Baby Squillo e la fame di giustizia

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Si è consumato l’ennesimo capitolo della desolante vicenda delle baby squillo dei Parioli: la Cassazione ha respinto il ricorso della madre di una delle due ragazzine coinvolte nel giro di prostituzione venuto alla luce nell’autunno del 2013.

Sono già stati condannati il promotore del giro, Mirko Ieni, insieme a Nunzio Pizzacalla, altro “gestore” del giro, il commercialista Riccardo Sbarra e l’imprenditore Marco Galuzzo. Condannati anche i clienti Michael De Quattro, Francesco Ferraro e Gianluca Sammarone.

In mezzo a questo panorama di uomini, chi cliente, chi sfruttatore, spicca la figura di questa donna: una 46enne romana che faceva prostituire la figlia 14enne senza alcuno scrupolo e che ora avrà 6 anni di tempo per riflettere nel carcere di Rebibbia.

Desolanti senza possibilità di dubbio alcuno sono le intercettazioni telefoniche delle conversazioni tra madre e figlia: la donna minacciava pure di togliere la figlia da scuola, mentre lei protestava per non avere nemmeno il tempo di svolgere i compiti per il giorno dopo, a causa degli impegni di “lavoro”.

“Il tempo si trova per fare i compiti, quando tu esci da scuola torni a casa … due ore studi … tre ore e…”, suggeriva la donna alla ragazzina che replicava “dopo non ce la faccio ad andare da Minni (Mirko Ieni, uno degli sfruttatori arrestati, ndr), non ce la faccio se studio prima”. E la madre allora propone la soluzione: “Devi trovare un modo per poter organizzarti, considerando poi che esci a mezzogiorno da scuola, dall’una alle tre puoi studia’, tanto tu vai sempre alle tre lì”.

La scuola frequentata dalla ragazzina aveva intuito che qualcosa non andava, sia a causa delle frequenti assenze, sia a causa del comportamento. La madre, chiamata degli insegnanti, aveva addotto scuse, generici malesseri e poi aveva telefonato alla figlia per avvertirla che la preside era sul punto di fare una segnalazione. La figlia le risponde al telefono: “Mamma, sono a casa di Minni, sto lavorando”.

Il panorama umano intorno a questa ragazzina mostra un livello di empatia pari a zero: ritenere una prestazione sessuale di una 14enne un lavoro è un’aberrazione senza misura, un inganno in cui facilmente la giovane è stata fatta cadere proprio da quella figura materna che avrebbe dovuto proteggerla, insegnarle la bellezza dell’amore, il rispetto di sé, la sessualità come espressione di un sentimento.

Eppure non parliamo di un quartiere degradato di Roma o di una periferia suburbana fuori dal mondo: qui siamo ai Parioli, uno dei migliori quartieri di Roma, dove non c’è traccia di povertà materiali. A questo punto non mi pronuncio sulle povertà morali, perché un po’ si sono viste.

È necessario però non fare di ogni erba un fascio: il fatto che la scuola si fosse messa in allarme, ad esempio, rivela come gli educatori si siano sentiti chiamati in causa dalle difficoltà rilevate, non sono rimasti passivi e distratti spettatori.

Inoltre, a differenza di quanto solitamente affermato dagli adolescenti, questa ragazzina ci teneva ad andare a scuola: alla madre ripeteva al telefono “Io voglio andarci mamma io ci voglio andare però non voglio andarci senza aver fatto i compiti”.

In questa vicenda emerge come sia davvero importante il ruolo dell’istruzione quale via per il riscatto dalle povertà morali e materiali, come quel luogo di insegnamento di nozioni possa rivelarsi anche un’àncora di salvezza morale, nel momento in cui lo sguardo smarrito di uno studente si incrocia con gli occhi attenti di un docente.

Le nostre scuole sono sempre più piene di ragazzi difficili, che non tollerano la disciplina, che escono dalle righe di banali linee di comportamento improntate al rispetto reciproco, che hanno risultati scolastici discontinui, che faticano a concentrarsi, che non svolgono i compiti. Anche la classe di mia figlia, un istituto tecnico, subisce questo medesimo destino: ad ogni assemblea di classe gli insegnanti lanciano lo stesso appello sconsolato ai genitori, affinché in qualche modo a casa facciano presente l’importanza di prestare attenzione alle lezioni, di stare banalmente zitti quando parla l’insegnante, di studiare con un po’ di metodo. Scuotendo il capo con un vago sorriso accondiscendente, non riescono a partorire ammonimenti più incisivi di un “sono troppo immaturi” perché i genitori non sempre prendono bene le critiche. Ma quel che c’è dietro si sa: percentuali altissime di famiglie frammentate, genitori divorziati, risposati o no, figli sballottati con la valigia da una casa all’altra, figure genitoriali latitanti, prese dalle proprie attività e dalle proprie vite gestite con un pizzico di egoismo, senza tener conto dei figli.

Dietro all’aggettivo “immaturo” si nascondono spesso ferite niente affatto banali che esplodono in tutta la loro violenza nell’incapacità di gestire le relazioni con i propri compagni in modo equilibrato. Così un litigio tra coetanei si trasforma rapidamente in un tam tam di insulti sui gruppi whatsapp che assume i contorni di bullismo, un flirt amoroso diventa una prestazione sessuale filmata e diffusa, un momento di rabbia si tramuta in un atto di vandalismo. Ci vorrebbe il coraggio di chiamare tutto questo col suo vero nome: non è immaturità, è dolore, e come tale va gestito e trattato, con tanta serietà.

Che se ne fa un ragazzo travolto dal proprio smarrimento della disinteressata considerazione che tanto ormai tutti hanno i genitori separati? O una ragazza tramortita dalla vergogna della rassicurazione che il sesso lo fanno tutti? Questi ragazzi hanno bisogno di essere presi sul serio, a partire dal riconoscimento che la distruzione del tessuto familiare di cui sono vittime è un dramma.

Nella classe di mia figlia è in atto una piccola rivoluzione: un’insegnante esasperata ha domandato ai ragazzi cosa può fare per aiutarli a calmarsi, negando loro l’accesso ai laboratori finché non avessero tirato fuori qualche soluzione concreta. Tra le proposte, una è stata accolta prontamente: alla classe è stato fatto svolgere un tema nel quale dovevano spiegare cosa c’era che non andava in classe secondo loro e come definivano i rapporti con i propri compagni. Sono emersi scheletri negli armadi, rabbia repressa, bisogni inespressi impensabili. I ragazzi hanno invocato più disciplina, punizioni più ferree per i trasgressori, regole più chiare, chiedendo alla scuola quel contenimento che sentivano necessario ma che da soli non riuscivano ad autoimporsi e restituendo ai professori quell’autorità anche e soprattutto disciplinare che negli ultimi anni è completamente svanita.

Gli studenti hanno usato in abbondanza la parola “giustizia”: si sentono travolti dalle cose che non sono giuste. Non è giusto essere oggetto di offese gratuite, non è giusto pagare collettivamente per l’indisciplina di pochi, non è giusto dover sopportare in silenzio una pioggia di bestemmie usate come quotidiano intercalare. Questi ragazzi sconclusionati e ingestibili invocano un padre che li metta in riga, che dica chiaro “questo è sbagliato, tu hai torto” per poter dire anche “hai fatto la cosa giusta, bravo”, chiedono che qualcuno rimetta nero su bianco le regole del vivere in relazione, che hanno smarrito o mai sentito: rispettare le opinioni altrui senza inalberarsi, non parlare alle spalle, accettare un no, non avanzare pretese sugli altri.

I professori che educano davvero sono quelli che sanno rispondere al bisogno di giustizia che tormenta il cuore dei giovani, un bisogno ancestrale e lancinante, molto più urgente e drammatico del bel voto o della vita facile. Non vogliono essere scusati nelle loro mancanze, come nemmeno vogliono veder minimizzati i loro drammi. Pretendere molto da un giovane significa lanciargli il messaggio potente che molto è in grado di dare. Ma è necessario chiedere cose buone ed edificanti, non certo sforzi organizzativi per conciliare studio e prostituzione. I giovani più che voglia di spendere, hanno una gran voglia di spendersi per qualcosa di giusto. Benedetta sia la scuola che riesce ad ascoltare il loro disagio e a non lasciarlo cadere nel vuoto.

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