A Roma la commemorazione per la Battaglia di Nikolajewka

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Battaglia di Nikolajewka – Nella ricorrenza del 76mo anniversario della Battaglia di Nikolajewka, avvenuta in Russia il 26 gennaio 1943 nella quale persero la vita decine di migliaia di soldati italiani, domenica 27 gennaio, a Roma, sulla via Cassia, si terrà una commemorazione solenne tutta da vivere.

L’appuntamento è a Tomba di Nerone, nel Giardino dei Caduti e Dispersi in Russia, in via Cassia 737.

Il programma prevede alle 9.30 il via all’evento con la presenza di rappresentanti delle Forze Armate in servizio e in congedo e la partecipazione delle benemerite Associazioni di Volontariato.

La sfilata prenderà il via alle 10.15 per concludersi 15 minuti dopo, con la Corsa dei Bersaglieri e la Fanfara, al Giardino dei Caduti sul Fronte Russo dove si terrà la cerimonia di commemorazione: alzabandiera, inno nazionale, deposizione corona, ascolto del “Silenzio” e Messa al campo officiata da Mons. Giacomino Feminò.

La cerimonia sarà chiusa dalla Fanfara dei Bersaglieri.

Ma rivisitiamo la storia di quei freddi giorni…..

La Battaglia di Nikolajewka Fronte russo, gennaio 1943

Dall’autunno 1942 il Corpo d’Armata Alpino, costituito dalle tre Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, era
schierato sul fronte del fiume Don, affiancato da altre Divisioni di fanteria italiane, da reparti tedeschi e degli altri alleati, rumeni e ungheresi.
Il 15 dicembre, con un potenziale d’urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni (basti pensare che
impiegarono 750 carri armati e noi non avevamo né carri, né efficienti armi controcarro), i Russi dilagarono nelle
retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca schierate più ad Est. Esse dovettero
sganciarsi dalle posizioni sul Don, iniziando quella terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in
mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini tra Caduti e
prigionieri.

L’accerchiamento
Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d’Armata Alpino ricevette l’ordine di rimanere sulle
posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato.
Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte
tenuto dagli alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a
Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d’Armata Alpino in una vasta e profonda
sacca.

Il ripiegamento
Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un’unica alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17
gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino
di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali.
La colonna in ritirata
La marcia del Corpo d’Armata Alpino verso la salvezza fu un evento drammatico, doloroso ed allucinante,
costellato da innumerevoli episodi di valore, di grande solidarietà, in cui circa 40.000 uomini si batterono
disperatamente, senza sosta, per 15 interminabili giorni e per 200 chilometri.
La battaglia di Nikolajewka
Fu così che dopo 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati
dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli alpini della Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka. Forti del
tradizionale spirito di corpo gli alpini del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di
fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati nelle case.

Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una
modesta collinetta, protetti da un terrapieno della ferrovia che correva pressoché attorno all’abitato e che
costituiva un’ottima protezione per il nemico. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini
ammontavano a circa una divisione. Verso le ore 9.30 venne ordinato di attaccare. In un primo tempo si
lanciarono all’assalto gli alpini superstiti del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II Battaglione misto genio
della Tridentina, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e da tre semoventi tedeschi.
La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta; in più punti gli alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere le prime isbe dell’abitato dove sistemarono immediatamente le mitragliatrici, ma le perdite furono
gravissime per il violento fuoco dei Russi. Nonostante le sanguinose perdite, gli alpini continuarono a combattere
con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e contrassalti portati di casa in casa; venne conquistata la stazione
ferroviaria e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa.
La reazione russa fu violentissima: gli alpini furono costretti ad arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di
rinforzi. Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi
di artiglieria Vicenza e Val Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col Battaglione L’Aquila:
anch’essi vennero inviati nel cuore della battaglia.
Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che mitragliavano a bassa quota, opponeva una strenua resistenza. Sul
campanile della chiesa c’era una mitragliatrice che faceva strage di alpini. La neve era tinta di rosso: su di essa
giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti.
Nonostante gli innumerevoli atti di valore personale di ufficiali, sottufficiali e soldati, spinti sino al cosciente
sacrificio della propria vita, la resistenza era ancora attivissima e l’esito della battaglia era non del tutto
scontato.La situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull’orizzonte ed era
evidente che una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero,
avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.
Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da
fare per rompere l’accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un
semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di “Tridentina avanti!”
trascinava i suoi alpini all’assalto.
Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò sulle labbra da un alpino all’altro, scosse la massa enorme degli
sbandati che, come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciarono urlando verso il
sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono travolgendo la linea di resistenza sovietica. I Russi
sorpresi dalla rapidità dell’azione dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i
materiali. Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti
gli alpini, senza distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito di sacrificio e di alto senso del dovere.

Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero il 30
gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti. Il 31 con il passaggio delle
consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo.
Fino al 2 febbraio continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata. I feriti gravi vennero avviati ai vari
ospedali, poi a Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.
La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2 febbraio per giungere a Gomel il 1° marzo. Gli alpini percorsero
a piedi 700 km e solamente alcuni, nell’ultimo tratto, poterono usufruire del trasporto in ferrovia.
Il rimpatrio
Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo
d’Armata Alpino; il giorno 15 partì l’ultimo convoglio e il 24 tutti furono in Patria.
Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d’Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne
bastarono 17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna
divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e
1.300 della Cuneense.




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