Libano – Marc Daou, candidato del partito Taqqadom (Progresso), una nuova formazione nata con il movimento di protesta, sembra quasi non crederci. Ha appena saputo di essere stato eletto nel collegio elettorale di Aley, una roccaforte drusa il cui seggio era stato finora occupato da Talal Arslan, e non riesce a trattenere tutto il suo stupore. “La mia elezione – racconta- riflette uno spostamento della società libanese, di cui noi abbiamo visto le premesse nella protesta popolare dell’ottobre 2019. Oggi emerge un Libano del tutto nuovo lontano dagli scontri tradizionali, dalle divisioni confessionali e dai retaggi sociologici che lo hanno appesantito. Ed è a questa ondata, cui devo il mio seggio elettorale”.
In effetti, scrive il principale quotidiano francofono libanese L’Orient-Le Jour (LOJ), si tratta di un vero e proprio fenomeno sociale che ha caratterizzato l’ultimo periodo della vita del Paese. “Il nuovo Parlamento – spiega in un editoriale – non assomiglierà a quello passato e le elezioni segnano, nonostante i limiti dell’esercizio, una vera e propria svolta sul piano politico”.
I risultati finali dello scrutinio:
Amal, 14 seggi, 10,94%
Movimento patriottico libero, 17 seggi, 13,28%
Movimento del Futuro, 8 seggi, 6,25%
Hezbollah, 13 seggi, 10,16%
Kataeb, 4 seggi, 3,13%
Forze libanesi, 19 seggi, 14,84%
Marada, 2 seggi, 1,56%
Partito socialista progressista, 8 seggi, 6,25%
Gruppi di contestazione, 13 seggi, 10,16%
Indipendenti, 16 seggi, 12,50%
Affiliati all’8 marzo (pro-Hezbollah), 9 seggi, 7,03%
Affiliati al 14 marzo (anti-Hezbollah), 2 seggi, 1,56%
Tachnag, 3 seggi, 2,34%
Il voto del 15 maggio scorso consacra dunque un perdente e due “vincitori”. Il perdente è Hezbollah che, con i suoi alleati cristiani del Movimento patriottico libero, non dispone più della maggioranza in Parlamento. Questa alleanza dovrebbe conquistare circa 61 seggi sui 128 di cui è formata la Camera, mentre nella legislazione che si è appena conclusa essa poteva contare fra i 71 e i 74 seggi.
I grandi vincitori sono le Forze libanesi, sostenute dall’Arabia Saudita, che diventano il primo partito cristiano in seno all’Assemblea (19 seggi contro i 15 del 2018), assieme ai movimenti di protesta. Questi ultimi hanno conquistato 13 seggi, strappandoli alle fazioni e dinastie politiche tradizionali del Paese.
Ora il punto è: cosa farsene della ”vittoria”? Questa è la vera domanda che ci si pone oggi. Se da un lato Hezbollah ha perso la maggioranza, al momento non si vede all’orizzonte nessuna alleanza parlamentare capace di raggiungere la maggioranza dei seggi. La sola certezza è l’emergere di forze ostili a Hezbollah o ai filo-siriani che sono pronti a fronteggiarli, con una maggioranza di deputati che è in aperto contrasto con i loro progetti. Questa nuova situazione è tanto più importante in quanto è l’attuale Camera che sarà chiamata ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica, con il mandato dell’attuale capo di Stato Michel Aoun in scadenza il 31 ottobre.
Analisti ed esperti ritengono esagerata la parola “vittoria” e mettono in guardia contro ogni forma di trionfalismo. Costoro fanno notare che se Hezbollah è in calo e se, fatto di certo nuovo, ha perduto due seggi in uno dei suoi feudi del Libano-Sud (Libano-Sud III), il tandem Hezbollah-Amal mantiene comunque il monopolio della rappresentanza politica in seno alla comunità sciita, con i suoi 27 seggi in Parlamento. Tuttavia, questo monopolio non si traduce in una reale forza a livello istituzionale per la formazione del governo o l’elezione del presidente dell’Assemblea.
Al tempo stesso, se le Forze libanesi hanno superato la Cpl come partito più rappresentativo dell’elettorato cristiano, lo scarto che li separa dai loro avversari è assai flebile (19 seggi contro 17).
Il dato medio sull’affluenza del 41% ha deluso le previsioni elettorali, che spingevano per una massiccia partecipazione alle urne. Tuttavia, secondo lo studioso Salem Zahran, questo deficit è strettamente legato all’emorragia umana che si è verificata in Libano negli ultimi anni. A suo avviso, i dati superiori registrati nella diaspora – fino al 70% degli aventi diritto registrati nei collegi elettorali di Dubai, Berlino e Parigi – sono in realtà quelli che la crisi economica senza precedenti in Libano ha spinto a emigrare dopo le ultime elezioni del 2018.
Sul fronte sunnita, gli effetti dell’appello al boicottaggio delle urne lanciato dall’ex primo ministro Saad Hariri sono stati di fatto limitati, grazie agli appelli contrari per una partecipazione massiccia rivolti dall’ambasciatore dell’Arabia Saudita, dal muftì della Repubblica e dall’ex premier Fouad Siniora, alleato della prima ora di Rafic Hariri. Lo testimoniano gli eccellenti risultati nel versante sunnita ottenuti dal “falco” anti-Hezbollah Ashraf Rifi, a Tripoli, e Osama Saad, a Saïda, dove Bahia Hariri non si è presentata.
Tutte queste figure e partiti non formano un unico blocco e potrebbero invece opporsi l’un l’altro su diversi argomenti chiave, scrive l’OLJ. Tuttavia, “è possibile – prosegue l’editoriale – che si formino alleanze di circostanza o interessi collegati tra loro, come potrebbe avvenire fra forze che intendono consentire la conclusione dell’inchiesta sulla doppia esplosione al porto di Beirut che Hezbollah ha fatto di tutto per ostacolare”. Di fronte a questa nuova realtà il numero due di Hezbollah, Mohammad Raad, ha lanciato un avvertimento ai nuovi deputati, e principalmente alle Forze libanesi. “Vi accettiamo come oppositori in Parlamento, ma non vi accetteremo come scudi che proteggono gli israeliani”. “Non accendete – ha aggiunto – le fiamme della guerra civile”. Com’è facilmente immaginabile, per i prossimi mesi si prevedono fasi di tensione per il Libano.