Gontran-Marie nacque il 21 febbraio 1877 a Auch, un paese del sud-est della Francia, da François Garrigou-Lagrange, funzionario statale, e Clémence Lasserre. Si trattava di una famiglia della piccola borghesia francese di provincia, nella quale si può annoverare la presenza di uno zio paterno, canonico dell’Arcidiocesi di Tolosa.
I primi studi
Gontran vivrà nel paese natale sino al termine degli studi primari elementari. Tra il ginnasio ed il liceo si sposterà in diverse città, conseguendo la maturità classica a Tarbes. Già all’epoca liceale, il nostro si fece notare per la sua genialità in filosofia, tanto più che un ispettore scolastico restò sbalordito dalle sue risposte. Quell’ispettore era il celebre filosofo Jules Lachelier che, non riuscendo nella conciliazione tra cattolicesimo e kantismo, si dedicò all’insegnamento per salvaguardare la sua fede. Sarà, negli anni successivi, dopo la lettura di Le sens commun, che Lachelier farà presente a Garrigou il suo rammarico per non aver avuto modo di conoscere la filosofia scolastica.
Al termine del primo ciclo di studi, fece il suo ingresso in Università (1896). Frequentò per due anni la Facoltà di Medicina a Bordeaux. Fu allora che avvenne, secondo le sue parole, la “seconda conversione”, grazie alla lettura di un libro di filosofia spicciola del saggista cattolico Ernest Hello.
Prese dunque la decisione, nel 1897, di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori (i Domenicani) della Provincia di Amiens. D’allora in poi s’impose il nome col quale è conosciuto al grande pubblico: fra Réginald.
Compì i primi studi teologici presso il noviziato, sotto la guida, mai dimenticata dal nostro, di p. Ambroise Gardeil, celebre teologo autore di Le donné révélé et la théologie. Il 1902 sarà l’anno dell’Ordinazione sacerdotale in seguito alla quale, a Le Saulchoir, inizierà gli studi di approfondimento.
Dal 1904 comincerà, su invito dei suoi superiori, a frequentare lezioni complementari di filosofia alla Sorbona, dove seguì i corsi di teoretica di Henri Bergson e di storia della filosofia di Victor Brochard. Gli studi nella capitale francese lo porteranno a conoscere un Jacques Maritain ancora ateo e bergsoniano, ma che in futuro, con la moglie Raissa, diverrà suo intimo amico.
Dal 1905 iniziò, sempre a Le Saulchoir come docente di storia della filosofia, quella che sarà la sua lunga carriera di insegnamento. Sarà questa l’occasione per approfondire, oltre a san Tommaso e ai suoi commentatori, due figure della filosofia che contrassegnano la sua conoscenza: i razionalisti Leibniz e Spinoza.
A trentadue anni, nel 1909, il maestro generale dell’Ordine, p. Cormier, fondatore del Collegio Angelico, chiamò p. Réginald a Roma ad insegnare teologia dogmatica. È il medesimo anno nel quale compare la sua prima opera completa: Le sens commun, la philosophie de l’être et le formules dogmatiques. All’Angelicum si occupò per otto anni del trattato De Revelatione, per passare poi al commento della Summa theologiae. Dal 1917 iniziò pure un corso di teologia spirituale, frequentatissimo, anche da alte cariche religiose.
Dai primi Anni ’20 inizia a trascorrere le vacanze estive presso i coniugi Maritain, assieme a quali fondò i cercles de St. Thomas. In questi gruppi diventano sempre più frequenti le conversazioni di teologia e ascetica tenuti da p. Réginald. Già nel 1931 i ritrovi sono circa 150 e, in essi, spiccano nomi come Journet, Dalbiez, van der Meer, O’Sullivan. Sotto la supervisione del nostro, viene redatto il Direttorio per i circoli, De la vie d’oraison, tutto incentrato sulla spiritualità di San Tommaso d’Aquino e di San Giovanni della Croce. Questa esperienza non resterà priva di frutti straordinari, che vanno dalle conversioni alle grazie mistiche.
Ma la consacrazione a maestro di spiritualità avvenne, nel 1923, con il testo Perfection chrétienne et contemplation selon saint Thomas d’Aquin et saint Jean de la Croix, che subito lo conquista al grande pubblico. Nel giro di breve tempo si moltiplicano le predicazioni di esercizi spirituali, la guida di ritiri e la direzione spirituale.
Il 1955 è l’anno della nomina a consultore del Sant’Uffizio; incarico che accetta a fatica, date le instabili condizioni di salute e la novità delle questioni da trattare, di ordine più pratico che speculativo. Nonostante le difficoltà il nuovo ambiente gli piace, specialmente la direzione organizzata e la capacità di sintesi del card. Alfredo Ottaviani. La sua presenza durerà però soltanto cinque anni, quando nel 1960, a causa del peggioramento della sua salute, sempre più scostante, abbandonerà l’incarico.
Gli ultimi anni della sua vita saranno segnati, quasi per contrappasso, da una sempre più frequente perdita della lucidità (morbo di Alzheimer?), che tormenterà quella mente che per circa cinquant’anni ha servito il Signore e la sua Chiesa. Tuttavia seppe accettare eroicamente tale condizione, esternando la sua rassegnazione alla volontà divina nei rari momenti di lucidità. Un ultimo grande sforzo fu la rinuncia alla nomina, voluta da Giovanni XXIII in persona, a consultore della Commissione centrale preparatoria del Concilio ecumenico Vaticano II.
Offrì questi ultimi anni di vita pregando per la Chiesa, sino a quando si spense il 15 febbraio 1964.
IL REALISMO NEOTOMISTICO
1. La filosofia dell’essere opposta a quella del fenomeno e del divenire è l’unica vera.
1.1. Contro il relativismo ed il modernismo: la mente umana, afferrando l’essere ed i principi primi in sé evidenti, raggiunge la verità.
1.2. Il senso comune è la capacità di cogliere naturalmente ed istintivamente l’essere ed i principi primi.
1.3. Con Bergson: l’importanza della ricerca del primo oggetto d’intelligenza; contro Bergson: il primo oggetto conosciuto non sono le idee o puri fenomeni interiori, bensì l’essere (to on). Cade pure il fenomenismo e l’empirismo.
1.4. Confermano le tre operazioni intellettive: apprensione, giudizio e ragionamento. Si esclude dunque ogni via media.
1.5. L’apprensione dell’essere è naturale e necessaria, non si tratta di un postulato. Nel senso comune è già presente in modo confuso tutta la verità chiarita dal sapere filosofico, fino alla verità prima dell’Essere supremo.
2. La verità è conforme all’essere secondo i principi primi evidenti alla mente. Poiché gli assi portanti dell’essere sono i medesimi del pensiero, esso li coglie naturalmente. Tali principi sono speculativi e pratici, ma sempre analitici (soggetto e predicato uniti dal verbo essere).
3. I cinque principi primi dell’essere e del conoscere:
1) Principio di identità o di non-contraddizione
2) Principio di sostanzialità
3) Principio di ragion sufficiente
4) Principio di causalità
5) Principio di finalità
La validità del primo è provata ostensivamente, gli altri analiticamente per riduzione al primo.
Conclusione: la garanzia del valore metafisico della ragione umana, trascendente il fenomenico, che attinge all’Assoluto. Ne deriva l’esistenza dell’Essere sussistente.
4. In base a questo procedimento può essere controbattuto l’agnosticismo humiano e kantiano che, negando l’obiettività della conoscenza, precludono la possibilità di conoscere Dio.
5. Analizza sotto una nuova luce le “cinque vie” di san Tommaso, riuscendo a ridurle ad un’unica via fondata sul principio di causalità. Questo è possibile grazie ad una prova generale che le congloba tutte, rappresentando al meglio il percorso essenziale del senso comune verso Dio.
Prova generale: il più non viene dal meno
1) Il divenire può provenire solo dall’essere determinato,
2) l’essere causato da quello incausato,
3) il contingente dal necessario,
4) l’imperfetto, il composto, il multiplo dal perfetto, dal semplice, dall’uno,
5) l’ordine da un’intelligenza
Conclusione: occorre che ci sia un primo Essere che è a sua volta vita, intelligenza, verità supreme, giustizia e santità perfette, bene sovrano.
6. La natura di Dio è conoscibile per analogia. Tra gli attributi è l’identità di essere ed essenza a distinguere meglio Dio dalle creature poiché è unica di Dio: tale è la verità fondamentale della filosofia cristiana. Si tratta del migliore tomismo del ‘900, preoccupato più del primato epistemologico dell’essere che di quello ontologico.
7. Due questioni riguardo al tomismo:
7.1. Natura della filosofia cristiana. Non bisogna cedere ai due eccessi del razionalismo/semirazionalismo (assoluta indipendenza dalla Rivelazione) e del fideismo (assoluta dipendenza dalla Rivelazione). La soluzione sta nella conciliazione di valore razionale e spirito cristiano.
La filosofia scolastica si dice in sé e positivamente cristiana perché riceve un duplice aiuto: a) una confortatio oggettiva con la rivelazione di certe verità (seppur non fuori dalla ragione ma difficilmente raggiungibili), b) una confortatio soggettiva grazie alla fede.
7.2. Validità del tomismo. Il tomismo non solo gode tutt’oggi di piena validità, ma può far fronte all’arenarsi della ragione a causa della filosofia moderna, tuttavia salvaguardando quanto di buono quest’ultima ha prodotto. Il tomismo si delinea dunque non come un sistema filosofico chiuso ma aperto e disponibile ad assimilare la verità dovunque si trovi. Esso accetta tutto quello che le altre tendenze affermano e rifiuta solo quello che esse negano senza fondamento. Riconoscendo che la realtà supera in ricchezza le nostre conoscenze filosofiche e teologiche, è in grado di conservare il senso del mistero. È propriamente sua la contemplazione tramite i doni soprannaturali dell’intelletto e della sapienza. Per questo siamo continuamente sollecitati dalla dottrina di san Tommaso al desiderio naturale condizionale e inefficace di vedere Dio.
In conclusione possiamo dire che tale potenza assimilatrice del tomismo diventa a sua volta nuovo criterio per giudicare del suo valore astratto e del suo valore nel vissuto pratico.
Il lavoro teologico di Garrigou-Lagrange è caratterizzato dalla forma del commento che, abbracciando quasi tutta la Summa theologiae di san Tommaso, si raccoglie in sei grossi volumi. Ad essi si affiancano, come ouverture, i due volumi De Revelatione. Sinteticamente si può anticipare che non vi sia problema teologico di una qualche rilevanza che Garrigou-Lagrange non abbia affrontato.
1. Natura della teologia
1.1. Definizione: la teologia è la scienza che difende i principi della fede contro coloro che li negano, cerca di comprenderli e di trarne delle conclusioni. Con principi della fede s’intendono i dogmi, i misteri. Tale operazione si realizza pienamente nella teologia sistematica che difende speculativamente i principi della fede, risolvendo le obiezioni, cercandone la comprensione tramite l’analogia sia sul versante naturale sia tra i misteri stessi, per ricavarne infine delle conclusioni.
1.2. La teologia non è una scienza naturale:
* quanto all’oggetto: non tratta della natura ma di Dio e delle cose secondo il loro rapporto con Lui;
* quanto al soggetto: nel teologo sono richieste le condizioni interiori soprannaturali, che pur non sono un habitus entitativamente ed intrinsecamente ma solo radicalmente ed originariamente soprannaturale; dunque la teologia degli eretici non è vera teologia e comunque si distingue specificatamente dalla teologia cattolica;
* quanto al metodo: esso è principalmente il metodo dell’autorità, ovvero la teologia argomenta principalmente l’autorità di Dio rivelante. Gli altri argomenti annessi hanno puro uso strumentale. Dall’autorità si ricava il corpo dottrinale con metodo sintetico-analitico. Inoltre, specificando, la teologia positiva adopera preminentemente il metodo induttivo o analitico, la teologia sistematica il metodo deduttivo o sintetico.
1.3. La teologia si distingue dalla metafisica e dalla fede. La fede ha come motivo formale la rivelazione virtuale (si fonda immediatamente sulla rivelazione divina), la metafisica ha come motivo formale il lume della ragione. La teologia si trova in posizione intermedia: si fonda sulla Rivelazione in quanto essa contiene virtualmente le conclusioni che si possono dedurre con la ragione.
1.4. La maggior comprensione dei misteri. Per far ciò ricorre a due strumenti: l’analogia della fede e le scienze naturali (principalmente la filosofia, contro il fideismo). Tuttavia non è possibile assumere qualunque sistema filosofico che non sia vagliato, di diritto e di dovere, alla luce della Rivelazione.
1.5. Il sistema teologico. Esso non è costituito dall’incasellamento e coordinazione delle verità rivelate all’interno di un precedente sistema filosofico. L’architettura di un sistema teologico deve avere essa stessa origine rivelata: la nozione rivelata di Dio stesso. Di conseguenza il migliore sistema teologico è quello che si rifà alla nozione più alta e più vera di Dio, vale a dire quella di Ente supremo, e non quella di Bene, ovvero in rapporto a noi in quanto fine ultimo. Si noti che il concetto di Ente supremo al quale Garrigou si riferisce non è di natura metafisica bensì biblica, il Dio Unitrino, il mistero della vita intima della divinità.
2. Immutabilità del dogma. Il dogma è oggetto di riflessione da parte della teologia in quanto principio di fede; la questione dell’immutabilità venne risollevata ai tempi di Garrigou dalla crisi modernista. Tale tema tuttavia occupò il nostro già nell’opera filosofica Le sens commun.
2.1. Si tratta di qualificare il dogma non come un limite a cui tende l’intelligenza dei credenti, bensì come una verità assolutamente certa ed immutabile, certamente conforme fin d’ora alla realtà divina.
2.2. Soluzione: per i non credenti porre la questione è già risoluzione affermativa di essa. È necessario però che le nozioni analogiche abbiano valore reale, ontologico, trascendentale ed immutabile.
2.3. La ragione conferma: se quello che affermiamo è, la nostra affermazione è vera. Vale a dire, la sua verità risiede nella conformità con la realtà delle cose.
2.4. La Rivelazione conferma: non può cadere in errore l’infallibilità di Dio comunicata agli apostoli e alla Sua Chiesa.
2.5. Tuttavia, il dogma è immutabile in se stesso, ma potrebbe essere immutabile quoad nos. Quest’ultima possibilità resta aperta grazie alla fecondità inesauribile e vivente della Rivelazione.
2.6. Conclusione: ciò che progredisce in estensione è la conoscenza del dogma, sebbene il dogma sia immutabile in se stesso. Tale progresso avviene attraverso tre istanze: a) confutazione degli errori; b) studio privato dei teologi; c) risposta al bisogno delle anime.
Garrigou-Lagrange è un rappresentante di spicco della tradizione tomistica nella linea e, se possiamo osare, nella progenie dei grandi commentatori domenicani: il Gaetano, Bañez, Giovanni di san Tommaso, verso il quale professa un’evidente preferenza, e dei carmelitani di Salamanca. Fu costante e risoluto avversario dell’eclettismo suareziano e, soprattutto, del molinismo. Egli lo considera come concepito per risolvere un problema certamente importante, ma particolare, come poco coerente con i più alti principi della metafisica e della teologia speculativa che non sarebbe in alcun caso sacrificata o compromessa senza grande danno.
Le sue posizioni tomistiche fondamentali lo equipaggiano per rifiutare l’agnosticismo e il modernismo, per difendere con vigore ed efficacia la distinzione dell’ordine naturale e dell’ordine soprannaturale, la possibilità della rivelazione, tutte le grandi verità rivelate, senza mai perdere di vista il senso del mistero che pone sempre in alto onore e si sforza di sviluppare nei suoi lettori e ascoltatori.
Nel 1957 Pio XII dichiara: «Noi abbiamo spesso avuto la prova del talento e dello zelo con i quali, attraverso la parola e gli scritti, avete difeso e salvaguardato l’integrità del dogma».
Focalizziamo qui il suo ruolo nella rinascita degli studi mistici e le sue posizioni.
1.1. Come Il senso comune conteneva già più che in germe la sua dottrina metafisica e la sua teologia dogmatica, la sua prima opera di spiritualità, Perfezione cristiana e contemplazione, stabilisce in modo solido la dottrina che sosterrà sempre e che le sue opere successive svilupperanno e difenderanno senza vacillare, in se stessa e nei suoi annessi e connessi.
Egli s’impegna nella via aperta, ad esempio, in Francia da Auguste Saudreau e soprattutto, in Spagna, dal suo confratello J. G. Arintero che fu per un certo periodo suo collega all’Angelicum. Egli reagisce fortemente contro le tendenze rappresentate specialmente da A. Farges, sostenitore convinto della netta separazione tra l’ascetica e la mistica, tra le vie “comuni” o ordinarie e le vie straordinarie, intese come comprendenti non solo i fenomeni singolari che talvolta accompagnano la contemplazione infusa o che si presentano senza di essa, ma la contemplazione infusa stessa, le orazioni passive. Per risolvere il problema mistico attuale, egli pensa, il metodo descrittivo, per quanto sia utile e necessario, per quanto fosse stato ben utilizzato da A. Poulain in Les grâces d’oraison (1901), non è sufficiente.
Bisogna spiegare le realtà teologiche attraverso i principi a loro propri. Le dottrine fondamentali di san Tommaso sulla soprannaturalità quoad substantiam della fede, fondata a lungo con il De Revelatione, e delle virtù teologali, l’esistenza delle virtù morali soprannaturali, specificatamente distinte dalle virtù naturale con lo stesso nome, l’efficacia ab estrinseco della grazia, sono in armonia e coerenza perfetta con i più alti insegnamenti dei mistici ortodossi e dei grandi maestri spirituali e ne rendono conto meglio speculativamente. In ragione dell’eminenza della vita soprannaturale e delle ferite della natura umana dovute al peccato originale e alle sue conseguenze, le purificazioni passive, incontestabilmente di ordine mistico, si impongono sotto l’una o l’altra forma per accedere alla santità. Ne consegue dalla formulazione stessa del primo precetto dell’amore di Dio che esso obbliga ciascuno senza misura, secondo la propria condizione e vocazione, a non essere altro hic et nunc che perfetto, o quantomeno a tendere alla perfezione come a un fine da raggiungere. La contemplazione infusa, persino ai suoi gradi più sublimi, non è riducibile a una conoscenza naturale al modo degli angeli per mezzo di specie o idee infuse, ma è l’opera della fede illuminata dai doni intellettuali di scienza, d’intelletto e soprattutto di sapienza.
Alla perfezione, alla vita mistica, sono tutti chiamati almeno per una chiamata generale e remota, se non per una chiamata speciale e prossima, che presuppone evidentemente un insieme di condizioni di difficile realizzazione e che ogni sorta di circostanza può ostacolare o distruggere.
La vita mistica, soprattutto ai suoi gradi più alti, è certamente cosa rara, ma non, per natura e di diritto, “straordinaria”. Essa è nella linea normale della perfezione cristiana. La grazia delle virtù e dei doni vi tende per sé. È a torto che, per mantenere una frattura artificiale tra la via ascetica o ordinaria e la via mistica, pretesa “straordinaria”, ci si sforza di distinguere, e di trovare affermati in san Tommaso, due diversi modi di azione dei doni dello Spirito Santo: l’uno umano come quello delle virtù, l’altro sovrumano. I doni suppliscono all’insufficienza congenita delle virtù che, anche se soprannaturali e infuse, persino teologali, sono sempre per se stesse principi d’azione nel semplice modo umano.
La modalità sovrumana dei doni, armonizzati alla loro regola superiore, li rende unicamente specifici. Salvo per certi dettagli molto secondari concernenti tale o talaltro dono, san Tommaso non ha cambiato opinione o abbandonato l’idea che si è fatto all’inizio. Questa dottrina tomistica dei doni rende conto al meglio della mistica di san Giovanni della Croce, che parla poco esplicitamente dei doni in se stessi, ma descrive alla perfezione ciò che Dio opera nell’anima ponendoli in azione. Le mozioni dei doni seguono e producono da diversi punti di vista il progresso spirituale. In principio molto rare e poco discernibili, esse divengono normalmente più frequenti e più manifeste agli occhi di un direttore esperto; allora, presso gli uni si constata piuttosto la messa in opera dei doni dell’azione, presso gli altri piuttosto quella dei doni di contemplazione. Queste mozioni sono delle grazie operanti per eccellenza, sotto le quali l’anima docile è particolarmente passiva; è quanto fa dire, ed è vero a livello descrittivo: è Dio che fa tutto, Lui solo. Ma esse determinano una reazione vitale, libera, se non anche deliberata, e l’uomo è veramente l’autore, nel proprio piano, dell’atto perfetto al quale Dio così lo muove, con tanta soavità quanta forza. Secondo l’insegnamento dei santi, la limitazione delle grazie e del progresso spirituale non proviene da un rifiuto di Dio di elevare a una maggior intimità con Lui, ma piuttosto da una sorta di fuga dell’anima davanti ai sacrifici, alle rinunce e alle spogliazioni necessarie per purificarla e elevarla più in alto. Si devono intendere così, secondo il nostro autore – forse un po’ avvezzo a interpretarli e a ridurli – particolarmente i testi di san Giovanni della Croce. Egli non è dunque presuntuoso nell’aspirare alla vita mistica sotto una forma o sotto un’altra e di disporsi a essa con l’aiuto della grazia comune. Normalmente faranno seguito grazie più elevate.
Ma sarebbe temerario e presuntuoso desiderare i carismi che Dio dona non esclusivamente, ma principalmente, per l’utilità altrui: visioni e rivelazioni particolari, estasi e ogni fenomeno eclatante, che talvolta accompagnano l’alta santità senza essere mai assolutamente necessari alla sua fioritura. L’anima che ne è favorita deve diffidare di essi, come le persone a lei vicine guardarsi dal farci troppo caso, poiché è facile mescolare del proprio a ciò che proviene da Dio, e il demonio è abile a scimmiottare, per imbrogliare e sedurre, il preternaturale divino. Per evitare ogni illusione, è importante osservare relativamente a questi favori le severe ammonizioni di san Giovanni della Croce, di ricordarsi che nient’altro che la pura fede è il mezzo adatto e proporzionato di unione intima con Dio e di inoltro alla parità di amore.
1.2. Con L’amore di Dio e la Croce di Gesù, l’autore domanda a san Tommaso i principi teologici dell’ontologia della grazia, delle virtù e dei doni, e al Dottore Mistico la profonda spiegazione del dinamismo di questa grazia e dei principi operativi che sbocciano nelle potenze. La concezione tomistica dell’amore di carità permette di risolvere le rimanenti difficoltà delle diverse concezioni precedenti, specialmente di Vitoria e di san Bernardo. È soprattutto in quest’opera che bisogna cercare gli sviluppi sul posto della croce nella vita del cristiano, come nel compimento da parte di Gesù del mistero redentore. L’autore sviluppa le ragioni d’essere della mortificazione attiva e delle prove o notti passive dei sensi e dello spirito. L’influenza de La Croix de Jésus di Louis Chardon è qui abbastanza tangibile benché non sia determinante. La nozione di abbandono a Dio nella confidenza filiale come conseguenza dell’attributo divino di provvidenza è illustrata in Providence et confiance en Dieu (come anche in Le divine perfezioni, estratto di Dieu, son existence et sa nature). In questo testo G-L è particolarmente in debito con J.-P. de Caussade, maestro dell’abbandono.
Il Salvatore e il suo amore per noi adegua parallelamente alle anime interiori il trattato teologico dell’Incarnazione redentrice sviluppando le meraviglie dell’amore di Cristo e del Sacramento dell’Eucaristia. La prédestination des saints et la grâce compie lo stesso procedimento per quanto concerne il mistero che riguarda meno lo scrutare che l’adorare nella certezza della fede che la nostra salvezza è più sicura nelle mani di Dio che nelle nostre.
1.3. Tutta la dottrina delle precedenti opere si ritrova, con diversi complementi sulle grandi devozioni cattoliche, in Le tre età della vita interiore, una sorta di somma teologica spirituale nella quale questa vita interiore, considerata innanzitutto in generale e nelle sue fonti, viene successivamente studiata nelle sue fasi, classicamente distinte a partire dallo pseudo-Dionigi in purificativa, illuminativa e unitiva, e che egli identifica rispettivamente, non senza una certa tendenza concordista, a quelle degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti; la vita spirituale si orienta pertanto progressivamente verso la visione beatifica ove, nelle sue vette, appare come la normale pienezza e l’anticipazione.
1.4. La Santa Vergine, alla quale G-L dedica tutti i suoi libri, non è mai assente. Discepolo di san Louis-Marie Grignion de Montfort, del quale amava commentare il Trattato della vera devozione e il Segreto di Maria, egli sa bene che non si può esporre, quale è nell’eterno disegno del Padre e nella sua realizzazione nella pienezza dei tempi, il mistero del Salvatore senza riconoscere a sua Madre il posto che Dio le ha assegnato.
Mantenendo costante nella sua vita di teologo una sorta di analogia tra le fasi della sua devozione mariana e le tre età della vita spirituale, egli intitola un suo libro alla Madonna: La Madre del Salvatore e la nostra vita interiore. In esso considera Maria nella sua maternità divina, ragion d’essere di tutte le sue altre prerogative, nella pienezza di grazia: all’inizio, al momento dell’Incarnazione, alla fine della sua vita terrena, come Madre celeste di tutti gli uomini, Mediatrice universale presso il Mediatore, Regina di misericordia. In questa luce sono spiegate la consacrazione a Maria, l’unione mistica con Lei, la consacrazione del genere umano al suo Cuore Immacolato.
1.5. Soltanto Dio visto faccia a faccia può colmare le profondità dell’anima che ha creato capace di Lui. G-L aveva scritto troppo sulla vita della grazia come pienezza della vita eterna per non completare il suo insegnamento con uno studio della vita gloriosa. L’altra vita e la profondità dell’anima evoca in primo luogo questa profondità che rende l’anima capace di Dio, poi la morte e il giudizio, l’Inferno o l’eterna perdizione per sempre, il Purgatorio o la vita eterna ardentemente desiderata, e infine il Cielo, pienezza di Vita.
1.6. I trattati in lingua latina per i sacerdoti espongono in modalità molto tradizionale la spiritualità sacerdotale e la mettono in guarda contro i pericoli attuali, tanto più gravi quanto più ci si rifiuta di riconoscerli come tali. Per lui, la percezione delle esigenze dei nostri tempi non debbono far misconoscere le esigenze perenni.
G-L non ha altro che meditato l’assoluta gratuità della grazia. Il grande pensiero di sant’Agostino, che il Concilio di Trento fa proprio: «Nam Deus impossibilia non jubet, sed jubendo monet, et facere quod possis, et petere quod non possis» (De natura et gratia 43,50), «et adjuvat ut possis» (sess. 6, De justificatione, cap. 11), fu il suo Leitmotiv. Egli rinviene nella contemplazione di queste somme verità la realizzazione e la confidenza che non saprebbero scaturire dalla sola speculazione teologica. La sua dottrina è chiara e ampia, il suo linguaggio semplice e poco smanioso di finezze letterarie; egli aveva il dono di mettere a disposizione degli spiriti la dottrina spirituale alla quale si rifà. G-L fu più preoccupato di una visione d’insieme e di sintesi che dell’erudizione storica o esegetica, come pure delle edizioni critiche; fu meno attento alle sfumature di pensiero che premurato di riconoscere e proclamare, talvolta un po’ frettolosamente, la loro concordanza. Egli ha grandemente contribuito alla rinascita della teologia spirituale; il suo nome viene associato a quello del carmelitano scalzo Gabriel de Sainte-Marie-Madeleine († 1953) e del gesuita Joseph de Guibert († 1942) che hanno vissuto preoccupati degli stessi problemi spirituali.