Premiato da critica e pubblico, I miei giorni più belli, l’ultimo acclamato film di Arnaud Desplechin, vincitore del Premio César 2016 come migliore regia, arriva anche in Italia con BIM Distribuzione.
Arnaud Desplechin, il grande regista francese che dipinge sentimenti ed emozioni con una maestria unica, torna a raccontarci le vicende di Paul Dédalus, l’enigmatico e romantico anti-eroe già interpretato nel 1996 da Mathieu Amalric in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle). Ne I miei giorni più belli, incontriamo un Paul bambino e ne ripercorriamo l’infanzia e la giovinezza, segnate da grande passione e amori negati, conquistati e perduti.
Il film è quindi una riflessione di un uomo, Paul, sulle esperienze significative di una vita vissuta intensamente: un’infanzia difficile, un’adolescenza di appassionato impegno politico, una giovinezza segnata da scelte radicali e dall’amore assoluto per una sola donna: Esther.
La storia : sul punto di tornare in Francia, Paul Dédalus si abbandona ai ricordi: l’infanzia, la follia di sua madre, le feste, la sua prima volta, la missione segreta in URSS, l’amico che lo ha tradito e l’amore della sua vita. Così a quasi vent’anni dal film precedente, Desplechin ci fa ritrovare il personaggio di Paul Dédalus: allora un brillante trentenne alle prese con lo studio, i sentimenti e le prime ansie dell’età adulta, oggi un uomo di mezza età impegnato a fare i conti con un passato che non sembra essere riuscito a scrollarsi di dosso, e i cui rimpianti appaiono al contrario più che mai acuti e lancinanti. Ad impersonare i panni di Paul è Mathieu Amalric, che proprio grazie a questo ruolo aveva vinto nel 1996 il premio César come miglior attore emergente. E d’altra parte è nel nome stesso dell’uomo, Dédalus, come lo Stephen Dedalus di Ritratto dell’artista da giovane (e di Ulisse), che si può rintracciare la matrice letteraria del personaggio: dalle analogie con l’approccio modernista di James Joyce e il suo stream of consciousness alla natura riflessiva di Paul, diviso anch’egli fra la vocazione per la cultura e il richiamo irresistibile per il viaggio, la scoperta, il contatto e l’incontro con altre realtà.
Ma se l’antropologia è la ‘missione’ di Paul, il motore primario del suo percorso esperienziale verso il ‘fuori’, ad indagare l’altrove, è la memoria a costituire invece il suo strumento d’indagine dentro se stesso, fra le gioie e i dolori di una giovinezza rievocata con la limpida leggerezza di chi stia sfogliando le pagine di un diario. E di questa giovinezza, I miei giorni più belli propone tre capitoli distinti: un fugace episodio dell’infanzia, emblematico per delineare il rapporto fra Paul bambino (Antoine Bui) e sua madre Jeanne (Cécile Garcia-Fogel), donna violenta e schizofrenica; una curiosa avventura durante una gita scolastica a Minsk, in Bielorussia, al tramonto della Guerra Fredda, quando Paul deciderà di cedere il proprio passaporto ad un coetaneo intenzionato a fuggire dall’area sovietica; e infine, a diciannove anni, il fulmineo corteggiamento per la sedicenne Esther, il grande amore della sua vita.
sso i cinque episodi del ciclo Antoine Doinel in un film solo, e scusate se è poco.
In questo film non c’è dialogo, scena o immagine che non sorprenda per originalità e insieme per verità. Come in quei grandi romanzi capaci di inventare quella vita tumultuosa che tutti avremmo voluto, e insieme di renderla così vicina alle nostre da farci ritrovare qualcosa di familiare in ogni passaggio. Il tutto anche grazie a un coraggioso cast di attori giovanissimi e sconosciuti quanto folgoranti.