Il termine MES, acronimo di “Meccanismo Europeo di Stabilità” è uno di quelli più usati nell’ambiente politico negli ultimi mesi ed è al centro di molte polemiche tra la maggioranza di governo e le opposizioni. Un termine che è ancor più attuale in questo periodo di emergenza dovuto al coronavirus.
Questo meccanismo di stabilità è nato nel corso del 2012 e sostituisce un fondo analogo con l’obiettivo di fornire un sostegno a quei paesi che si trovano in difficoltà economiche e che possono quindi accedere a finanziamenti da parte dell’UE. Un fondo che nel corso degli anni è stato utilizzato da Cipro, dalla Spagna e dalla Grecia. Il nostro Paese è uno dei maggiori sostenitori di questo strumento al quale versa notevoli importi. In relazione al “PIL” dei vari stati soltanto la Germania e la Francia hanno versato nel fondo maggiori contributi di quelli italiani.
Secondo alcuni esperti una riforma del MES potrebbe danneggiare proprio l’Italia. Il funzionamento del MES avviene con la raccolta dei fondi, che poi vengono distribuiti quando uno stato in difficoltà presenta una domanda di assistenza che viene avanzata al “Presidente del Consiglio dei governatori del fondo salva-Stati“. La seconda fase vede il MES effettuare una richiesta di valutazione alla Commissione dell’Unione Europea nella quel si chiede anche di definire i numeri del fabbisogno finanziario dello Stato richiedente. Dopo la valutazione scatta il piano di intervento a favore dello Stato che lo ha richiesto, ed il tempo necessario è di circa 7 giorni. La decisione se assegnare o meno i fondi allo Stato richiedente viene presa con una votazione nella quale in alcuni casi è richiesta la “maggioranza semplice” ed in altri quella “qualificata” e ogni Stato ha un diritto di voto corrispondente alla quota versata nel fondo.
La riforma del MES
Nel corso del 2017 è stata ventilata l’ipotesi di revisione del trattato che ha istituito il MES e questo ha provocato un ampio dibattito nel nostro Paese. Una revisione per la quale è necessaria l’approvazione di tutti i governi ed una successiva ratifica da parte del parlamento nazionale. Le novità che si volevano introdurre sono state giudicate “aspre” e rendono molto difficile l’accesso al programma di aiuti previsto dal trattato.
Le nuove condizioni (almno a parole) prevedono che per effettuare le richieste i vari Stati non siano interessati da una procedura d’infrazione, abbiano almeno da 2 anni un deficit minore del 3% ed un rapporto tra il debito ed il PIL inferiore al 60%.