine con quello di Seveso, il sistema di controllo di un reattore chimico destinato alla produzione di triclorofenolo, un componente di diversi diserbanti, andò in avaria e la temperatura salì oltre i limiti previsti. La causa prima fu probabilmente l’arresto volontario della lavorazione senza che fosse azionato il raffreddamento della massa, e quindi senza contrastare l’esotermicità della reazione, aggravato dal fatto che nel processo di produzione l’acidificazione del prodotto veniva fatta dopo la distillazione, e non prima.
L’esplosione del reattore venne evitata dall’apertura delle valvole di sicurezza, ma l’alta temperatura raggiunta aveva causato una modifica della reazione che comportò una massiccia formazione di 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD), sostanza comunemente nota come diossina, una delle sostanze chimiche più tossiche. La TCDD fuoriuscì nell’aria in quantità non definita e venne trasportata dal vento verso sud-est. Si formò quindi una nube tossica, che colpì i comuni di Meda, Seveso, Cesano Maderno, Limbiate e Desio. Il comune maggiormente colpito fu Seveso, in quanto situato immediatamente a sud della fabbrica.
Le prime avvisaglie furono un odore acre e infiammazioni agli occhi. Solo dopo sette giorni la notizia apparve sui giornali. Il territorio di Seveso a ridosso dell’ICMESA fu suddiviso in tre zone a decrescente livello di contaminazione sulla base delle concentrazioni di TCDD nel suolo: zona A (suddivisa in 7 sotto- zone), B, e R. Le abitazioni comprese nella zona A, la più colpita, furono divise nelle sotto-zone A1-A5. Non vi furono morti, ma 676 sfollati tra il 26 luglio e il 2 agosto, che vennero provvisoriamente collocati in due hotel nel milanese, uno a Bruzzano e uno ad Assago. La maggior parte di loro sarebbero rientrati nelle loro case bonificate tra ottobre e dicembre 1977, mentre 41 famiglie non poterono tornare perché le loro case vennero distrutte. Sarebbero state ricostruite negli anni seguenti. Inoltre circa 240 persone vennero colpite da cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati, che crea lesioni e cisti sebacee.
Quanto agli effetti sulla salute generale, essi sono ancora oggi oggetto di studi. I vegetali investiti dalla nube si disseccarono e morirono a causa dell’alto potere diserbante della diossina, mentre migliaia di animali contaminati dovettero essere abbattuti. La popolazione dei comuni colpiti e l’Italia intera venne però informata della gravità dell’evento solamente otto giorni dopo la fuoriuscita della nube, con un’ordinanza del sindaco che vietava di ingerire e toccare i prodotti ortofrutticoli della zona. Nell’area più inquinata (Zona A), il terreno fu depositato in vasche. Fu apportato un nuovo terreno proveniente da zone non inquinate ed effettuato un rimboschimento, che ha dato origine al Parco naturale Bosco delle Querce.
Il tutto ebbe inizio proprio Il 29 novembre 1945 l´ICMESA (Industrie Chimiche Meridionali S.A. con uffici e direzione a Milano) presentò al Corpo del Genio Civile di Milano domanda per l´autorizzazione a costruire un nuovo stabilimento per la produzione di farmaceutici in un terreno di sua proprietà ubicato nel territorio del Comune di Meda. L´ICMESA non era un´impresa di nuova costituzione. Le sue origini risalivano infatti al 1924 quando la società Industrie Chimiche K. Benger e C.S.A. (già Industrie Chimiche Meridionali K. Benger e C.) mutò la sua ragione sociale in quella di Industrie Chimiche Meridionali S.A. ICMESA. La sede e lo stabilimento della fabbrica erano a Napoli e l´attività si fondava sulla fabbricazione e sul commercio di prodotti aromatici sintetici, di prodotti intermedi (per l´industria farmaceutica e per quella dei coloranti organici) e di prodotti di base per l´industria chimica.
Già dal 1948 l´ICMESA aveva sollevato le proteste della popolazione di Seveso in merito ai gas e agli odori provenienti dal torrente Certesa (o Tarò) che erano da attribuirsi anche agli scarichi della fabbrica di Meda.
L´anno successivo il Consiglio Comunale di Seveso si occupò della questione delle acque che venivano immesse nel torrente non convenientemente depurate da parte dell´ICMESA e che diffondevano “odori nauseabondi ed insopportabili nell´atmosfera”.
I consiglieri rilevarono le continue lamentele della cittadinanza e le fecero proprie poiché in talune zone del territorio comunale l´aria diventava “assolutamente irrespirabile per le esalazioni provenienti dalle acque di deflusso dello stabilimento della società ICMESA di Meda”.
Per questo il Consiglio Comunale invitò il sindaco ad accertare la nocività dei gas emanati dall´ICMESA e, di concerto con il collega di Meda, ad attivarsi per inoltrare una protesta alle “superiori autorità” al fine di obbligare la società ad eseguire quelle opere che si rendevano necessarie per eliminare i gravi inconvenienti igienici rilevati.
Dopo pochi anni, il 2 maggio 1953, l´ufficio veterinario del Comune di Seveso accertò un´intossicazione di pecore a causa degli scarichi dell´ICMESA. Recatosi alla fabbrica “anche allo scopo di avere elementi necessari sui quali indirizzare la cura delle pecore colpite e non ancora decedute”, il veterinario consorziale Malgarini non ottenne alcun chiarimento in merito, per la “reticenza” del rappresentante dello stabilimento di Meda.
Un paio di mesi dopo, il 1° luglio 1953, l´ufficiale sanitario Del Campo, comunicò al sindaco del Comune di Meda che “un increscioso episodio tossico con la morte di 13 pecore” si era verificato nel torrente Certesa “subito a valle dello scarico delle acque di rifiuto della fabbrica ICMESA”. Nella sua relazione l´ufficiale sanitario, dopo aver evidenziato che l´ICMESA produceva prodotti delle serie “acetati, salicitati e alcoli”, appurò la nocività delle acque del Certesa, causata dallo scarico della fabbrica. Per queste ragioni Del Campo ritenne che ci fossero “tutti gli estremi” per qualificare la fabbrica di Meda come “Industria Insalubre”.
Dopo pochi giorni, il 7 luglio 1953, l´ICMESA, con una lunga nota a firma dell´amministratore delegato Rezzonico, affermò di non trovarsi d´accordo con quanto asserito dall´ufficiale sanitario e respinse la responsabilità della morte delle 13 pecore. La società poi non accettò la possibilità di essere classificata come “Industria Insalubre” ed evidenziò il fatto che anche le acque a monte dello stabilimento emanavano esalazioni moleste.
L´ICMESA si impegnò infine a migliorare gli strumenti per l´eliminazione di odori e rumori molesti sperando che l´episodio non alimentasse intorno allo stabilimento ed alla sua attività “quell´atmosfera di diffidenza e di critica” che, sempre secondo la direzione aziendale, non trovava nessuna ragione nei fatti “visti obbiettivamente e serenamente”.
Il 28 agosto 1953 l´ICMESA ribadì le proprie posizioni considerando altresì “assurde” le accuse mosse a un´industria che lavorava “onestamente ed in condizione di ambiente e di sanità fra le più moderne d´Italia”.
Alcuni anni dopo, il 2 maggio 1962, il sindaco di Meda, Dozio, che il 5 aprile precedente aveva chiesto alla società di essere informato sull´evolversi della situazione degli scarichi industriali, avvertì l´ICMESA che nell´ultima seduta del Consiglio Comunale alcuni consiglieri avevano rilevato che molto spesso a settentrione dello stabilimento si sviluppavano incendi di materiali di rifiuto che provocavano “nubi fumogene irrespirabili” dannose per la salute pubblica.
Il sindaco invitò la ditta ad adottare le necessarie cautele nel bruciare i rifiuti per evitare gli inconvenienti igienici lamentati dalla popolazione. Il 14 maggio 1962 l´ICMESA, ancora una volta, rigettò le accuse limitando l´episodio ad un solo incendio, sviluppatosi per ragioni ignote e prontamente spento dopo tre quarti d´ora. Comunque la società assicurò il massimo delle precauzioni per evitare altri inconvenienti del genere.
Dopo quasi un anno, il 7 maggio 1963, il sindaco di Meda chiamò nuovamente in causa l´ICMESA in merito ad un nuovo incendio di scorie e rifiuti di lavorazioni abbandonati sul terreno, non recintato, di proprietà della società sottolineando il panico originato nella popolazione e il grave pericolo per la ferrovia e la viabilità. L´ICMESA venne altresì invitata a provvedere per evitare nuovi episodi di quel genere e le fu ricordato che le scorie e i rifiuti non andavano abbandonati sul terreno, ma “distrutti con procedimenti tali da salvaguardare l´incolumità pubblica o privata”.
L´11 maggio 1963 la nuova replica dell´ICMESA scaricò la responsabilità di questo secondo incendio su dei pastori che si erano fermati nei pressi dello stabilimento e, dopo aver acceso un fuoco, erano scappati. La società assicurò che avrebbe provveduto con maggiore frequenza che non nel passato a ricoprire le scorie con della terra di riporto, per evitare il ripetersi dell´inconveniente. Infine l´ICMESA evidenziò che la località era comunque isolata e sufficientemente distanziata tanto dalla parte della ferrovia che da quella dello stabilimento e che pertanto non potevano esserci preoccupazioni per la popolazione. Su sollecito del sindaco, il 25 maggio 1963 l´ICMESA si impegnò anche alla recinzione del deposito delle scorie a nord dello stabilimento.
Il problema dell´inquinamento del torrente Tarò fu sempre al centro dell´attenzione della Provincia in quanto, nuovamente nel 1965, le analisi effettuate rilevarono la non accettabilità delle acque sia dal punto di vista chimico, perché altamente inquinate, sia dal punto di vista biologico giacché definite “tossiche ad alta tossicità”. Necessitava dunque un miglioramento dell´impianto di depurazione che fu imposto all´ICMESA nel novembre del 1965. Un sopralluogo effettuato nel 1966 appurò che, nonostante le modifiche apportate, l´impianto continuava a non dare risultati soddisfacenti. Il 18 ottobre 1969 pervenne al Comune di Meda l´ennesima relazione del Laboratorio di igiene e profilassi della Provincia: “Ripetuti sopralluoghi effettuati sia all´interno che all´esterno dello stabilimento Icmesa di Meda, portano a concludere che la situazione degli scarichi della ditta in oggetto va rivista alla luce di risultanze e accertamenti nuovi, più gravi e più complessi di quelli finora presi in considerazione, in quanto gli inquinamenti dovuti alle sue lavorazioni non sono limitati agli affluenti idrici, e quindi di natura primaria e immediata, ma si estendono e si moltiplicano con gli inconvenienti che possono derivare dalle sconosciute evacuazioni, in bacini perdenti esterni allo stabilimento, di sostanze solide, mucillaginose e liquide di natura diversa e imprecisata e dalla combustione in campo aperto, primitiva e incontrollata di prodotti di varia natura […]. Tali operazioni, in aggiunta ai molteplici odori nauseabondi, insistenti e persistenti, che investono un raggio di alcune centinaia di metri e si accompagnano pervicacemente ai sensi e agli indumenti del visitatore per alcuni giorni, rappresentano infatti un pericolo continuo e costante per le falde acquifere e per lo stesso torrente Tarò che scorre a poche decine di metri […]. E´ pertanto con viva preoccupazione che questo Laboratorio segnala una tal situazione, stigmatizzando l´assoluta mancanza di cautele e previdenze che la ditta aveva ed ha il dovere di osservare in ossequio al bene pubblico e ad un elementare buon senso. Brutture del genere, accertabili e visibili per gli occhi di tutti, non possono essere tollerate, né le ditta può pretendere che il tempo passi e la natura provveda. Il 18 dicembre 1969 l´ufficiale sanitario Sergi, facendo riferimento al rapporto del 18 ottobre, affermò che l´ICMESA rappresentava “una notevole grave sorgente per l´inquinamento” sia liquido che gassoso. Sergi asserì inoltre che “l´azione malefica di tale inquinamento” non si limitava alla zona circostante lo stabilimento, ma attraverso la falda acquifera superficiale, l´atmosfera e a mezzo del torrente Tarò, questa si estendeva “a zone anche lontane dalla sorgente inquinante”. “Data la gravità delle risultanze premenzionate” l´ufficiale sanitario chiese al sindaco di Meda di emettere un´ordinanza “ai sensi dell´art. 217 del T.U.LL.SS. 27.7.1934, n. 1265″ con la quale si doveva imporre all´ICMESA “l´adozione di provvedimenti efficaci, stabili e continuativi, atti a rimuovere (o almeno a ridurre al minimo tollerabile) i molteplici inconvenienti constatati”.
All´inizio del 1974 l´ICMESA assicurò nuovamente la Provincia di Milano e l´Ufficio del Genio Civile rispetto all´imminente inizio dei lavori per la realizzazione del nuovo impianto di depurazione delle acque, che però di fatto non si avviarono mai, come testimonia una nuova analisi effettuata dalla Provincia il 2 dicembre 1974 che giunse alle seguenti conclusioni: “Le acque usate che la ICMESA immette nel Tarò sono inquinate dal lato chimico ed a tossicità altissima estrema da quello ittico-tossicologico. Sono urgenti pertanto specifici ed efficienti lavori di bonifica. La ditta inoltre deve provvedere a dare una sistemazione più confacente ai fanghi che, attualmente, per percolazione, possono inquinare le falde sotterranee”.
Alla fine del 1974 il direttore tecnico dell´ICMESA, Herwig Von Zwehl, fu denunciato alla magistratura per “avere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso corroso ed adulterato acque sotterranee destinate alla alimentazione prima che le stesse fossero attinte, rendendole pericolose per la salute pubblica, tramite lo scarico di fanghi in una pozza perdente.”
Il 5 settembre 1975, a seguito di un nuovo sopralluogo, la Provincia confermò le accuse di inquinamento delle acque sotterranee nei confronti della fabbrica di Meda. Nonostante il rapporto della Provincia, il 15 giugno 1976 Herwig Von Zwehl fu assolto per “insufficienza di prova”.
Ed eccoci al giorno fatidico: Era una domenica pomeriggio. L´11 luglio 1976. Il sindaco di Seveso, Francesco Rocca, ricevette la visita di due tecnici dell´ICMESA. I due tecnici gli riferirono di un incidente successo il 10 luglio all´interno della fabbrica. Ricorda Rocca:
La descrizione fu breve, più che altro tecnica, di ciò che era avvenuto. Per la prima volta sentii parlare di “triclorofenolo”, il tcf. “E´ un prodotto chimico intermedio di base” mi spiegò subito il dr. Paoletti. “Lo può trovare anche dal droghiere, serve anche per i diserbanti. E proprio il reattore che lo produce è scoppiato. Non si sa bene perché. Ieri mattina alle sei è cessato il turno e come ogni sabato hanno lasciato raffreddare il reattore. Domani la produzione di tcf sarebbe ripresa regolarmente, se non fosse avvenuta questa reazione incontrollata all´interno, che lentamente ha fatto alzare la temperatura e la pressione, finché poco dopo mezzogiorno è avvenuto lo scoppio”. Il 12 luglio 1976 la direzione della fabbrica scrisse all´ufficiale sanitario supplente dottor Uberti, che sostituiva il titolare, professor Ghetti, in ferie: Facendo riferimento alle precedenti informazioni e colloqui e alla vostra visita odierna, vi confermiamo quanto segue: Sabato 10 luglio 76 alle ore 12.40 ca. si è verificato all´interno del nostro Stabilimento un incidente. Vi precisiamo che la fabbrica era ferma per la normale giornata di sosta del sabato con la presenza soltanto di personale di manutenzione e lavori vari, che non interessavano il reparto in questione. Le cause dell´incidente sono tuttora all´esame e al vaglio. Per ora possiamo supporre che la dinamica dei fatti sia avvenuta per una inspiegabile reazione chimica esotermica in un reattore lasciato in una fase di raffreddamento. Nel reattore si trovavano le materie seguenti: tetraclorobenzolo, etilenglicole e soda caustica che portano alla formazione di triclorofenolo grezzo. Alla fine del normale orario di lavoro (alle ore 06.00 del sabato) il reattore è stato lasciato fermo senza agitazione e riscaldamento, come di consueto, contenente il prodotto grezzo. Non sappiamo cosa possa essere successo fino alle ore 12.40, momento in cui si è rotto il disco di sicurezza, lasciando fuoriuscire una nube di vapori che, dopo aver investito le piante all´interno del nostro Stabilimento, si è diretta verso sud-est, spinta dal vento e dissolvendosi nel giro di breve tempo. Non essendo in grado di valutare le sostanze trascinate da questi vapori ed il loro esatto effetto, abbiamo provveduto ad intervenire presso i vicini per impedire il consumo di eventuali prodotti d´orto, sapendo che il prodotto finito viene anche impiegato in sostanze erbicide. Per il momento abbiamo sospeso questa lavorazione, concentrando le nostre ricerche nella spiegazione di quanto accaduto, per evitare casi analoghi nel futuro.
Il direttore tecnico della Givaudan, dottor Sambeth, avuta notizia dell´incidente il successivo 11 luglio alle ore 11.45, ipotizzò la possibilità che si fosse prodotta TCDD. La certezza scientifica della fuoriuscita di TCDD fu confermata il 14 luglio dalle analisi compiute nel laboratorio della Givaudan a Duebendorf (Zurigo) su materiale prelevato nell´ambiente circostante l´ICMESA. Anche dopo la conferma dei sospetti iniziali, sia i responsabili dell´ICMESA che quelli della Givaudan non dettero alcuna comunicazione della circostanza alle autorità italiane. Solo otto giorni dopo, il 18 luglio, allorché il direttore del Laboratorio chimico provinciale di Milano prospettò ai responsabili della fabbrica di Meda la possibilità della presenza di diossina, fu preannunciato l´arrivo in Italia del direttore del Laboratorio della Givaudan e solamente il 19 luglio 1976, l´ICMESA e la Givaudan si decisero ad ammettere la gravità della situazione, dichiarando ufficialmente la presenza di tetraclorodibenzo-para-diossina tra le altre sostanze altamente tossiche. Invece soltanto il 21 luglio 1976 il direttore del Laboratorio provinciale di igiene e profilassi, Cavallaro, e l´ufficiale sanitario di Seveso, Ghetti, dai Laboratori Givaudan di Duebendorf, confermarono al sindaco di Seveso la presenza di diossina nella nube tossica fuoriuscita il 10 luglio.
Nei “giorni del silenzio”, ovvero nei cinque giorni che passarono tra la fuoriuscita della nube ed i primi provvedimenti presi dai sindaci di Seveso e di Meda, si delineò con maggiore precisione la dinamica dell´incidente. I carabinieri di Meda infatti, nell´ambito dell´attività di polizia giudiziaria, confermarono che la nube si era formata a causa della rottura del disco di sicurezza del reattore “A 101″ e ciò per effetto di una reazione chimica esotermica. La rottura del disco causò lo scarico violento di particelle di vapori di glicole e di particelle varie, attraverso il tubo di sfiato.
La diffusione di particelle avvenne essenzialmente nei primi istanti e, complessivamente, durante le tre fasi dell´incidente fuoriuscirono circa 400 kg di prodotti di reazione e reattivi. La nube tossica comprendeva tra l´altro triclorofenolo, soda caustica e il 3,5% di diossina, pari quindi a 14 kg. Lo scarico fu trascinato dal vento che lo portò con sé lungo il suo percorso in direzione sud, sud-est. Come rilevato dalle stazioni meteorologiche di Carate Brianza e Como, quando avvenne l´incidente, il vento soffiava alla velocità di circa 5m/s.
Ancora il 18 luglio, quando il sindaco di Meda ordinò a scopo cautelativo la chiusura della fabbrica, la direzione cercò di assicurare le autorità sostenendo la non pericolosità dello svolgimento dell´attività lavorativa. Dopo le prime verifiche effettuate il 12 luglio, nel corso delle quali l´ufficiale sanitario supplente non aveva rilevato alcun danno alle persone ma solo la bruciatura delle piante investite dalla nube, il 15 luglio Uberti accertò i numerosi casi di intossicazione e raccomandò alle autorità di prendere urgentemente “immediati provvedimenti per tutelare la salute della popolazione”. In attesa di ulteriori comunicazioni “da parte dei laboratori della ditta ICMESA”, su come agire e sulle eventuali norme di profilassi da prescrivere, l´ufficiale sanitario supplente si riservava di ordinare l´evacuazione della zona interessata. Lo stesso giorno della comunicazione di Uberti, i sindaci di Seveso e Meda dichiararono la zona del quartiere di San Pietro limitrofa all´ICMESA infestata da sostanze tossiche e, recependo quanto prescritto dall´ufficiale sanitario, vietarono alla popolazione di toccare ortaggi, terra, erba e animali della zona delimitata e prescrissero di mantenere la più scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti.
Solo venerdì 24 luglio, quattordici giorni dopo la fuoriuscita della nube tossica, la verifica incrociata delle analisi effettuate dalle strutture sanitarie italiane con quelle dei Laboratori Givaudan confermò una presenza notevole di TCDD nella zona maggiormente colpita dalla nube tossica. L´area fu estesa, con inizio dalla fabbrica, verso sud per una superficie di circa 15 ettari e per una profondità di circa 750 metri. Inoltre si decise di evacuare la popolazione, di recintare la zona e vietarne l´accesso. Nacque così la Zona “A”. Con le ordinanze numero 48 e numero 6 del 24 luglio, i sindaci di Seveso e di Meda imposero, entro il successivo lunedì 26 luglio, l´evacuazione dalla zona inquinata con conseguente trasferimento delle famiglie interessate per il periodo strettamente necessario per effettuare le operazioni di bonifica. Rocca e Malgrati vietarono altresì di asportare dalle abitazioni utensili di qualsiasi genere e di portare con sé animali da cortile alla cui alimentazione avrebbe provveduto il personale degli uffici veterinari. Fu l’inizio di un periodo molto travagliato!.