Una volta ero anch’io di quelli che pensano che la traduzione dalle lingue antiche in genere, e in particolare l’esegesi biblica, siano cose riservate a una manodopera ultraspecializzata ricavata da leve di umanisti. Non ho smesso di pensare che ci vogliano densi anni di studî specialistici, per diventare bravi e competenti esegeti – per quanto viviamo in contesti in cui improbabili arruffapopoli possono permettersi di violentare in tutta calma le pagine bibliche –; però ho smesso di credere che per fare ciò sia necessaria una formazione umanistica: troppi amici ingegneri, matematici, geometri, architetti, mi hanno mostrato che davvero «la Scrittura cresce con chi la legge», e non chiede titoli di studio umanistico prima di svelarsi a un cuore in ricerca.
Questa semmai è l’altra condizione che mi pare sempre più necessaria: bisogna che l’esegeta sia un uomo costantemente proteso alla ricerca della rivelazione di Dio, e che non si concepisca come un mero filologo di testi antichi. Anche un Erri De Luca, che costantemente ripete di non credere in Dio, tuttavia ogni mattina cerca nelle pagine sacre (che legge in originale) qualcosa di più di un mero esercizio linguistico. La Scrittura giudaico-cristiana è un corpo misterioso che cambia la vita: un esegeta è suscitato dallo Spirito anzitutto dall’esperienza di vedere rispecchiata nella storia sacra la propria personale storia di salvezza; quando a questa esperienza si aggiungono l’ispirazione e i mezzi per guidare altre persone in un’analogo cammino di riconoscimento, allora c’è una vocazione esegetica. Ne ho parlato con Roberto Fedele, ingegnere, docente al Politecnico di Milano e… autore di un commento al Vangelo di Marco (Evangelo di Gesù secondo Marco. Il percorso di un cristiano, Cantagalli, pp. 448, 21 euro). Un testo accessibile per fruibilità e sostanzioso quanto a tecnicità: pragmatico come il manuale di un ingegnere e poetico come il taccuino di un uomo che si è ritrovato dentro all’avventura che va a raccontare. Ecco l’intervista che ne è venuta fuori.
Domanda – Roberto Fedele: ingegnere e professore al “Poli”, ma anche animatore di gruppi di ascolto della Parola e autore di un commento al Vangelo. Quantomeno insolito, no?
Risposta – La vita ci pone sfide sempre nuove, sia dal punto di vista lavorativo che relazionale, a maggior ragione nella esperienza di fede. Possiamo decidere di lasciar perdere, di non uscire dalla sfera del comfort, oppure possiamo mettere in pista nuovi progetti, accettando il rischio di trovarci in mezzo al mare con i flutti, il vento dell’incertezza e la paura di affogare. High risk/high gain (alto rischio/alto guadagno) ripete uno slogan anglosassone: sul piatto della bilancia c’è infatti un bene grande, la nostra maturazione, che ci permetterà di trasformare i limiti in punti di forza e sprigionare tutto il capitale di “generatività” di cui siamo capaci. Dal punto di vista dell’esperienza individuale, una sola iniziativa anche piccola, che metta in seria discussione le nostre certezze e richieda sforzo creativo, vale mille azioni che compiamo a occhi chiusi, senza alcuna trepidazione! Dio guida le nostre inquietudini e i nostri (bi-)sogni, pur se pare assopito nella barca, e si nasconde dietro le nostre paure.
D. Come mai il suo bel libro è stato votato all’esegesi di Marco? “Il percorso di un cristiano” non si rintraccia anche in altri testi?
R. Il testo costituisce un manuale per la lectio divina di difficoltà intermedia tra quella dei molti commentari a carattere divulgativo oggi disponibili, e i testi specialistici degli esegeti. La nuova traduzione italiana è il risultato di un accurato studio etimologico e linguistico: essa cerca di rendere presente l’enorme ricchezza del testo greco attraverso l’uso di termini elementari, in apparenza grezzi e non raffinati che corrispondono però a un livello concettuale universale, con la massima capacità evocativa. Nel contempo si è cercato di accompagnare il lettore lungo un cammino di fede, fondendo in una sintesi originale l’esegesi della Parola del Signore con l’approfondimento della vita cristiana. Esiste infatti anche il pericolo di insistere in modo unilaterale sulla formazione biblica, dimenticando il catechismo, la vita di pietà e la prassi (l’arte) missionaria. Ritengo che il testo possa essere utile nella formazione integrale di laici impegnati nell’evangelizzazione, nonché di seminaristi, religiosi e sacerdoti. Sulla falsariga dell’evangelista Marco, scrivere questo libro ha significato per me narrarmi a livello personale e intellettuale, scavando nella testa e nel cuore per districare e rendere più comprensibile il gomitolo delle mie esperienze e conoscenze, con la speranza che altri ne traggano beneficio e portino avanti con gioia il compito dell’evangelizzazione. È stato molto emozionante “ascoltare” le risonanze poetiche e quelle teologiche della nostra bellissima lingua italiana, sempre implorando luce da Dio in un clima di preghiera.
D. Ho trovato nel suo libro parecchie citazioni di Agostino e Tommaso d’Aquino. Quali sono i suoi autori preferiti?
R. Ho avuto una “cotta” per Giovanni della Croce intorno ai 18 anni. Divoravo con avidità le sue opere attratto dal linguaggio poetico e dalla ricerca mistica, che sperimentavo su di me come in un laboratorio da piccolo chimico, anche se mi spaventava la nudità radicale da lui proposta. «Dio è musica silenziosa, solitudine sonora, cena che ristora e che innamora», scrive Giovanni della Croce. Con il senno di poi, godevo dei suoi scritti ma non capivo granché, mandavo giù i bocconi senza masticare. Non avevo compreso che il non detto, l’implicito, il fondamento sommerso, era più importante della imponente costruzione teoretica che veniva fuori, frutto peraltro di un condizionamento culturale a noi estraneo. La nudità di spirito, l’ascesi senza l’amore è nulla, è disumanizzante, non è cristiana. L’ amore solo orienta tutta la persona nella sua unità psico-fisica verso gli altri e verso L’ Altro, ma va incarnato, umanizzato: l’amore è fatto di sguardi e di sorrisi, di attese impazienti e bisticci, dà colore e sapore alla vita. Con il tempo ci si accorge che tutto il resto sbiadisce e solo l’amore resta, ma non per imposizione, non per un moralismo che non guarisce dalla paura, piuttosto per naturale propensione verso la persona amata, per uscire e godere dello stare insieme fino a donare vita, come si dona il respiro. Con tenerezza. «Chi ha paura non è perfetto nell’amore. L’amore perfetto scaccia la paura», si legge nella I Lettera di Giovanni. E poi, un altro fondamento sottaciuto: all’Altro si arriva per lo più attraverso gli altri, in modo “mediato”. Se la fiducia umana ci permette di accostarci al prossimo, la fede ci permette di scavalcare la folla e le nostre sofferenze, fino a toccare il Cristo. In realtà, pur se sembra distratto, Lui ci ha già raggiunto con il Suo “tocco”: al Suo sguardo siamo infatti come una ragazza sul letto di morte, di cui Lui stringe la mano riportandola alla vita. Più di recente sono stato colpito anche dagli scritti di von Balthasar, Divo Barsotti, Madre Teresa di Calcutta, Gabrielle Bossis e altri: quando leggo, cerco soprattutto un contatto con il vissuto degli autori, alcuni dei quali diventano amici da invocare nella preghiera. Forse alla mia età (43 anni) non è più periodo di “cotte”… ma chi può dirlo? Talora il cuore si riaccende all’improvviso, in modo non pianificato, e svela parti di noi di cui sentiamo nostalgia.
D. Queste confidenze riscaldano il cuore: Giovanni della Croce fu pure una delle mie prime passioni! Senta, trova affinità tra ciò che fa sul lavoro e la sua passione per la Bibbia? E tra ciò che vive in famiglia e le altre due attività?
R. Il lavoro del professore universitario è un lavoro di ricerca e di relazione (con gli studenti, il mondo accademico e industriale, la società tutta) ormai su scala globalizzata. Occorre sincronizzare testa e cuore, mettersi in gioco in prima persona cimentandosi con competenze sempre nuove, ma anche imparando a comunicarle. Per la famiglia vale un discorso analogo. La relazione con il coniuge deve fronteggiare circostanze differenti, dopo circa 13 anni di matrimonio si sta trasformando perché noi stessi siamo cambiati, come pure il rapporto con i tre figli che crescono molto rapidamente. Il lavoro di evangelizzazione non può che trarre beneficio dai primi due ambiti, e per certi versi ne è la narrazione. La parola chiave penso sia l’integrazione delle diverse dimensioni della persona, da quella psicofisica a quella di fede con le molteplicità delle relazioni, senza respingere nulla di ciò che è umano, verso un progetto di bene sempre più universale e condiviso.
D. Come avete deciso, lei e sua moglie, di raccontare Gesù ai vostri figli? È venuto tutto spontaneamente? Che pensano i vostri figli dell’insolita passione del babbo?
R. Il messale romano, per la esequie di bimbi morti senza battesimo (due anni fa abbiamo perso una bimba al 5 mese di gravidanza), dice che i figli vengono come “battezzati” nella fede vissuta dei genitori. Posso testimoniare che è vero. I bambini, grazie a Dio, stanno assorbendo la nostra vita di fede, in modo non pianificato e graduale, frequentando anche la parrocchia. Purtroppo essi possono vedere “in diretta” i nostri difetti, assistono ai bisticci (fino a oggi non sono mai volati piatti, grazie a Dio!), tutti punti sui quali io almeno ho ampi margini di miglioramento. Qualche tempo fa mio figlio il maggiore ha svolto un tema sugli hobbies dei propri genitori. Qual è dunque l’hobby di papà? pensava tra sé. Ma certo! L’ hobby di papà…è la religione! fu ahimè la conclusione di mio figlio, che aveva in mente quante ore di vacanza avessi speso per il commento di Marco. Questa affermazione mi diede però l’occasione per riflettere: può la vita cristiana essere vissuta come un hobby? Forse qualcuno saprà raccogliere la provocazione.
D. Lei afferma che Marco serve per chi vuole diventare cristiano o desidera riscoprire la propria fede. Che proporrebbe invece a chi – pare che ne sia in crescita il numero – non avesse alcun desiderio?
R. Mi piace confrontarmi con uomini e donne, e parlare senza paura di tutti gli aspetti della vita. Mi sorprende sempre quanto diverse siano le persone («tra due anime vi è più diversità che tra due gocce d’acqua», scrive Giovanni della Croce), con tanta ricchezza costruita giorno per giorno ma anche con traumi e conflitti irrisolti, recando con sé cassetti chiusi di cui non si trova la chiave o che non si ha il coraggio di aprire. In questa prospettiva la percezione della Verità come adatta a sé, come una Via percorribile che conduce alla pienezza della Vita, è cosa per nulla scontata. Solitamente Dio non fa irruzione nella vita di un individuo con una richiesta di amicizia, come capita in facebook. Piuttosto lo accompagna lungo il cammino quasi senza che se ne accorga, favorendo incontri importanti e attendendo con molta pazienza il tempo della maturazione. Anche noi siamo invitati a operare con questo stile, vivendo relazioni sincere di condivisione e rimanendo vicino, con fedeltà e responsabilità, a chi ci è caro. Siamo un ordito di storie a lungo intessute: per districarlo, ogni filo va seguito fin dall’origine. La fede nasce appunto come esperienza personale e di un popolo che, riflettendo a ritroso sulla propria storia, si riconosce accompagnato da Dio. Gesù si incarna nella nostra vita, torna a nascere, cammina con noi come con i discepoli di Emmaus. Solo così giungiamo a riconoscerLo come il Risorto e il Vivente, e arriviamo a dirgli: «Tu sei il Cristo!».
D. Anche io devo qualcosa della mia (piccola) intelligenza delle Scritture a padre Silvano Fausti (sacerdote gesuita deceduto a Milano nel 2015) e ai corsi che facevamo a Villapizzone, nella periferia milanese, e a Selva di Val Gardena, Secondo lei cos’aveva, lui, di poco comune, tanto da attrarci ad ascoltarlo anche a prezzo di grandi spostamenti?
R. Padre Silvano Fausti aveva un carisma profetico. Quasi come conferma è morto nella festività di Giovanni il Battista, il 24 giugno. Mi ha confortato in un momento di disorientamento. Fu l’unico a dirmi: «Si vede che avevi sbagliato strada! Dio non ti vuole per forza in questo o quel modo, desidera te!». Ricordo ancora il suo sorriso vero, sincero, spassionato, quando tornai a comunicargli che mi sposavo. E non era solo una mia impressione: anche il card. Martini (che ebbe Fausti per confessore) riconosceva in lui un carisma di consolazione. Quando commentava il vangelo padre Fausti era capace di infondere luce nelle mente e libertà nel cuore. «La gente non ascolta quello che dici ma quello che senti», soleva ripetere. Ricordo anche una sua meditazione sul significato cristiano della morte, alla fine della quale pensai: «Che bello sarebbe morire così!». Però si stava un poco a disagio con lui: ti allontanava con modi anche bruschi perché non ti fermassi alla sua persona. Del resto anche con il Battista non penso fosse agevole sorseggiare insieme un caffè! Padre Silvano era eccessivo, radicale, viveva sempre nel deserto, disdegnava le pietanze raffinate perché era assuefatto al cibo essenziale della ricerca di Dio.
D. Ho ben presenti, per personale vissuto, quei modi a tratti bruschi! Solo con il tempo ho compreso l’uso parsimonioso che padre Silvano faceva della tenerezza, quasi per aprire un cuore sofferente all’azione di Dio e non certo in modo indiscriminato. Per quanto riguarda lei, ho letto che padre Silvano l’ha incoraggiata a proseguire nel servizio alla Parola.
R. Padre Fausti spingeva tutti a cercare la propria strada, non faceva tesseramento per fidelizzare le persone, come purtroppo accade in molte associazioni, movimenti e istituzioni attuali, dove gli abbandoni sono considerati al pari dell’apostasia e l’originalità personale donata da Dio è spesso motivo di sospetto, additata come stramberia da reprimere per imporre uniformità e controllo. I laici cristiani non hanno neppure la vocazione di un esercito in assetto di battaglia, come un tempo venivano concepiti gli ordini religiosi: la caratteristica dei laici è vivere e orientare cristianamente tutte le realtà umane con libertà e responsabilità personali, operando per lo più senza clamore, nel grigiore della quotidianità. L’iniziativa individuale può certo condurli a organizzarsi in associazioni o movimenti, ma a mio avviso è importante che si percepiscano, assieme ai benefici, anche i pericoli di un’appartenenza ecclesiale esclusiva, soprattutto in età giovanile. Peraltro, non si capisce perché un laico non possa modificare nel tempo le espressioni della propria spiritualità, adattandole alle circostanze o a un diverso sentire. Dobbiamo avere un grande rispetto della coscienza di ogni persona e delle scelte che da questa emanano dopo riflessione e preghiera, non tanto per una generica tolleranza ma per una ragione profondamente teologica: lo Spirito può svelarsi al cuore di ogni uomo e ivi operare come una nuova creazione. È uno dei punti focali della Nuova Alleanza. Se non capiamo questo, saremo forse confermati in grazia sin dal seno materno, ma come cristiani non avremo capito nulla! Quando ero adolescente, accadeva spesso che personalità di spicco nella vita sociale e culturale si candidassero alle elezioni politiche come “indipendenti” nelle liste di un partito. Qualcosa di analogo mi auguro per i cattolici di oggi: che sappiano vivere l’appartenenza ai rispettivi gruppi ecclesiali con spirito critico, autonomia e responsabilità.
D. Ambizioso auspicio il suo! In proposito, entrando di frequente in contatto sia con ragazzi che con adulti, come trova il livello di formazione dei laici cattolici? Nel pubblico agone il magistero della Chiesa viene ora strattonato “a destra”, per esempio su temi pro-life, altre volte “a sinistra” riguardo all’accoglienza dei migranti e alla solidarietà in generale. Lei che è ormai amico intimo di Marco, cosa ne pensa?
R. Il mondo dei laici, pur facendo i dovuti distinguo, mi appare oggi in uno stadio ancora adolescenziale. L’adolescenza è un’eta fragile, durante la quale ci infatuiamo di modelli esteriori (destra, sinistra?) e ci omologhiamo a gruppi dai quali dipendiamo spesso acriticamente, in fondo perché non accettiamo di maturare attraverso una ricerca spesso faticosa con momenti di paura e di incertezza, analizzando i problemi senza posizioni precostituite. Gli adolescenti sognano a tutti costi che un re regni su di loro e che li faccia uscire vittoriosi, in modo simile a quanto chiesero gli Israeliti al profeta Samuele. Samuele però li ammonì severamente in nome di Dio: «Il re vi spoglierà di tutto, vi priverà dei vostri beni, dei vostri schiavi e perfino dei vostri figli e delle vostre figlie». Potremmo interpretare questa frase nel presente contesto: scegliendo un re che vi guidi alla vittoria, a cui obbedire ciecamente e nelle cui file militare, finirete col perdere quei beni e quei talenti che avreste maturato come frutto del vostro sforzo e della vostra iniziativa, a cominciare proprio dalla capacità di discernimento! Le associazioni, i movimenti e le istituzioni per laici (le cito tutte, perché c’è chi si appiglia perfino al diritto canonico per sottrarsi a critiche e confronti del tutto ragionevoli) fanno tanto bene e costituiscono “scuole di santità”: moltissime persone vi apprendono una spiritualità e una prassi nell’operare il bene. In questi anni la Chiesa si è pronunciata in modo chiaro, e diversi laici di queste realtà sono ascesi agli altari. Ritengo però che il senso di appartenenza esclusiva e di autoreferenzialità rimanga eccessivo, oscurando in alcuni casi lo splendore del vangelo nella coscienza credente con ideologiche glosse. Non dimentichiamo il rimprovero di Gesù: «Togliete signoria alla parola di Dio per la tradizione vostra che avete tradito». I membri delle diverse realtà in alcuni casi non hanno a disposizione strumenti critici per raggiungere una propria autonomia e per bilanciare una formazione spesso unilaterale, anche perché per molti adulti la (ri-)scoperta della fede è coincisa con l’ingresso nel gruppo, senza termini di paragone. Nella maggior parte dei casi invece ritengo che le persone trovino più comodo adagiarsi su quello che “passa il convento” invece di individuare le proprie lacune, saper disapprovare con franchezza il gruppo di riferimento su scelte specifiche (con il pericolo di venire isolati o boicottati), e sviluppare capacità critica per l’autoformazione.
D. Se le chiedessero un consiglio sulla formazione laicale, quale sarebbe la sua “proposta d’emergenza”?
R. Ritengo che l’esperienza di leggere e commentare il vangelo nelle case, in piccoli gruppi guidati da un laico, continui a rappresentare una prospettiva importante sotto molteplici punti di vista. Essa risulta compatibile con cammini personali diversificati ed è utile a persone con diversi livelli di condivisione della fede, da chi è molto impegnato in parrocchia o in altre realtà ecclesiali fino ai “ricomincianti”, che con gli anni hanno dimenticato la grammatica della fede per una sorta di analfabetismo di ritorno, e addirittura ai non credenti. I gruppi di ascolto della Parola nelle case rendono possibile l’esperienza di relazioni profondamente umane vissute alla luce della fede, nelle quali è sempre presente una doppia dimensione: (i) ciascuno è chiamato a sentirsi responsabile in prima persona del cammino altrui, come fratello o sorella che accompagna l’altro con delicatezza ma anche con fedeltà e costanza; (ii) allo stesso tempo, e in modo inscindibile, chi ne fa parte segue fedelmente il magistero dei legittimi Pastori della Chiesa cercando di vivere in prima persona la sequela di Cristo, non a compartimenti stagni ma con una coerenza estesa a tutti gli ambiti della propria esistenza. Il gruppo di ascolto si riunisce almeno 5 o 6 volte all’anno. Il laico che fa da guida, che negli anni si è sforzato di acquisire una preparazione adeguata all’uditorio secondo le sue capacità, espone in modo succinto un brano biblico (prioritariamente dei vangeli ma non solo, seguendo una programmazione anche pluriennale), aiutando le persone a partecipare attivamente sia con la testa che con il cuore, a condividere domande, osservazioni e risonanze sia nella direzione della interpretazione del brano sia delle possibili applicazioni pratiche apprendendo a fare “esegesi” anche della propria vita, in spirito di preghiera e fraternità. Con il tempo si crea una piccola comunità, che irradia intorno a sé vita cristiana e relazioni di benevolenza e amicizia, e che con generosità può aprirsi ai nuovi arrivati del quartiere, al vicino di pianerottolo, alle famiglie dei compagni di scuola, sport o catechismo dei propri figli. Questo tipo di iniziative, declinabili peraltro con sfumature diverse, andrebbero a mio avviso sostenute capillarmente e incoraggiate il più possibile dai parroci e dai pastori locali, favorendo la formazione di nuove persone o coppie giovani (anche tra gli immigrati cristiani) che ne garantiscano la sostenibilità nei prossimi decenni. I gruppi di ascolto della Parola sono espressione di autonomia e flessibilità dei laici nel loro compito di evangelizzazione, di relazioni genuine da offrire con coraggio anche a nuovi conoscenti senza richiedere l’appartenenza esclusiva a un gruppo con forte connotazione “ideologica”, passando attraverso un semplice invito a condividere il caffè o una merenda nella nostra casa. Mi piace dire che la casa è il prolungamento dell’io. Certo tra il nord e il sud Italia si notano differenze culturali nel modo di percepire la dimensione strettamente privata, custodita dall’abitazione, e quella pubblica, luogo di relazioni meno strette e più convenzionali. Questa circostanza tuttavia non può giustificare in un cristiano il disinteresse per il prossimo e lo scadere delle relazioni a livello quasi “pre-morale”: non possiamo esimerci dal maturare, con lo sforzo umano e l’aiuto di Dio, nella direzione di una benevola e accogliente socialità, compensando con sensibilità umana e cristiana altre carenze, siano esse individuali o ambientali. Accogliere una persona in casa è sempre come aprire il proprio cuore a qualcuno che non ci è più estraneo, ma è percepito come più che “prossimo”, come uno di famiglia appunto: di costui ci sentiremo “responsabili” in futuro, e per quanto possibile ci adopereremo per il suo bene umano e spirituale, gli vorremo-bene. Il prendersi cura dell’altro può esprimersi in molti modi, perché l’amore sa essere creativo. Ad esempio, quand’ero ancora ragazzo e vivevo a Napoli, mia madre mi inviava a portare del cibo che aveva cucinato a casa di una sua amica malata di tumore, madre di famiglia pure lei, che sarebbe morta di lì a poco.
D. Grazie di cuore per questo spaccato di vita, prof. Fedele. Ma la ringrazio soprattutto per aver condiviso la sua esperienza nei gruppi di ascolto, che mi ha dato l’idea di un gioioso corollario pastorale alla esortazione Verbum Domini. Quanto a lei, infine, che progetti ha per il prossimo futuro: un altro evangelista “dopo Marco”?
R. Come per il commento a Marco, preferisco quando possibile partire dalla mia vita, dalla mia esperienza quotidiana di credente. Quando un aspetto della vita cristiana è divenuto maturo in me anche come consapevolezza e riflessione, se credo abbia margini di originalità e possa essere utilmente condiviso con altri, allora sento il bisogno di riversarlo per iscritto, almeno in un articolo breve. Mi piacerebbe scrivere qualcosa sul tema delle relazioni umane vissute alla luce della fede, come premessa al tema della missione così caro a papa Francesco.
di Giovanni Marcotullio