Morire di fame a un mese di vita per la crudeltà e gli interessi di un mondo cinico. Proprio così: la notizia dell’ennesimo dramma viene dalla martoriata Siria dove, nel silenzio generale squarciato da qualche caso che faccia notizia, la popolazione continua a soffrire.
La piccola Sahar, nata alla periferia di Damasco, è morta per le conseguenze della sua grave malnutrizione nella clinica di Hamouria, nella regione orientale di Ghouta, in Siria.
La madre della bimba era troppo denutrita per riuscire ad allattare mentre il padre non poteva permettersi l’acquisto di latte o integratori. Sahar – che pesava meno di 2 kg – è morta il 21 ottobre e ora la sua storia, raccontata dal fotografo Amer Almohibany con una serie di scatti pubblicati dall’agenzia ‘Afp’, sta facendo il giro del mondo contro le atrocità della guerra.
Secondo i medici locali, quello di Sahar non è purtroppo l’unico caso. Come riporta il Guardian Mohamad Katoub, un dottore della Syrian American Medical Society che opera nella regione di Ghouta (regione per altro colpita anche dagli attacchi chimici e che fa parte delle zone di de escalation degli accordi raggiunti ad Astana) al momento sono almeno 68i casi di grave malnutrizione. Ma lo stesso medico avverte come il dato potrebbe essere più alto, dal momento che molti civili non hanno le forze per raggiungere gli ospedali. Secondo Yahya Abu Yahya, di oltre 9.700 bambini esaminati, oltre 80 soffrono di malnutrizione. A causa della guerra, dell’assedio e del controllo sulle strade delle milizie negli ultimi mesi sono ulteriormente aumentati i prezzi degli alimenti. Un chilo di zucchero ora costa 15 dollari e molte famiglie per sopravvivere hanno iniziato a cuocere le piante e l’erba.
Secondo quanto denunciato dall’Unicef, negli ultimi tre mesi oltre 1.100 bambini hanno sofferto di malnutrizione “acuta” nella regione a est di Damasco in mano ai ribelli ma assediata dalle forze del regime.
In quest’area rurale alle porte della capitale, dove secondo le Nazioni Unite vivono quasi 400mila persone, gli aiuti umanitari arrivano a singhiozzo a causa dei combattimenti in corso dal 2013.
Con l’assedio in Ghouta e “l’aumento dei prezzi alimentari, la questione della malnutrizione si sta aggravando”, ha sottolineato il funzionario Unicef, Monica Awad. Secondo l’organizzazione Onu, negli ultimi tre mesi si sono riscontrati sintomi di “malnutrizione acuta” su 1.114 bambini, mentre 1.600 sono in situazione “a rischio”.
Naturalmente per media e politici il problema non è che la gente muore di fame ma ci troviamo dinnanzi all’ennesima occasione di incolpare le forze governative.
Così, mentre la coalizione internazionale celebra gli ultimi risultati, in Siria è emergenza umanitaria. Daesh ha lasciato dietro di sé morte e distruzione. Secondo gli attivisti dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, prima di perdere il controllo di al Qaryatain, città nella provincia di Homs vicino all’antico sito di Palmira, i miliziani avrebbero ucciso oltre 100 persone e distrutto case e terreni.
In sei anni di guerra civile, in Siria hanno perso la vita oltre 400mila persone di cui quasi 20mila bambini. Sono proprio loro i più colpiti dal conflitto: la guerra nel Paese ha infatti bruciato un’intera generazione. Nel corso degli anni, quasi la metà della popolazione totale è stata costretta ad abbandonare le abitazioni e a fuggire. Con la liberazione delle principali città, i civili stanno facendo ritorno in quello che resta delle loro case, ma mancano beni di prima necessità, energia elettrica, cibo e medicine.
La popolazione sta vivendo in condizioni sempre più estreme: i civili sono vittime di mine, esecuzioni, attacchi suicidi e raid aerei.
La Comunità internazionale ha lanciato numerosi appelli affinché venga permesso alle Ong e agli aiuti umanitari di prestare soccorso ai civili ancora assediati. A causa di un conflitto che vede schierati in campo decine di forze più o meno contrapposte tra loro, la popolazione rimane anche per mesi interi senza cibo. Il risultato è che oltre 3.5 milioni di persone nel Paese soffrono di malnutrizione.
Dopo anni di conflitti e distruzione, il problema diventa ora quello di stabilizzare il Paese. Lo Stato islamico, con le recenti sconfitte, ha perso la sua entità territoriale, ma la Siria rimane ancora più frammentata che mai. “Insieme con i nostri partner e alleati sosterremo i negoziati diplomatici che chiuderanno gli scontri, consentiremo il rientro al sicuro dei profughi e una transizione politica che rispetti la volontà del popolo siriano”, ha dichiarato Donald Trump. Ma il futuro della Siria sembra ancora molto incerto.
“I miliziani del sedicente Stato islamico controllano in Siria meno del 5% del territorio”. Lo ha dichiarato il ministro della Difesa russo Serghei Shoigu. La Russia festeggia così il successo delle sue operazioni militari sul territorio siriano. “Prima dell’intervento dell’aviazione russa la percentuale era di oltre il 70%”, ha ricordato il ministro. Dopo la liberazione di Raqqa, ultima capitale dello Stato islamico, Daesh sta continuando a perdere terreno. I confini del Califfato risultano sempre più labili: una dopo l’altra cadono tutte le roccaforti che negli anni erano diventate sinonimo della forza dello Stato islamico. Gli ultimi possedimenti di Isis si concentrano ora nella provincia di Deir Ezzor, a est del Paese.
Con la riconquista di Raqqa da parte delle Syrian Democratic Forces, con la copertura aerea statunitense, lo Stato islamico ha perso la sua capitale, così come almeno tre quarti del territorio che controllava tra Siria e Iraq nel 2014, anno della proclamazione del Califfato.
Oggi Daesh controlla un’area perlopiù desertica a cavallo tra Siria e Iraq, oltre ad avere altre piccole enclavi, soprattutto nell’area del Golan. Se alcune parti della Siria sono tornate ad una situazione di relativa tranquillità, sotto il controllo dell’esercito di Assad, non si può certo dire che il Paese levantino sia stato riconquistato. I protagonisti in campo sono molti, e gli interessi dei diversi attori non sempre convergenti.
Oggi in Siria il regime, sostenuto soprattutto dai russi, che hanno una base navale a Tartous e diversi distaccamenti militari nelle principali città, ha in mano la direttrice Damasco-Aleppo.
Da ormai più di tre anni, un contributo fondamentale alle operazioni di terra del fronte pro-Assad lo hanno fornito le milizie sciite filo iraniane di Hezbollah, prima nelle città di confine tra Siria e Libano e poi anche nella battaglia di Aleppo.
In generale, le milizie di Hezbollah in particolare, così come le altre milizie paramilitari filo iraniane disseminate tra Siria e soprattutto Iraq, hanno svolto le veci di fanteria del fronte pro-Assad, specie a partire dal 2014, con l’Esercito lealista via via sempre più indebolito da defezioni e mancanza di fondi.
L’Hezbollah libanese ha vinto delle battaglie importanti volte anche a mettere in sicurezza il poroso confine libanese: quella di Qusayr e quella del Qalamoun, a cui si aggiunge anche la recente offensiva – condotta con l’Esercito libanese – su Arsal, cittadina libanese al confine siriano, in cui dal 2014 si era insediato l’Isis, in una dinamica simile a quella che portò alla conquista di Mosul (anche ad Arsal l’Esercito libanese fu colto di sorpresa e quasi 30 soldati furono rapiti e tenuti ostaggi per più di due anni). Anche nei dintorni di Damasco, per esempio nell’offensiva su Zabadani, il ruolo di Hezbollah è stato di primo piano.
L’offensiva del regime ha subito una accelerata nel settembre 2015, cioè da quando i russi sono intervenuti direttamente nel conflitto, fornendo copertura aerea alle truppe governative siriane, coordinate a terra spesso da generali iraniani.
Quasi un terzo della Siria – il nord del Paese – è poi sotto il controllo delle Syrian Democratic Forces, composte da arabi e soprattutto da curdi delle Ypg (a cui si aggiungono anche distaccamenti del Pkk, secondo alcune fonti), e sostenute dai raid aerei americani. Sono le Sdf ad aver condotto l’offensiva su Raqqa e buona parte delle altre offensive (Kobane, per esempio) contro l’Isis in Siria.
Sia Ypg che Hezbollah (in supporto dell’Esercito siriano) sono presenti nel governatorato di Deir Ezzor, liberata dalla presenza dell’Isis, e sembra siano destinate a contendersene il controllo. Deir Ezzor è infatti importante per almeno due ragioni: perché nei suoi dintorni ci sono dei giacimenti petroliferi e perché si trova sulla rotta del “corridoio” che l’Iran cerca di costruire sull’asse Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut.
Il fronte sunnita anti-Assad, fatta eccezione per l’Isis che è dislocato nell’est del Paese e in alcune piccole enclavi, è diviso tra quello a nord e quello a sud del paese. A nord – nella zona di Idlib – c’è Hayat Tahrir al Sham, una sorta di coalizione ombrello di formazioni qaediste o ex qaediste: sono gli eredi di Jabhat al Nusra, formazione qaedista che più di un anno fa aveva formalmente preso le distanze dall’orbita del movimento fondato da Bin Laden. All’interno di HTS sono inquadrati alcuni dei più potenti gruppi ribelli della provincia di Aleppo.
Dopo l’intervento russo alla fine del 2015, alcuni accordi tra il regime siriano e le forse di opposizione armata hanno portato al dislocamento di migliaia di combattenti (assieme alle loro famiglie) nella zona di Idlib.
A inizio ottobre, l’esercito turco ha dato il via ad una offensiva militare contro HTS (usando la Free Syrian Army come fanteria) proprio nella provincia di Idlib, per poter creare un’altra zona di de-escalation. È verosimile che HTS nei prossimi tempi possa nuovamente dividersi al suo interno, dando vita a formazioni più contenute con strategie diverse.
Poi c’è la Free Syrian Army (FSA): quando è iniziato il conflitto, era nata come un confuso e opaco conglomerato di brigate militari autonome, spesso fondate da ex comandanti dell’Esercito siriano che avevano defezionato, e riunite sotto un vago ombrello, privo di coordinamento militare centralizzato.
Infine, c’è Ahrar al Sham, presente soprattutto a sud (area della Ghouta vicino Damasco) ma anche con alcuni distaccamenti a nord. È il gruppo più potente all’interno dell’Esercito Nazionale Unificato (UNA), un’altra coalizione ombrello istituita a metà del 2017. Ahrar al Sham è una delle poche fazioni ribelli ad aver mantenuto la propria denominazione durante tutto l’arco temporale del conflitto.
Di imprinting ideologico salafita e anti-sciita, a metà del 2012 le brigate riconducibili all’interno di Ahrar Al Sham erano più di sessanta, concentrate soprattutto a Idlib, Hama e Aleppo. Pur avendo come obiettivo dichiarato la creazione di uno Stato islamico, a differenza dell’Isis Ahrar al Sham ha cooperato militarmente con le altre formazioni, compreso l’FSA. Mantiene la propria leadership segreta e ha ricevuto la gran parte dei finanziamenti dai Paesi del Golfo. Nell’area di Damasco è attivo anche un altro gruppo, il Jaish al Islam.
Diverse brigate associate all’UNA si sono scontrate con le Sdf, con l’Isis e con HTS per il controllo di porzioni di territorio, per poi ritirarsi in gran parte con l’intervento russo.
Una situazione critica, troppi interessi, tante divergenze e soprattutto tanti, troppo protagonisti in un paese che fa gola a molti. Una guerra che andava verso la deposizione di Assad ( che sarebbe risultata estremamente rischiosa per gli equilibri nazionali ed internazionali) e che ha avuto la sua svolta quando la Russia di Putin ha deciso di scendere in campo per difendere il governo di Damasco. Certo ora il paese, come vi abbiamo ampiamente documentato è spezzettato e diviso in fazioni. Le fazioni non ne aiutano la ripresa ma questo concetto, seppur ben conosciuto da tutte le parti, non fa gli interessi economici di nessuno. Ed allora poco importa se i bimbi muoiono di malnutrizione perché l’economia e la ricchezza vanno oltre la vita ed il suo valore.