Cinema – Film – Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità

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Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità – 22 anni dopo Basquiat, Julian Schnabel, regista di Prima che sia notte e Lo scafandro e la farfalla, torna a parlarci della grande arte e lo fa portando al cinema gli ultimi, tormentati anni di Vincent Van Gogh.
Il genio “maledetto” di Vincent Van Gogh raccontato attraverso gli occhi di un artista
contemporaneo, con la collaborazione di Jean-Claude Carriere per la sceneggiatura.
Ad interpretare l’irrequieto pittore olandese Willem Dafoe, premiato alla Mostra d’arte
Cinematografica di Venezia con la Coppa Volpi per il Miglior attore.
Dal burrascoso rapporto con Gauguin a quello viscerale con il fratello, fino al misterioso colpo di
pistola che gli ha tolto la vita a soli 37 anni. Tra conflitti esterni e solitudine, un periodo frenetico e
molto produttivo che ha portato alla creazione di capolavori che hanno fatto la storia dell’arte e
che continuano ad incantare il mondo intero.
Un film sulla creatività e sui sacrifici del genio olandese, sull’intensità febbrile della sua arte, sulla
sua visione del mondo e della realtà.

Può un film raccontare — seppure con il linguaggio che gli è proprio e alterando la dimensione
temporale — l’intenso turbinio di sentimenti e di carica vitale che sono all’origine dell’atto del
dipingere? È stata proprio questa apparente impossibilità ad attrarre Julian Schnabel e a fargli
decidere di realizzare Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità, il film con il quale ha cercato di cogliere
aspetti spesso trascurati in altri film sugli artisti, offrendo una visione personale degli ultimi giorni
di vita di Van Gogh, un artista diverso da tutti gli altri.
Una storia che intende mostrare dall’interno come ci si senta nel momento della creazione di
un’opera (quel momento magico, viscerale e violento che sfugge ad ogni definizione e cancella il
tempo), la fatica fisica e la dedizione assoluta che caratterizzano la vita di un artista, in particolare
quella di un pittore.
Il risultato è un’esperienza cinematografica caleidoscopica e sorprendente, che tratta tanto del
ruolo dell’artista nel mondo, della sua vita e della sua impronta eterna, quanto della bellezza e
della meraviglia che Van Gogh – inconsapevole del suo impatto sulle generazioni future – ci ha
lasciato.

Dice Schnabel: “Il ritratto di Van Gogh che emerge dal film deriva direttamente dalle mie reazioni
ai suoi quadri, non da quello che è stato scritto su di lui”.
Van Gogh è diventato per Schnabel, per Jean-Claude Carrière e Louise Kugelberg (suoi cosceneggiatori e co-montatrice), e fondamentalmente per tutto il cast e la troupe del film, un prisma attraverso il quale riscoprire l’instancabile anelito dell’uomo ad esprimersi e a comunicare.
Il film attinge a lettere, biografie, leggende delle quali tutti hanno sentito parlare, anche se in
fondo si tratta di un lavoro di pura immaginazione, un’ode allo spirito artistico e a coloro che
hanno convinzioni così assolute da dedicarvi tutta la loro vita.
Jean-Claude Carrière afferma: “È un film su un pittore, Van Gogh, nel quale abbiamo cercato di
evitare di raccontare una biografia — sarebbe stato assurdo, è talmente nota! — e di immaginare
invece scene che avrebbero potuto plausibilmente aver luogo, situazioni nelle quali Van Gogh
avrebbe potuto trovarsi e cose che avrebbe potuto dire, ma che la storia non ha registrato. Si
tratta di un approccio completamente nuovo”.
Il progetto per Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità è nato in un museo. Julian Schnabel aveva
portato il suo amico, il noto scrittore, romanziere e attore Jean-Claude Carrière, al Musée d’Orsay
per vedere una mostra dal titolo “Van Gogh/Artaud: Il suicidato della società” (ispirata
all’omonimo libro dello scrittore, poeta e visionario francese Antonin Artaud).
Lo stesso Carrière è una leggenda del cinema, noto per aver collaborato per 19 anni alla
realizzazione dei film del maestro del cinema Luis Buňuel (compresi Il diario di una cameriera, Bella
di giorno e Il fascino discreto della borghesia), oltre che per aver scritto le sceneggiature di Danton,
Il ritorno di Martin Guerre, L’insostenibile leggerezza dell’essere e Cyrano de Bergerac. Nel 2014
Carrière ha ricevuto un Oscar onorario alla carriera per la sua attività di sceneggiatore.
Mentre i due si aggiravano tra i 40 dipinti della mostra—tra i quali “Ritratto dell’artista”, “La sedia
di Gauguin”, “Ritratto del dottor Gachet”, “Augustine Roulin” e “Un paio di scarpe” — hanno
cominciato a parlare di un film, e così l’idea ha improvvisamente preso vita in modo del tutto
inatteso.
Ricorda Carrière: “La cosa estremamente interessante per me era l’idea di poter realizzare un film
sulla pittura girato da un pittore”.
In quel pomeriggio trascorso al museo, Schnabel aveva già cominciato ad intuire il tipo di struttura
del film che avrebbe voluto girare. “Quando sei davanti a singole opere, ciascuna ti dice qualcosa
di diverso. Ma dopo aver visto 30 quadri, l’esperienza diventa qualcosa di più. Diventa la somma di
tutte quelle sensazioni messe insieme”, descrive. “È l’effetto che volevo ottenere con il film,
rendere la struttura tale che ogni evento che vediamo accadere a Vincent potesse sommarsi ai
precedenti, come se chi guardasse potesse vivere tutta la sua vita in un momento”.
A partire da quella prima idea, Schnabel e Carrière hanno cominciato a pensare a come
svilupparla. Racconta Carrière: “Abbiamo iniziato scrivendo insieme e leggendo molto, ma l’idea
non è mai stata quella di lavorare su una biografia o di soddisfare le solite curiosità. Quello che ci
interessava era che Van Gogh negli ultimi anni della sua vita fosse del tutto consapevole di aver
acquisito una nuova visione del mondo, di non dipingere più come facevano gli altri pittori. Offriva
alla gente un nuovo modo di guardare le
giorno—e spero che ce ne siano altri in futuro—che ho scoperto quanto si possa andare lontano
attraverso la pittura.
Laurence des Cars, direttrice dei Musei d’Orsay e dell’Orangerie a Parigi, (al Museo d’Orsay è nata
l’idea del film e in autunno vi si terrà una mostra di Schnabel dal titolo “Orsay Seen by Schnabel”),
dice di Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità: “Il film va oltre il classico biopic. È davvero il film di un
pittore, la visione di un artista che ci dà modo di conoscere il processo creativo nell’arte. Credo
che sia in parte un ritratto dello stesso Schnabel. Ci sono momenti rivelatori in cui la macchina da
presa diventa letteralmente Van Gogh, e così è Schnabel stesso a diventare Van Gogh. Credo che
Julian abbia messo molto di sé in questo film, e dice cose sulla pittura alle quali lui tiene molto”.
Louise Kugelberg dice: “I quadri e i disegni di Van Gogh rivelano il punto di vista di qualcuno
lontano dalla società ma immerso nella natura. Abbiamo ripercorso i suoi passi e il suo cammino,
anche fisicamente faticoso, per poter vedere quello che lui ha visto. Il silenzio è importante quanto
i dialoghi, i paesaggi sono importanti quanto i ritratti. Per girare questo film siamo andati nei
luoghi in cui Van Gogh ha lavorato e ha vissuto negli ultimi due anni della sua vita — Arles,
l’istituto psichiatrico di Saint-Remy, Auvers-Sur-Oise; il film è narrato in gran parte in prima
persona e speriamo che questo dia al pubblico la possibilità di conoscere un po’ la dimensione
interiore di quest’uomo, anziché osservarlo a distanza”.
Mentre procedevano le riprese, la Kugelberg (un’architetta di interni nota per uno stile che
combina il recupero di materiali antichi con l’arte moderna) ha cominciato ad assumere un ruolo
centrale in tutti i comparti relativi alla realizzazione del film. Ha così avuto inizio una
collaborazione tripartita. Afferma Schnabel: “Louise è dotata di una sensibilità non comune nei
confronti dell’ambiente naturale e questo ha contribuito a far emergere, sia nella sceneggiatura
che in corso di produzione, il legame profondo di Van Gogh con la natura”.
Prosegue la Kugelberg: “Mentre scrivevamo abbiamo iniziato ad andare a passeggiare all’aperto
sempre più di frequente, e credo che Julian abbia così scoperto che passeggiando si vedono le
cose in modo diverso. Vincent trascorreva molto tempo nella foresta camminando e coprendo
lunghe distanze— capire quell’esperienza, e quanto fosse difficile, rappresentava per noi un
elemento importante da mostrare al pubblico. Se cammini senza fermarti ti immergi sempre più
nel mondo che ti circonda, fino a riuscire a vedere oltre quello che ti aspettavi di vedere, e puoi
arrivare perfino a scorgere quello che vedeva Van Gogh”.
La Kugelberg osserva inoltre che, pensando a Van Gogh, Schnabel aveva in mente il concetto di
eternità.
Dice infatti Schnabel: “Tutti abbiamo una malattia terminale che si chiama vita. La pittura è una
pratica che in un certo senso affronta la morte, perché è connessa alla vita ma in modo diverso,
riuscendo a farti accedere ad un’altra dimensione. L’arte può superare la morte. Nel film il
pubblico di Vincent non è ancora nato, ma questo non gli impedisce di fare quello che sente di
dover fare. Quando lo osservi in mezzo ad un campo, sorridente, mentre si butta addosso la terra,
non è un pover’uomo. È un uomo che sente di essere al posto giusto al momento giusto, in
perfetta sintonia con la vita”.
Il produttore Jon Kilik, che collabora con Schnabel fin dal suo primo film Basquiat, afferma che
fare un film con Julian è sempre un processo organico, fluido. “C’è una battuta nel film in cui
Vincent dice di non inventare niente di quello che dipinge. Dice: ‘E’ tutto già presente in natura, io
devo solo liberarlo’. Ed è esattamente quello che accade quando Julian dipinge e quando gira i suoi
film. Non cerca di raccontare le storie di pittori, scrittori, poeti e musicisti, quanto di lasciare che le
loro storie fluiscano attraverso il suo originale punto di vista”.
“Il film è il ritratto di chiunque si sia mai messo a sedere per creare qualcosa, che si tratti di un
pittore oppure no”, conclude Kilik.
Schnabel ovviamente è sia un artista che un regista.
Carrière: “Un bravo pittore come Julian, che è anche un eccellente regista, non è solo alla ricerca
della realtà — che è del tutto normale — ma anche di quello che si nasconde dietro la realtà. Il suo
sguardo è più acuto del nostro. Nella realtà che ci circonda riesce a vedere quello che noi non
possiamo vedere, quello che anche lui riesce appena a distinguere ma che domani diventerà
familiare a tutti. Riesce a vedere delle relazioni tra le opere d’arte che gli storici dell’arte non
riescono a vedere, e che neanche noi vediamo. Per entrare nel suo museo dobbiamo disporci ad
essere ricettivi rispetto a tali relazioni”.
Prosegue Carrière: “Ma Julian è passato alla regia. Improvvisamente, dopo aver raggiunto la fama
negli anni ’70 e ancora di più negli anni ’80, di colpo negli anni ’90 è diventato un regista. Il suo non
è stato un tentativo di dare movimento ai suoi quadri, ma di occuparsi del movimento in quanto
tale. Il cinema, ‘kine’, è movimento”.
Schnabel ha debuttato alla regia con Basquiat, un film che narra la breve vita- quasi il passaggio di
una meteora- del celebre artista di Brooklyn, diventato il primo film commerciale su un pittore
diretto da un pittore nella storia del cinema. Ha poi girato Prima che sia notte, nel quale Javier
Bardem interpreta il poeta cubano dissidente Reinaldo Arenas, e Lo scafandro e la farfalla, un
viaggio nel mondo interiore di un giornalista colpito dalla sindrome ‘locked-in’, in grado di usare
solo il suo occhio sinistro per comunicare tutto ciò che vede e che sente.
In Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità Schnabel sembra essere particolarmente in sintonia con il
soggetto del film. “Il fatto che io sia un pittore probabilmente rende il mio approccio diverso”,
riflette. “Il tema trattato non potrebbe essere più personale per me. È una cosa sulla quale rifletto
da sempre”.
Per quanto personale fosse inizialmente la visione di Schnabel, essa è diventata sempre più
condivisa mano a mano che il film veniva realizzato. Afferma Schnabel: “Non potrò mai
sottolineare abbastanza quanto questo film sia frutto di una collaborazione. Ogni singola persona
coinvolta vi ha infuso la propria sensibilità, le proprie competenze e ciò che sa della vita. Dagli
attori alla troupe fino ai musicisti, tutti hanno contribuito con la propria percezione di Van Gogh.
Ed è stata proprio quella percezione personale la cosa che volevamo rimanesse autentica più di
ogni altra”.
Per Willem Dafoe, che si è completamente immerso in Van Gogh, il processo è stato quasi
alchemico. “Si potrebbe dire che Willem reciti una parte, ma si potrebbe anche dire che incarna
uno spirito” commenta Schnabel. “Willem in realtà ha esplorato la propria dimensione artistica
mentre raccontava la storia di qualcuno che era prima di tutto un essere umano”.
Dafoe ha colto con gioia l’opportunità di far conoscere al pubblico i pensieri di Van Gogh e ha
preso lezioni individuali di pittura da Schnabel per prepararsi al ruolo.
Per Oscar Isaac – che interpreta Paul Gauguin, una figura centrale nell’ultima parte della vita di Van
Gogh – la gioia di girare questo film è stata quella di poter far vivere a ciascuno spettatore
un’esperienza unica. “Non mi ero mai imbattuto in un film come questo” dice Isaac. “Julian riesce
a farti sentire in modo viscerale quello che Van Gogh provava in quel particolare momento della
sua vita e a farlo penetrare nel tuo subconscio. Ti sembra proprio di essere nei panni di Vincent
mentre affronta una fase di esplosione creativa e di implosione personale”.
Nonostante siano stati realizzati numerosi film, special televisivi, documentari e serie tv su Van
Gogh, nessun film o programma aveva colpito Schnabel in quanto pittore. Per Schnabel era
fondamentale che il film fosse incentrato sull’atto concreto di porre il colore sulla tela. Osserva:
“L’atto del dipingere doveva essere autentico, e volevo fare un film che riproducesse fedelmente
ciò che i pittori pensano e anche quale sia il rapporto di noi artisti con altri pittori, compresi quelli
che sono vissuti prima di noi”.
Inevitabilmente la storia doveva includere un altro pittore immortale: Paul Gauguin, che si recò
con Van Gogh ad Arles, vivendo con lui per un certo periodo di tempo. Molto è stato detto della
loro tempestosa relazione, e del ruolo che questo rapporto ha giocato negli attacchi di pazzia di
Van Gogh; ma Schnabel, Carrière e la Kugelberg erano molto più interessati a quale fosse la loro
relazione come artisti, ad immaginare quelle loro conversazioni sulla tecnica e la filosofia che
nessuno ha mai potuto ascoltare.
“Eravamo interessati soprattutto al fatto che Van Gogh dipingesse a partire da modelli reali,
mentre Gauguin dipingesse a partire dai ricordi e dall’immaginazione. Sono due modi diversi di
vedere e abbiamo provato ad immaginare come avrebbero discusso tra loro di questa differenza”
racconta Carrière.
Nonostante la sceneggiatura fosse completa, la produzione si è rivelata come una continua
scoperta. Descrive Kilik: “La ragione per cui è tanto divertente lavorare con Julian è che il suo
approccio è un po’ del tipo: ‘cominciamo e poi vedremo cosa succede lungo il percorso’. Non c’è
bisogno di una preparazione meticolosa, si tratta solo di saperne abbastanza del soggetto di cui
vogliamo raccontare, per poi lasciare che le cose evolvano nel corso del casting, della ricerca delle
location, delle riprese e del montaggio, lasciando spazio anche alle sorprese. Nel caso di Julian
bisogna fidarsi del suo istinto. Bisogna lasciare le cose allo stato grezzo ed essere aperti e flessibili
rispetto a tutto quello che può accadere e da cui bisogna trarre ispirazione per continuare il
lavoro, e forse solo in questo modo una qualche verità riesce alla fine ad emergere”.
Come già detto, ad interpretare Vincent van Gogh c’è Willem Dafoe, candidato tre volte
all’Oscar©, noto per la sua versatilità e per la sua curiosità artistica. Apparso recentemente nel
ruolo del gestore di un motel di terz’ordine nel film di Sean Baker Un sogno chiamato Florida, i
ruoli di Dafoe spaziano dal Green Goblin nei film di Spider-Man a Gesù nel film di Scorsese L’ultima
tentazione di Cristo.
“È l’unico attore che volevo per questo ruolo” afferma Schnabel. “E la sua interpretazione, grazie
alla profondità della sua esplorazione del personaggio, alla sua fisicità e alla sua immaginazione, è
andata ben oltre ciò che c’era scritto nella sceneggiatura”.
Dafoe era attratto dal ruolo anche prima che Schnabel lo contattasse. “Conosco Julian da molto
tempo. È un vecchio amico e quando ho saputo che stava per realizzare un film su Van Gogh ho
subito desiderato avere la parte”, ricorda Dafoe. “Una volta nel corso di un incontro, Julian mi ha
detto di leggere il libro di Steven Naifeh e Gregory White Smith, Van Gogh: The Life. L’ho letto e ho
annotato tutte le cose che mi erano sembrate interessanti, certe citazioni, alcuni piccoli dettagli.
Ho mandato le mie note a Julian e quello ha segnato l’inizio della mia partecipazione al progetto.
Da lì è partito tutto”.
Quella lettura ha sorpreso Dafoe e ha accresciuto il suo interesse per il soggetto. “Penso che molti
di noi siano convinti di sapere molto su Van Gogh. Ma non è vero”, afferma. “Più leggevo, più lo
sentivo come una fonte di ispirazione. Sono rimasto particolarmente colpito da tutto quello che
scriveva nelle sue lettere”.
Ha poi avuto inizio un viaggio creativo ancor più interessante, visto che Schnabel voleva che Dafoe
dipingesse davvero nel film – non che imitasse i movimenti del pittore ma che si misurasse
effettivamente sul piano fisico, emotivo ed istintivo con le tele, per dar vita sullo schermo a
qualcosa di nuovo.
“Questo è un film che parla tanto di pittura quanto di Van Gogh, per cui gran parte del lavoro per
me è consistito nell’imparare a dipingere, e ancor di più nell’imparare a osservare”, spiega Dafoe.
“Abbiamo iniziato in modo molto semplice, con me che studiavo i materiali e come tenere il
pennello in mano. Poi Julian ha iniziato a chiedermi di dipingere per conto mio. Non si può dire che
io sia diventato un vero pittore in questo breve lasso di tempo, ma sento che quello che Julian mi
ha insegnato mi ha aiutato a vedere le cose in modo diverso”.
Continua: “In modo molto concreto mi ha fatto accostare più profondamente alla realtà di
Vincent, perché mi ha fatto scoprire com’è assistere ai mutamenti della percezione che avvengono
mentre lavori. Mi ha fatto comprendere meglio alcuni aspetti dell’arte che pensavo di conoscere
già ma che in realtà non sapevo. Ho imparato come toccare una tela, come accostarmi al colore,
quali strategie adottare e come poi abbandonare ogni strategia. Soprattutto ho capito che la
pittura è una combinazione di ispirazione, impulso, tecnica, esercizio e poi abbandono
dell’esercizio. Una delle cose che mi piace di più del film è che riesce a documentare parte di
questo processo, una cosa che raramente ci è dato di vedere”.
“Penso che sia bello dar vita ai personaggi facendo quello che fanno loro. Cambia quello che sei”
dice ancora Dafoe. “Non si tratta più di interpretare quella persona, ma di viverla.”.
Per Dafoe ‘vivere’ Van Gogh come uomo non ha significato solo imparare a maneggiare un
pennello, ma anche tornare a innamorarsi del Sud della Francia e assorbirla attraverso tutti i sensi
resi estremamente vigili. “Dipingere all’aperto è stato davvero un buon appiglio per interpretare
Vincent”, racconta Dafoe. “All’inizio della produzione Julian ed io abbiamo cominciato a fare delle
passeggiate fermandoci a dipingere ovunque trovassimo un buon punto per farlo. All’inizio è
servito solo a fare un po’ di pratica. Quando però abbiamo cominciato a girare, la sensazione
rimasta dai giorni precedenti credo sia stata molto importante per il film”.
Schnabel osserva che l’energia di Dafoe ha praticamente cancellato la differenza di età tra l’attore
e il personaggio. “Quando è morto, Van Gogh aveva 37 anni. Willem ne ha 63, ma Van Gogh a 37
anni era un uomo già malridotto e devastato mentre Willem è in gran forma” prosegue Schnabel.
“È stato un ruolo molto faticoso da interpretare, eppure Willem è stato assolutamente capace di
fare tutte le cose difficili e ardue che faceva Van Gogh, come arrampicarsi e inerpicarsi per arrivare
a vedere il panorama dal punto che aveva scelto”.
La forza dell’affetto di Van Gogh per suo fratello Theo, la sola persona con la quale potesse sempre
discutere di arte e di vita, nei momenti buoni o nella disperazione, è un altro aspetto che Dafoe
desiderava esprimere, e che emerge nelle scene girate con Rupert Friend. “Theo ha salvato
Vincent” afferma Dafoe. “Si prendeva cura di lui sotto molti aspetti. Era un rapporto d’amore
molto forte. E Theo vide nel fratello quello che altre persone non avevano ancora visto, con
un’incrollabile fiducia nel suo talento”.
Inoltre, per tutto il tempo delle riprese, Dafoe ha avuto in mente il desiderio di Van Gogh di
sentirsi in comunione non solo con gli amici, i vicini o gli altri artisti, ma con quello che per lui era
Dio, qualcosa di cui l’artista ha scritto durante tutta la sua vita. “Credo che Vincent sentisse di aver
trovato il suo contatto diretto con Dio attraverso la natura”, dice Dafoe, “ed è un aspetto sul quale
ho concentrato molto la mia attenzione. In lui era fortissimo il desiderio di arrivare a Dio
attraverso il colore, la luce, la prospettiva, attraverso la capacità di reagire pienamente al
paesaggio e al mondo che lo circondava. Cercava di catturare una realtà che lui sentiva più vicina a
Dio di quanto normalmente riusciamo a percepire”.
Per Dafoe quell’ossessione di accostarsi all’essenza delle cose è stato un elemento utile ad entrare
nella parte, più che gli attacchi della malattia dell’artista. Spiega Dafoe: “Vincent ha sofferto molto
per tutta la vita, come appare evidente nelle sue lettere a Theo, ma non mi sono concentrato su
questo aspetto. Interpretare qualcuno non vuol dire giudicare o etichettare le sue esperienze. La
sua vita, il suo lavoro si esprimono da soli. Ero più interessato a come dipingesse e a come
affrontasse le sue giornate”.
È cosa risaputa che in quelle settimane Van Gogh e Gauguin dipingessero entrambi moltissimo.
Schnabel immagina Gauguin come una persona che aveva riconosciuto in Van Gogh un suo pari sul
piano artistico e intellettuale, sebbene i due vedessero e dipingessero il mondo che li circondava in
in modo decisamente diverso. “Nella maggior parte dei film Gauguin viene mostrato come un
artista presuntuoso, incapace di trattare Vincent nel modo giusto. In realtà dopo aver lasciato Arles
Gauguin scrisse cose meravigliose a Van Gogh e su Van Gogh”, afferma. “C’è una lettera che
Gauguin scrisse a Van Gogh mentre quest’ultimo si trovava nell’ospedale psichiatrico, in cui gli dice
di voler scambiare un quadro con lui. E quella lettera è davvero la migliore critica alla sua pittura
che Van Gogh potesse ottenere, perché Van Gogh teneva molto all’opinione di Paul. Ma anche
Gauguin teneva a Van Gogh”.
Quando Oscar Isaac è arrivato sul set per interpretare Gauguin le dinamiche sono cambiate,
rispecchiando in un certo senso l’effetto prodotto su Van Gogh dall’arrivo di Gauguin ad Arles.
Spiega Isaac: “Fino al mio arrivo Julian aveva girato il film in modo più rilassato, vagando nei campi
con Willem, girando mentre passeggiavano e dipingevano. Poi improvvisamente sono arrivato io e
sono cominciati i ciak e i dialoghi. A tutti noi questo ha dato la reale sensazione che l’arrivo di Paul
avesse comportato delle novità”.
Anche Isaac ha interpretato di recente una vasta gamma di ruoli, dallo sconosciuto folksinger del
film dei fratelli Coen A proposito di Davis (che gli ha fatto ottenere una candidatura ai Golden
Globe) al potente capo di un’industria tecnologica nel film di Alex Garland Ex Machina, fino a Poe
Dameron nella nuova serie di Star Wars. Con il film di Schnabel ha avuto la possibilità di
impersonare il fascino bohémien e il talento di Gauguin.
“Il periodo che Gauguin e Van Gogh trascorsero ad Arles ha assunto proporzioni mitiche per
l’intensità e la forza creativa espressa in quel luogo, in quel momento”, dice Isaac. “È stato bello
leggere la parte nella sceneggiatura, e ancora più bello interpretarla insieme a Willem cercando di
dar vita a situazioni che avrebbero potuto crearsi, ma alle quali mai nessuno ha davvero assistito.
Entrambi eravamo interessati a come questi due pittori comunicassero e a quanto tenessero uno
all’altro. Fino a quel momento Van Gogh era stato quasi sempre solo, sempre chiuso in se stesso, e
l’arrivo di Gauguin rappresentò davvero per lui un’ancora di salvezza, la sola persona forse in
grado di capire quello che stava cercando di fare”.
Nella scena preferita di Isaac, Van Gogh e Gauguin dipingono fianco a fianco, ciascuno cercando
qualcosa, ma qualcosa di diverso. “Sono letteralmente seduti uno accanto all’altro, ma Van Gogh
dipinge quello che ha di fronte, anche se a modo suo, e Gauguin sta inventando completamente.
Entrambi sono alle prese con la propria personale visione di ciò che significhi essere un pittore”.
Schnabel, Dafoe e una squadra di artisti hanno dipinto oltre 130 quadri di Van Gogh.
Per realizzare quest’impresa ambiziosa, la produzione ha messo su un workshop di pittura molto
speciale, diretto dalla pittrice francese Edith Baudrand.
Edith Baudrand faceva una prima versione di un quadro ‘alla Van Gogh’ per Dafoe, poi Schnabel ci
dipingeva sopra.
Racconta la Baudrand a proposito dell’esperienza di guardare Schnabel al lavoro: “Ogni pittore è
diverso, e Julian è davvero libero nel rendere la sua versione di Van Gogh. Il mio lavoro era quello
di replicare o creare un’opera d’arte ‘alla maniera di Van Gogh’, ma Julian è andato oltre,
sviluppando la propria dimensione artistica sperimentale con grande libertà, per cui i suoi ritratti e
i suoi quadri sono molto vivi. Credo sia molto interessante vedere come queste due dimensioni si
mescolino”.
Prima che iniziassero le riprese Schnabel aveva già un’idea precisa per il look visivo del film ma,
una volta che la troupe è arrivata sul set, ha cominciato a reagire istintivamente ai luoghi in cui le
riprese avevano luogo, tra cui Arles, l’ospedale psichiatrico di St. Remy, Auvers-Sur-Oise e la
Grande Galérie del Museo del Louvre.
Ha riunito nella troupe personalità creative di alto livello, a cominciare dal direttore della
fotografia Benoît Delhomme (che è anche un pittore ed è noto per film quali La teoria del tutto, La
spia- A Most Wanted Man e Il profumo della papaya verde), lo scenografo Stéphane Cressend (che
ha realizzato le scenografie di Dunkirk) e la costumista Karen Muller-Serreau (Amour, Venere in
pelliccia).
Lo stile organico di Delhomme si combinava molto bene con la visione di Schnabel. “Benoît ha
fatto un eccellente lavoro” dice Schnabel. “Abbiamo usato una macchina da presa digitale; qualche
volta Benoît si limitava a seguire Willem da lontano sul sentiero e io ero costretto a urlare ‘Il
direttore della fotografia e l’attore possono tornare indietro, per favore?’ Ha girato come un pazzo
e le immagini sono meravigliose”.
Dalla prima volta in cui aveva sentito parlare del progetto Delhomme avrebbe fatto qualsiasi cosa
pur di farne parte. “Ho subito pensato: voglio girare questo film — per Julian, per Van Gogh, per
Willem che ho conosciuto sul set di The Most Wanted Man, e perché negli ultimi 20 anni tra le
riprese di un film e l’altro ho dipinto di nascosto. Ho pensato che avrebbe potuto essere la mia
chance di unire ciò che amo di più: il cinema e la pittura”.
Ricorda il modo insolito in cui è stato ingaggiato, dopo che Schnabel l’aveva invitato a Montauk per
discutere del film. “Julian mi ha chiesto di leggergli i dialoghi della sceneggiatura in francese”
ricorda Delhomme. “Ero paralizzato ma l’ho fatto ed è stato piacevole leggere le battute. Julian
riesce a darti forza. Avrebbe potuto chiedermi di girare sul ciglio di un precipizio e l’avrei fatto,
dimenticandomi che soffro di vertigini. La sera dopo ero nella mia stanza quando ho ricevuto un
messaggio da lui. Diceva: ‘Ciao Ben, in questo momento sto dipingendo’. Ho preso la mia macchina
da presa e sono corso al suo studio all’aperto. È stata un’ora magica, con Julian in pigiama bianco
che lavorava a quadri enormi per la sua mostra a San Francisco. Usava un’asta lunga 5 metri con
un pennello in cima. Senza neanche chiedere, ho cominciato subito a filmare. Ero preoccupato che
potessi disturbare la sua concentrazione così ho cercato di rendermi invisibile come quando
riprendo gli attori impegnati in un monologo. Ho girato senza interruzioni fino a quando si è fatto
così buio che lui non poteva più dipingere. Ho trascorso parte della notte a montare il mio film e
l’ho fatto vedere a Julian a colazione. Subito dopo ho sentito Julian chiamare Jon Kilik e dirgli:
‘Benoît è il nostro direttore della fotografia’”.
Delhomme ha girato alcune tra le prime riprese da solo in un campo di grano in Scozia. “Julian
riteneva che avremmo potuto aver bisogno di immagini di un campo di grano per il finale del film,
così io e un assistente abbiamo organizzato delle riprese senza Julian. La settimana prima Julian mi
aveva chiamato perché chiedessi alla costumista un paio di pantaloni e di scarpe destinate al
personaggio di Vincent. Mi ha detto: ‘Vorrei che li indossassi e facessi delle riprese mentre
cammini nei campi come se fossi Van Gogh. Forse potresti metterti anche il suo cappello di paglia
e potresti riprendere la tua ombra’. Perciò ho passato tre giorni nei campi di grano vestito come
Van Gogh. Non c’era modo migliore per entrare nella mente di Vincent e prepararmi a girare
questo film: con la parte superiore del mio corpo ero Benoit Delhomme e con quella inferiore ero
Vincent”.
Intanto Delhomme traeva ispirazione dalle lettere di Van Gogh. “Mi sono lasciato ispirare dai suoi
pensieri riguardo alla creazione di immagini e alla responsabilità dell’artista nei confronti del
mondo”, racconta. “C’erano alcune sue frasi che mi ripetevo come un mantra: ‘credo che il dovere
di ogni pittore sia far brillare la sua luce di fronte agli uomini’ e ‘il nostro lavoro dovrà essere tanto
abile da apparire ingenuo e da non lasciar trapelare tutta la nostra intelligenza’”.
Mentre Schnabel e Delhomme parlavano di film come Andrej Rublëv di Tarkovskij e Il diario di un
curato di campagna di Bresson lo stile di Van Gogh- Sulla soglia dell’eternità prendeva forma. Non
c’è mai stata una lista delle inquadrature (una shot list) e Delhomme osserva che “un’intera
giornata poteva essere trascorsa in un campo di girasoli appassiti ripresi come se fossero esseri
umani”.
Il film è stato in gran parte girato con la macchina a spalla, usando un’impalcatura creata
appositamente per permettere la massima flessibilità. “Dovevo poter camminare e correre con
Willem senza problemi. Dovevo poter mettere la macchina da presa per terra e poi sollevarla
improvvisamente fino al cielo, essere come un reporter di guerra sul campo” racconta. “Un giorno
ho chiesto a Julian se il mio stile non fosse troppo traballante e lui mi ha risposto: ‘La vita è
traballante, perciò non lo sarai mai abbastanza’”.
Delhomme si è sentito incoraggiato a osare dall’audacia di Schnabel. “La sua filosofia è: ‘la prima
idea è sempre la migliore’. Ha sempre dimostrato fiducia nel fatto che le nostre scelte fossero
quelle giuste”, racconta.
La spontaneità era talmente all’ordine del giorno che a volte Delhomme passava la macchina da
presa a Dafoe perché girasse dalla sua prospettiva. Altre volte è stata la natura a riservare
sorprese. “Un giorno stavamo girando con Willem che interpretava Vincent che si riposa su una
rupe al tramonto. Appena si è sdraiato, ho inconsciamente inquadrato il sole rosso come se
tramontasse proprio nella sua bocca aperta e non ho potuto trattenermi dal dire ad alta voce: ‘sta
divorando il sole!’”
Per potenziare un racconto fatto in prima persona, Delhomme e Schnabel hanno deciso di usare a
volte lenti a doppia diottria, che creano un effetto vertiginoso, con due diverse profondità di
campo in un’unica immagine. “Quest’idea viene da un paio di occhiali da sole che avevo comprato
in un negozio vintage e che si sono rivelati bifocali”, spiega Schnabel. “La parte bassa delle lenti
aveva una profondità di campo diversa dalla parte alta, e ho pensato che questa potesse essere
anche la prospettiva di Vincent. È un modo diverso di vedere le cose in natura”.
Quando Delhomme ha montato le lenti ha capito esattamente cosa volesse Schnabel. “Ho capito
che quello che gli piaceva era il fatto che le lenti potessero dividere il mondo in due spazi, e
mostrare la linea indistinta che divide questi due mondi” afferma.
Anche l’uso fatto del colore ha contribuito a raccontare parte della storia, dall’opaca foschia
parigina alla luce piena della Francia meridionale, dalle terre di Siena della natura alle
sperimentazioni di tinte e tonalità dei quadri di Van Gogh. (Gauguin ha scritto che lui e Van Gogh
erano ‘costantemente in guerra sulla bellezza del colore’). Girare il più possibile all’aperto era
fondamentale. Dice Schnabel: “Quando Vincent era a contatto con la natura si sentiva un uomo
ricco, e il fatto che avesse venduto o meno un quadro non aveva importanza. Perché quella cosa
non gli interessava. Per questo dovevamo stare all’aperto con lui, nella natura”.
Le location reali hanno contribuito a creare l’atmosfera giusta. La Kugelberg ricorda le riprese a
Saint-Paul de Mausole, il monastero trasformato in ospedale psichiatrico dove Van Gogh trascorse
alcuni mesi e che ancora oggi svolge la stessa funzione. “È stato incredibile avere la fortuna di
poter essere nella stanza di Vincent, vedere dove si sedeva ad osservare il giardino fuori” racconta.
“Ha contribuito a dare un tocco di realismo al film”.
Lo scenografo Cressend ha capito subito che le location autentiche sarebbero state solo un punto
di partenza per Schnabel. “Ci sono molte fonti di informazione su Van Gogh, forse anche troppe”
commenta Cressend. “Ci sono le lettere, i quadri, i disegni, i molti, moltissimi libri. Ma quando ci
siamo incontrati la prima volta, Julian ha detto ‘Se dici che Van Gogh aveva un’unghia rotta alla
mano sinistra, ci saranno dieci persone che ti diranno che era alla sua mano destra. Perciò quello
che importa non è cercare di essere aderenti alla realtà ma fare un buon film’”.
Per la troupe questa è diventata una parola d’ordine. Racconta Cressend che, per esempio, nel
ricreare la casa gialla in cui Van Gogh visse ad Arles: “continuavo a ripetere alla troupe che non
stavamo girando un documentario. Che c’erano cose più importanti da mostrare sulla casa rispetto
a come fosse veramente. Abbiamo realizzato qualcosa di diverso perché volevamo che avesse
l’aria di un rifugio in cui Vincent accoglie Gauguin e dove tra loro accade qualcosa”.
Spesso Schnabel e la Kugelberg hanno preferito modificare ulteriormente i set di Cressend,
cambiando istintivamente le decorazioni e i quadri sui muri. Ma alcuni dettagli famosi sono rimasti
— compreso un muro su cui è incisa una frase che, a detta di Gauguin (forse), Van Gogh aveva una
volta scribacchiato con il gesso: “Je suis Saint Esprit Je suis sain d’esprit”, ovvero “Io sono lo Spirito
Santo e io sono sano di spirito”.
Un’altra scena significativa è nella Grande Galérie del Museo del Louvre, quando Van Gogh
osserva il lavoro dei suoi predecessori Delacroix, Veronese e Frans Hals. “Parlano a Van Gogh
come lui parla ai pittori di oggi” afferma Schnabel. “Mostra come gli artisti possano comunicare
oltre la morte”.
Commenta Laurence des Cars a proposito della sequenza nel Louvre: “In questa scena la questione
di ciò che si tramanda, del trovare il proprio posto nella storia della pittura, è particolarmente
forte”.
Mano a mano che le riprese procedevano, Schnabel e la Kugelberg hanno cominciato a montare al
volo, dando continuamente nuova forma al film nonostante stesse appena vedendo la luce.
“Abbiamo montato il film ovunque ci trovassimo” spiega la Kugelberg. “Non ci siamo mai fermati,
e in questo modo è stato come dipingere. Dipingevamo il mondo del film ed era impossibile
lasciare quel mondo mentre vi eravamo immersi”.
Schnabel ha inoltre deciso di utilizzare la musica di Tatiana Lisovskaya, una musicista ucraina che
suona il violino; in questo caso però la Lisovskaya ha creato per il film una colonna sonora
evocativa con una dominanza del pianoforte. “Tatiana ha creato una musica originale che riesce a
trasportarti in quelli che potevano essere i suoni presenti nella mente di Van Gogh”, sintetizza
Schnabel.




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