TIENANMEN – La protesta di piazza Tienanmen fu una serie di manifestazioni popolari di massa, che ebbero luogo principalmente in piazza Tienanmen a Pechino dal 15 aprile al 4 giugno 1989 e culminato nel cosiddetto Massacro di Piazza Tienanmen l’esercito cinese armato con fucili d’assalto e carri armati aprì il fuoco contro i dimostranti. La stima dei morti varia da parecchie centinaia a parecchie migliaia, con migliaia di feriti.
Le proteste videro la partecipazione di studenti, intellettuali e operai. Il simbolo forse più noto della rivolta è il Rivoltoso Sconosciuto, uno studente che solo e disarmato si parò davanti a una colonna di carri armati per fermarli: le fotografie che lo ritraggono sono diventate celebri in tutto il mondo. Nonostante l’esito drammatico e un numero complessivo di vittime (morti, feriti e arrestati) ancora oggi incerto, la protesta diede modo all’estero di conoscere la repressione del governo cinese in tema di diritti umani e libertà di espressione. Inoltre, gli eventi in Cina infervorarono ancor di più gli animi dei manifestanti europei, dando nuovo slancio alle rivolte contro i regimi dell’URSS e degli altri Stati del Blocco orientale (stati-satelliti) che avrebbero portato alla caduta del muro di Berlino (quindi anche del Blocco orientale) e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, evento che segna ufficialmente la fine della guerra fredda, avvenuta nel 1991. Le proteste di Tiananmen del 1989 furono un momento critico nella storia moderna della Cina. Il programma “Riforma e apertura” dopo la Rivoluzione Culturale si è interrotto, ed è stato ripreso solo dopo il Tour del Sud di Deng Xiaoping nel 1992. Le riforme politiche della Cina alla fine degli anni ‘80, tuttavia, si interruppero e fallirono.
La protesta ebbe luogo nello stesso anno nel quale nei Paesi dell’Est europeo incominciavano i fermenti che poi, verso la fine dell’anno, avrebbero portato al rovesciamento di vari Stati comunisti nell’Europa dell’est, fenomeno noto come rivoluzioni del 1989. L’evoluzione della protesta è stata ripartita attraverso cinque episodi: la morte di Hu Yaobang, le sollevazioni, la tregua con le autorità, il confronto, ed il massacro.
Il 15 aprile 1989, Hu Yaobang, Segretario generale del Partito Comunista Cinese, morì per un arresto cardiaco. La protesta ebbe inizio in modo relativamente pacato, nascendo dal cordoglio nei confronti del politico, popolare tra i riformisti, e dalla richiesta al Partito di prendere una posizione ufficiale nei suoi confronti. La protesta divenne via via più intensa dopo le notizie dei primi scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti si convinsero allora che i mass media cinesi stessero distorcendo la natura delle loro azioni, che erano solamente volte a supportare la figura di Hu.
Il 22 aprile, giorno dei funerali, gli studenti scesero in piazza Tienanmen, chiedendo di incontrare il Primo ministro Li Peng. La leadership comunista e i media ufficiali ignorarono la protesta e per questo gli studenti proclamarono uno sciopero generale all’Università di Pechino. All’interno del PCC Zhao Ziyang, Segretario generale del Partito, era favorevole a un’opposizione moderata e non violenta nei confronti della manifestazione, riportando il dibattito suscitato dagli studenti in ambiti istituzionali. Favorevole alla linea dura era invece Li Peng, primo ministro, convinto che i manifestanti fossero manipolati da potenze straniere.
Egli, in particolare, approfittò dell’assenza di Zhao, che doveva recarsi in visita ufficiale in Corea del Nord, per diffondere le sue convinzioni. Si incontrò con Deng Xiaoping, che, nonostante si fosse ritirato da tutte le cariche più importanti (ma rimaneva presidente della potente Commissione militare), restava un personaggio estremamente influente nella politica cinese; con lui, si accertò di avere una comunanza di vedute.
l 26 aprile fu pubblicato sul Quotidiano del Popolo un editoriale, comunemente attribuito a Deng Xiaoping, che accusava gli studenti di complottare contro lo Stato e fomentare agitazioni di piazza. Questa dichiarazione fece infuriare gli studenti e il 27 aprile circa 50.000 persone scesero nelle strade di Pechino, ignorando il pericolo di repressioni da parte delle autorità e chiedendo che queste dichiarazioni venissero ritrattate. Inoltre, i manifestanti avevano paura di essere puniti nel caso in cui la situazione fosse tornata alla normalità. Zhao, tornato dalla Corea del Nord tentò ancora di raffreddare gli animi.
Il 4 maggio 1989 circa 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo più libertà nei media e un dialogo formale tra le autorità del partito e una rappresentanza eletta dagli studenti..
Il clima politico che si respirava in Cina e nel resto del mondo nel 1989 aveva spinto molti professori universitari, studenti e intellettuali alla richiesta della Quinta modernizzazione, un progresso socio-politico che consiste nella democrazia e nel multipartitismo, la cui creazione si deve all’attivista per i diritti umani Wei Jingsheng..
Questi pensatori vennero influenzati soprattutto da riforme economiche e sociali come quella della glasnost’ (“trasparenza” in russo), attuata dal presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbačëv. Gli studenti denunciarono pubblicamente l’insicurezza che regnava nel campus, la mancanza di dibattiti e il nepotismo a favore dei figli dei membri del PCC. Gli insegnanti protestavano perché non venivano più pagati. Le petizioni che circolavano chiedevano la liberazione dei prigionieri politici. Anche se in principio fortemente represse, queste idee ricevettero un’accoglienza più favorevole da parte di alcuni riformatori di Deng Xiaoping verso la metà degli anni ottanta, cioè Zhao Ziyang e Hu Yaobang. Durante la protesta di piazza Tiananmen, molti dei manifestanti presero d’esempio la destituzione di Hu come simbolo del nepotismo del potere politico cinese, accusando Deng di aver silurato tutti quelli che non seguivano la sua politica. Gli studenti in particolare elogiavano le idee di Hu a favore della libertà di parola e di stampa.
A questo punto si instaurò una tregua, ma senza che gli studenti riuscissero a convincere la leadership del Partito a instaurare un dialogo realmente costruttivo. In un primo momento la protesta sembrò sul punto di rifluire. Deng Xiaoping, de facto capo del PCC e del governo cinese dal 1978 al 1992. Giustificò la cruenta repressione della protesta come una misura necessaria per mantenere l’ordine sociale e continuare un efficace progresso economico. In questo contesto si inserì la visita del Segretario del PCUS Michail Gorbačëv in Cina, prevista per la metà di maggio. Si trattava di un evento storico in quanto rappresentava la riconciliazione tra le due potenze dopo 19 anni di ostilità diplomatica. Il 13 maggio, duemila studenti decisero di insediarsi in piazza Tienanmen e le loro richieste si radicalizzarono ulteriormente: non solo chiedevano una legittimazione, ma accusavano di corruzione il Partito Comunista Cinese e il tentativo di ritornare al conservatorismo di Deng Xiaoping; si espressero apertamente affinché quello che stava avvenendo fuori dalla Cina, e in particolare in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est, potesse favorire anche in Cina l’attuazione di riforme democratiche. Gorbačëv in tale situazione rappresentò un simbolo del rinnovamento e delle riforme. Alcuni studenti iniziarono uno sciopero della fame. In migliaia si unirono a questa protesta, supportata dagli abitanti di Pechino. Tuttavia iniziò a crearsi un profondo malcontento tra gli oppositori al regime cinese, in particolare tra i membri del Movimento democratico; uno storico conosciuto come Minzhu Han disse che il movimento “appariva essere sprofondato nel suo fondo. Il numero di studenti nella piazza cominciava a diminuire. Quelli che rimanevano non sembravano avere una chiara leadership: Chai Ling, stanca e demoralizzata dalle difficoltà di tenere il Movimento unito, si dimise. La piazza era degenerata in una baraccopoli, disseminata di spazzatura e pervasa dal tanfo dei rifiuti e dai traboccanti water portatili…Tienanmen, una volta un magnete che attirava enormi masse, era diventata solo un campeggio incustodito di poco conto per i cittadini, molti dei quali consideravano la battaglia per la democrazia persa”. Verso la fine di maggio, i manifestanti innalzarono al centro della piazza, di fronte all’immagine di Mao Zedong, un’enorme statua, alta 10 metri, chiamata “Dea della Democrazia”, costruita in polistirolo e cartapesta sopra un’armatura metallica a opera degli studenti dell’Accademia Centrale delle Belle Arti. Grazie a questa statua-simbolo, che aveva rincuorato l’animo dei manifestanti, la gente ritrovò la fiducia e riprese a protestare con entusiasmo. Tra i manifestanti erano presenti anche comunisti dissidenti che cantavano l’internazionale. Questi moti, avevano motivazioni internamente contraddittorie ed estremamente “nazionaliste”. Identificarli come una semplice richiesta di “democrazia all’occidentale” sarebbe una banalizzazione. Negli eventi di piazza Tienanmen del 1989 sfociò un biennio di agitazione che aveva coinvolto tutto il paese, sia a sfavore di alcune riforme di modernizzazione economica, sia a favore di una maggiore trasparenza della pubblica amministrazione e di aumento della libertà di stampa, associazione e riunione. I manifestanti chiedevano anche una liberalizzazione sociale, politica ed economica.
In questo contesto lo stesso Partito Comunista Cinese era tutt’altro che monolitico, i sostenitori dell’appena scomparso Hu Yaobang erano favorevoli in linea di massima a un piano di riforme in sintonia con la glasnost’ e con la perestrojka sovietica, settori della gioventù comunista ufficiale, legati a questi ambienti, erano presenti nella piazza, mentre alcuni dirigenti riformisti del partito erano lodati dai manifestanti (Zhao Ziyang e Hu Yaobang).
Accanto alla “Dea della Democrazia” si videro anche ritratti di Mao e vi furono frequenti riferimenti al partito comunista “delle origini”, così come a Sun Yat Sen. Questi sviluppi, compresa la presenza di supporter di alcune figure interne al comitato centrale, come Zhao Ziyang tra i manifestanti, o il quadro ideologico che faceva riferimento alle Quattro modernizzazioni (scienza e tecnologia, agricoltura, industria e difesa nazionale), e alla richiesta di aggiungerne una Quinta (cioè la democrazia), facevano temere ai conservatori del PCC uno sviluppo simile a quelli ben presenti nella storia cinese, sebbene di segno opposto (“riformista” e non “radicale” per usare categorie occidentali) rispetto a quello operato da Mao a metà degli anni sessanta con le sue Guardie Rosse. Proprio il timore che la rivolta studentesca degenerasse come in quei casi contribuì a rinforzare le posizioni dei conservatori, e a far loro guadagnare la maggioranza all’interno degli organi del PCC. La protesta assunse un carattere decisamente vasto e popolare; i dirigenti cinesi si trovarono di fronte a un grave problema: venne di fatto data una scadenza per risolvere la questione, con il rischio di creare dei martiri che avrebbero potuto destabilizzare ulteriormente il regime, senza contare la crescente simpatia di cui gli studenti godevano tra la popolazione. I dirigenti del PCC però non riuscirono ancora a trovare una linea condivisa per rispondere alla protesta.
Durante la visita di Gorbačëv, il 16 e il 17 maggio, la mobilitazione continuò, portando in piazza centinaia di migliaia di persone. La protesta si era diffusa anche fuori dalla città di Pechino, arrivando a coinvolgere oltre 300 città. In questo contesto, si sottolineò il riformismo di Zhao Ziyang, che era favorevole al dialogo e a una soluzione pacifica. Per sua sfortuna l’ala conservatrice del partito questa volta era ispirata dallo stesso Deng Xiaoping, massima autorità di fatto, che accusava i manifestanti di essere dei “controrivoluzionari al soldo delle potenze estere”. Di fronte all’immobilismo attendista della maggior parte dei dirigenti del Partito, fu Deng Xiaoping, probabilmente ancora uomo forte del regime, a prendere l’iniziativa, decidendo insieme agli anziani del Partito la repressione militare. La notte del 19 maggio, per porre fine alla protesta, fu quindi promulgata la legge marziale. Nella storia della Repubblica popolare cinese la legge marziale era stata proclamata una sola volta a Lhasa, capitale del Tibet, e ora si trattava di dichiararla a Pechino, capitale dello Stato. Zhao Ziyang fu l’unico dirigente del PCC a votare contro la promulgazione della legge marziale. Poche ore dopo, sfidò apertamente il Partito quando si presentò tra gli studenti di piazza Tienanmen, cercando di convincerli a terminare l’occupazione della piazza al più presto possibile (tale atto fu il motivo finale che portò Zhao a essere rimosso da qualsiasi carica politica e in seguito condannato agli arresti domiciliari a vita). La notte del 19 maggio venne quindi convocato il Comitato permanente dell’ufficio politico, organo comprendente i massimi dirigenti del PCC, al quale spettava l’imposizione della legge marziale: alcune fonti riferiscono che Zhao Ziyang fu il solo su 5 a votare contro, altre dicono che, non essendo stata trovata una maggioranza (2 a favore, 2 contro e 1 astenuto), Deng la impose unilateralmente. Resta comunque il fatto che all’esercito, il giorno dopo, fu ordinato di occupare la capitale. Zhao Ziyang tentò quindi una mossa disperata: all’alba del 20 maggio si presentò in piazza Tienanmen e tentò di convincere gli studenti a interrompere lo sciopero della fame e l’occupazione della piazza, promettendo un nuovo negoziato e che le loro ragioni sarebbero state ascoltate. Nonostante la sincera ed evidente preoccupazione di Ziyang e le proposte di un nuovo negoziato, i manifestanti non lo ascoltarono e l’episodio decretò anche la fine della sua carriera politica (pochi giorni dopo fu arrestato). Nemmeno la proclamazione pubblica della legge marziale convinse i manifestanti ad arrendersi. All’inizio l’esercito incontrò una forte resistenza da parte della popolazione e si astenne dal reagire con la forza. La situazione restò quindi paralizzata per 12 giorni. Anche in questo caso fu Deng a prendere la decisione finale: in quanto presidente della Commissione militare centrale, fece pervenire alle truppe l’ordine di usare la forza. La notte del 3 giugno l’esercito iniziò quindi a muoversi dalla periferia verso piazza Tienanmen. Di fronte alla resistenza che incontrarono, le truppe aprirono il fuoco e arrivarono in piazza.
La notte del 3 giugno l’Esercito Popolare di Liberazione iniziò quindi a muoversi dalla periferia verso piazza Tienanmen. Prima dell’irruzione, il governo ordinò a tutti i cittadini di rimanere nelle loro case tramite annunci in televisione e al megafono, che rimasero inascoltati. Dopo esser venuti a conoscenza del fatto che centinaia di migliaia di soldati si stavano avviando verso Tienanmen, gli abitanti si riversarono nelle strade di Pechino, in modo da bloccarne l’avanzata. Come aveva già fatto 2 settimane prima, la gente costruì barricate e ostacoli. Alle 10:30 del mattino, vicino alla stazione Muxidi (dove risiedono ufficiali di alto grado del PCC con le loro famiglie), l’esercito cominciò a sparare sulla folla, facendo moltissime vittime. Molti manifestanti pacifici vennero massacrati dai soldati; la violenza esercitata dai militari sarebbe stata provocata dalla morte di alcuni di essi[58], ma secondo altri fu il governo a ordinare ai soldati di sgombrare la piazza con ogni mezzo. Alcune fotografie mostrano i manifestanti mentre tirano pietre e molotov contro i poliziotti e i veicoli dei soldati posti nelle strade attorno alla piazza, incendiandoli, alcuni con i militari ancora all’interno. Nelle foto si vedono soldati bruciati vivi nei loro mezzi corazzati, mentre altri erano stati picchiati a morte e cadaveri appesi. Sarebbero stati questi i motivi che avrebbero spinto i soldati a fare fuoco sui civili. I soldati setacciarono gli appartamenti nell’area con colpi d’arma da fuoco e molte persone all’interno dei balconi vennero quindi uccise. Secondo Timothy Brook e altri, era stato ordinato all’Esercito di assalire la piazza durante la mezzanotte. Disperati per il fatto di non riuscire a passare, alcuni ufficiali ignoti avrebbero ordinato alle truppe di utilizzare qualsiasi mezzo necessario per entrare nella piazza, aprendo quindi il fuoco sui civili che bloccavano la strada. John Pomfret, reporter del Washington Post, avrebbe affermato in seguito che “Deng Xiaoping e i membri anziani del Partito avessero deciso che, siccome credevano di essere di fronte a un movimento anti-rivoluzionario a livello nazionale simile a ciò che stava accadendo in Unione Sovietica, avevano bisogno di creare un podio insanguinato per far indietreggiare la popolazione nella sottomissione”. Le prime raffiche avrebbero quindi colto di sorpresa i civili, che inizialmente non credevano che i militari avessero fatto un avvertimento dal vivo. Tuttavia la gente decise di rimanere nelle strade e di resistere. Come le truppe si mossero verso la piazza, iniziò a infuriare una battaglia tra le strade che la circondavano. L’esercito tentò di liberare le strade usando gas lacrimogeni e colpi d’arma da fuoco. I manifestanti bloccarono lentamente l’avanzata nemica con barricate formate da veicoli, “sebbene in altri casi l’esercito distrusse le barricate e sparò ai civili”. In molti casi i feriti vennero salvati dai guidatori dei risciò che si erano avventurati nel terreno abbandonato della piazza, cioè tra i militari e la folla, trasportando i feriti in ospedale. Durante l’assedio militare, molte persone indossarono delle fasce nere in segno di protesta contro il governo, affollando i viali o erigendo barricate. In molti casi, i soldati vennero tirati fuori dai carri armati, picchiati e ammazzati dai manifestanti. Nel frattempo l’Esercito Popolare di Liberazione aveva sistematicamente stabilito vari punti di controllo intorno alla città, rincorrendo i manifestanti e bloccando il distretto universitario. Nella stessa piazza Tienanmen vi era un forte dibattito tra i manifestanti: alcuni, come Han Dongfang, promuovevano una ritirata pacifica, altri, come Chai Ling, di rimanere nella piazza. Alle 10 di sera, l’Esercito aveva raggiunto piazza Tienanmen e attendeva ordini dal governo. Venne detto ai soldati di non sparare, ma anche di sgombrare la piazza entro le 6 del mattino, senza eccezioni. Decisero quindi di proporre una finale offerta d’amnistia alle poche migliaia di studenti rimasti alla condizione di lasciare Tienanmen. Verso le 4 del mattino, i leader della protesta misero la questione ai voti: lasciare la piazza o rimanere e affrontare le conseguenze. I pochi studenti rimasti, qualche centinaio, lasciarono la piazza sotto la supervisione dei militari prima dell’alba. I soldati all’interno dei mezzi corazzati si allinearono nelle strade, sparando avanti e lontano sui lati. Kate Adie della BBC parlò di “fuoco indiscriminato” all’interno della piazza. Charlie Cole, reporter e testimone oculare, vide sparare i soldati cinesi con dei fucili d’assalto Tipo 56 in mezzo alla gente vicino a un veicolo trasporto truppe che era stato appena incendiato. Gli studenti che cercavano riparo nei pullman vennero tirati fuori da gruppi di soldati e picchiati con bastoni pesanti. Molti degli studenti che tentarono di lasciare la piazza vennero malmenati. I leader della protesta all’interno di piazza Tienanmen, dove molti avevano tentato di costruire delle fragili barricate di fronte ai veicoli trasporto truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione, si dice che avessero “implorato” gli studenti di non usare armi (come le bombe molotov) contro i soldati. Nel frattempo sembra che alcuni studenti, increduli e spaventati dalla brutalità e violenza delle forze armate, avessero gridato frasi come “Fascisti, smettetela di uccidere e abbasso il governo” e “Perché ci state uccidendo?”. Katie Adie affermò in seguito di aver assistito alla morte di varie persone, di aver visto una donna ancora in vita con un proiettile ficcato in testa, molte persone ferite da colpi d’arma da fuoco e di essere entrata con la troupe in un ospedale vicino al campo di battaglia. Disse che, visto l’enorme numero di morti e feriti, le sale operatorie erano sovraffollate disse anche che molte persone nelle strade avvicinatesi alla troupe erano tremanti di rabbia e paura; molti erano terrorizzati e avevano detto che “ci sarebbe stata una punizione” non c’era una sola voce nelle strade che non esprimesse disperazione e collera; alcuni dissero alla troupe: “Ditelo al mondo”.
Verso le 4 del mattino del 4 giugno, sempre secondo Cole, i carri armati sarebbero penetrati all’interno della piazza, annientando veicoli e schiacciando persone Verso le 5:40 del mattino dello stesso giorno, piazza Tienanmen era stata sgombrata. In seguito alcuni giornalisti stranieri riportarono che c’erano state poche vittime durante lo stesso processo di liberazione della piazza, affermando che molte delle uccisioni avvennero nell’area della stazione Muxidi, verso la strada per piazza Tienanmen, ma non al suo interno.
Il mattino del 5 giugno, i manifestanti, i parenti dei feriti e dei morti, i lavoratori e gli abitanti infuriati tentarono di entrare nella piazza bloccata dai militari, ma vennero fucilati da questi ultimi. I soldati spararono ai civili alla schiena, mentre questi stavano scappando. Queste azioni vennero ripetute innumerevoli volte.
Dopo che l’Esercito ebbe riportato l’ordine nella capitale, i manifestanti continuarono a protestare in molte altre città della Cina per vari giorni. C’erano grandi manifestazioni a Hong Kong, dove la gente indossava le fasce nere in segno di solidarietà con i manifestanti e le vittime di Pechino. C’erano proteste a Canton e manifestazioni su vasta scala a Shanghai, con uno sciopero generale. Tra il 5 e il 9 giugno molte manifestazioni popolari presero vita anche in altre città cinesi, tra cui Xi’an, Wuhan e Nanchino. C’erano proteste anche in altri paesi, dove veniva adottato anche qui l’uso delle fasce nere. Secondo Amnesty International, sarebbero state uccise almeno 300 persone a Chengdu il 5 giugno. Le truppe di Chengdu utilizzarono granate con funzionamento a percussione, manganelli, coltelli e sproni elettrici per bestiame contro i civili. Era stato anche ordinato agli ospedali di non accettare studenti e la seconda notte delle proteste il servizio delle ambulanze venne fermato dalla polizia. Il 9 giugno, Deng Xiaoping riapparve in pubblico per la prima volta dal giorno del massacro e tenne un discorso, che iniziò insieme a un gruppo di generali, in cui Deng definì “martiri” i militari morti durante la protesta. Deng affermò che il vero obiettivo del movimento era quello di rovesciare il Partito e lo Stato. In linea di massima, il governo cinese riottenne il controllo la settimana seguente all’attacco dei militari a piazza Tienanmen. Seguì una grande purga politica, in cui gli ufficiali responsabili di aver organizzato o giustificato le proteste furono rimossi e i leader della protesta di piazza Tienanmen imprigionati.
A livello internazionale, la repressione di piazza Tienanmen provocò la ferma condanna da parte di numerosi Paesi occidentali, che portò anche all’imposizione di un embargo sulla vendita di armi alla Cina. Oggi il clima si è rappacificato e la Cina è stata riaccolta dagli altri paesi nella politica globale, così tanto bene accolta che nonostante sia la causa del covid tutti tacciono!..