Tante piccole croci invisibili e pesanti

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Tante piccole croci invisibili e pesanti

08 novembre 2016 a Vespolate, in provincia di Novara, un uomo uccide il figlio disabile soffocandolo nel sonno e poi tenta il suicidio col gas. La moglie era morta di tumore un anno e mezzo fa. Ora è grave, ricoverato in ospedale.

11 novembre 2015: a Gallipoli un ex dirigente scolastico di 75 anni uccide con un colpo di pistola (legalmente detenuta) il figlio affetto da disabilità psichica e poi si costituisce alle forze dell’ordine. Solito dramma: che ne sarà di lui quando io non ci sarò più?

4 novembre 2015: a Mantova un pensionato 88enne, Luigi Santachiara, uccide il figlio Paolo, 51 anni, tetraplegico, e poi si impicca al balcone di casa. Lascia un biglietto ai familiari: “scusatemi per il folle gesto”. La moglie era ricoverata per una recente frattura, e per lui lì a casa, da solo, le domande sul futuro di quel figlio disabile si sono fatte minacciose. Così ha staccato il respiratore al figlio e gli ha coperto naso e bocca col nastro adesivo per farlo soffocare e poi si è impiccato appendendosi al balcone.

9 aprile 2014: a Roma un uomo di 76 anni uccide la moglie di 64 gravemente malata con un colpo di pistola e il figlio disabile di 36 anni soffocandolo con un cuscino nel letto. Poi chiama il 113.

Quanti casi come questi passano inosservati nelle cronache locali e quanti drammi familiari si consumano in una cieca e muta disperazione che, se non sfocia in un omicidio, comunque si tramuta in stati depressivi invalidanti?

La disabilità di un figlio è una croce così spesso privata, a totale carico della famiglia, da annichilire le persone sotto il peso della solitudine e della difficoltà. Lo stato tante volte, invece di aiutare e sostenere, mette i bastoni fra le ruote, con la sua asfissiante burocrazia, la sua disumana trafila di numeri di telefono da comporre per sentirsi rimpallare da uno sportello ad un altro alla ricerca di un servizio che è erogato solo sulla carta e nella realtà è condizionato da stringate voci di bilancio, risorse centellinate, volubili volontà di operatori.

Mancano i soldi, mancano le professionalità, mancano soprattutto le volontà. Il disabile è un peso per la società, la famiglia che se ne trova uno in casa, come premio della pesca di una malvagia lotteria, ha la colpa di non essersene disfatto quanto prima, la sfacciataggine di mostrare la sua necessità alla nostra opulente società perfetta, la petulanza di reclamare addirittura come diritto le briciole di un assistenzialismo di stato che non garantisce nemmeno i livelli minimi di dignità umana.

A noi, sani e forti, i disabili fanno schifo! Non lo voglio il bambino autistico in classe con mio figlio, non lo voglio il posto in hotel con la comitiva di antiestetici handicappati, non lo voglio l’ombrellone di fianco a quello spastico che sbava. E tu, genitore sprovveduto e superficiale, che hai osato partorire un figlio disabile nonostante gli ammonimenti dei dottori, vuoi forse ora far ricadere su di me il peso della sua cura? Non ti senti in colpa, genitore che strepiti per avere quel che la legge ti concede come carità?

Questi mostruosi pensieri sono stati tradotti in parole più volte anche di fronte ad un pubblico, non sono rigurgiti deplorevoli di disumanità che ciascuno può contemplare con orrore in un lampo di debolezza e ricacciare fieramente lontano da sé, sono teorie ufficiali, si traducono in azioni rivendicate con orgoglio, prendono corpo in propositi legislativi.

Si vuole eliminare la malattia eliminando il malato. Questo fa l’aborto terapeutico, questo fa l’eutanasia. E chi non ha voluto cedere a tale non-logica, riconoscendo il plateale errore di bersaglio, viene accantonato, abbandonato, persino accusato di appesantire la società con le sue richieste di aiuto.

In questo clima di discriminazione e pregiudizio verso i disabili, in cui siamo immersi fino al collo sempre più, si spiegano le drammatiche storie di omicidio-suicidio dei padri con figli in difficoltà. Gli uomini vogliono risolvere i problemi che incontrano in modo pianificato ed efficacie, e la totale mancanza di una prospettiva per il futuro, al venir meno delle proprie forze, li spinge nella disperazione più nera. Chi si prenderà cura dei figli bisognosi quando i genitori non ci saranno più?

La legge 112 “*Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”*, è stata approvata 4 mesi fa dal parlamento, ma i suoi tempi attuativi sono ignoti e questo lo dice chiaramente Marco Bollani, referente tecnico di ANFFAS Nazionale per il Dopo di Noi: non c’è traccia dei decreti attuativi, ad oggi non sono stati definiti nemmeno i livelli essenziali delle prestazioni nel campo sociale da garantire ai destinatari della legge.

Più velocemente vedranno il dibattito in parlamento le 4 proposte di legge per il fine vita, cioè l’introduzione dell’eutanasia. Sembra quasi che si vogliano esasperare gli animi di chi è già in difficoltà, tanto da indurli ad invocare l’eutanasia come una soluzione auspicata invece che un’aberrante ingiustizia.

Il problema qui non è (solo) la mancanza di risposte concrete a problemi fisici e psichici reali e contingenti, ma è anche e soprattutto il cambiamento in atto della mentalità corrente: il disabile non è più percepito come un soggetto debole per il quale provare la giusta pietà e verso il quale attivare le proprie risorse di assistenza anche morale, mediante un sostegno che può semplicemente esplicitarsi in banali atti di cortesia, nell’aiutare qualcuno a far superare un gradino ad una carrozzina, nel cedere il posto al claudicante, nel portare sorridente pazienza verso un gesto di irrequietezza di un autistico. Oggi no, con disprezzo giriamola testa dall’altra parte quando incontriamo un disabile, ci imbattiamo in gente sfacciata che domanda “ma non ti senti in colpa a gravare sul servizio sanitario nazionale con la tua scelta di partorire questo figlio handicappato?” (domanda realmente posta a Sabrina Pietrangeli della Quercia Millenaria in un incontro pubblico).

I soldi per insegnare il gender nelle scuole ci sono (ha detto il ministro Giannini), mentre l’assistenza ai disabili sta partendo a scoppio ritardato e con notevoli decurtazione di orari in tutta Italia per mancanza di fondi. Il problema non sono i soldi, ma come li si vuole spendere. Ci si riempie la bocca di proclami sul rispetto, e poi nessuno che si scandalizzi per queste ingiustizie, per queste mancanze di rispetto palesi, dolorose e gravi che avvengono ogni giorno, sulla pelle dei bambini.

Chi si trova nella difficile situazione di assistere un disabile, giorno dopo giorno, nello stillicidio quotidiano di ostacoli che non si risolvono mai, nella pesantezza di dover gestire una diversità che è sempre eccezione per tutti, nella prigionia di un ruolo di assistenza a tempo pieno da cui non c’è vacanza, non può combattere anche contro l’insensibilità immorale di una società indifferente e addirittura aggressiva, offensiva, impudente, che chiama colpa il coraggio di essere ancora umani.

Quando un genitore ritiene che dopo di lui non ci sarà nessuno che possa accogliere il figlio disabile, che oltre i confini ristretti della famiglia non esista un futuro relazionale e assistenziale per il proprio figlio, allora vuol dire che davvero il tessuto sociale si è slabbrato come una rete consunta, che l’egoismo e l’indifferenza sono diventati la regola e si è completamente smarrito il senso della vita umana e del suo valore intrinseco.

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