Cinema – Film – L’albero dei frutti selvatici

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L’albero dei frutti selvatici – ‘L’albero dei frutti selvatici’, è un’opera del cinema turco in uscita nelle sale cinematografiche italiane. 188 minuti di pellicola con il cast formato da Dogu Demirkol, Murat Cemcir, Bennu Yildirimlar, Hazar Ergüçlü, Serkan Keskin., per la regia di Nuri Bilge Ceylan.
Il film è la storia di Sinan, appassionato di letteratura, che ha sempre desiderato diventare scrittore. Di ritorno nel suo villaggio natale in Anatolia, si impegna anima e corpo a raccogliere il denaro di cui ha bisogno per essere pubblicato, ma i debiti del padre finiscono per raggiungerlo.
È fondamentale che ogni essere umano possa assumersi il rischio di uscire dal suo rifugio per mescolarsi agli altri. Se si allontana troppo, può succedere che perda a poco a poco la sua centralità, la sua identità. Ma se la paura di abbandonare il nido è troppo grande, allora fa un passo indietro e si richiude in se stesso, smettendo così di crescere e di evolvere. E se sente di essere caratterizzato da una diversità, essenziale per lui e che tuttavia lo emargina a livello sociale, la sua forza di volontà finirà con lo smorzarsi sul piano morale. Gli risulterà dunque difficile dare un senso alle contraddizioni di una vita che di per sé gli è diventata estranea e comincerà a lacerarsi tra l’incapacità di dare una forma creativa alle contraddizioni e l’impossibilità di risolverle. In questo film, cerco di raccontare la storia di un giovane uomo che, oltre a provare un senso di colpa, sente anche di essere diverso, ma è incapace di ammetterlo. Si rende conto di essere trascinato verso un destino che non ama e che non riesce ad accettare. Ho voluto dipingere questo personaggio così come gli altri che lo circondano per delineare un grande mosaico di soggetti, senza fare favoritismi e cercando di restare rigorosamente giusto con ciascuno di loro. Si usa dire che «ogni cosa che nasconde un padre riappare un giorno nel figlio». Che lo vogliamo o meno, non possiamo fare a meno di ereditare alcune caratteristiche dei nostri padri, come un certo numero delle loro debolezze, delle loro abitudini, dei loro tic e di una moltitudine di altre tratti. L’ineluttabile scivolamento del destino di un figlio verso una sorte analoga a quella di suo padre viene raccontato attraverso una serie di esperienze dolorose.
Il regista Nuri Bilge Ceylan ci ha parlato del suo film.
Quando ha iniziato a pensare a questo progetto e come si è sviluppato?
“A dire il vero, mia moglie Ebru e io stavamo lavorando a un altro progetto, di sapore autobiografico, la storia di una famiglia. Un giorno, ci siamo trovati in una casa di campagna vicino a Troia, dove io sono nato. Era in riva al mare, un posto sovrappopolato d’estate, in particolare in coincidenza con una festa religiosa, e abbiamo deciso di avvicinarci alla mia città natale. In un villaggio nei paraggi ho incontrato una persona che conoscevo, un insegnante. Si era sposato con una mia parente ed era un uomo interessante con cui mi piaceva stare a parlare, perché era diverso dalle altre persone del posto. Era capace di evocare i colori di un paesaggio o l’odore della terra. Gli abitanti dei dintorni non lo rispettavano e quando lui parlava nessuno lo ascoltava. È venuto a casa nostra e ci ha raccontato la sua vita in modo molto colorito. Mio padre era un po’ come lui: per esempio, aveva una passione per Alessandro Magno, un personaggio che non interessava a nessun altro attorno a lui. Era un ingegnere agricolo, leggeva molto ed era un tipo alquanto solitario, non aveva molte cose in comune con gli altri. Per tornare a quel vicino, ho avuto modo di conoscere suo figlio che aveva terminato gli studi, lavorava in un giornale locale e aiutava anche il padre. Abbiamo cominciato a parlare ed è germogliata l’idea di fare un film attorno alla sua persona che parlasse anche della solitudine di suo padre. Sono andato a trovarlo più volte e gli ho chiesto se potesse scrivermi dei ricordi che evocassero le sue emozioni, suo padre, la sua infanzia, i suoi rapporti con la famiglia. Per tre mesi non ho più avuto sue notizie. Mi aveva colpito molto, leggeva continuamente, conosceva tutti i libri di cui gli parlavo e mi piaceva tantissimo. Era una persona assai distante e di poche parole. Ho parlato di lui con suo padre e aveva la stessa impressione. Poi un giorno, all’improvviso, mi ha mandato via email ottanta pagine di informazioni e di descrizioni. Le ho lette e sono rimasto molto impressionato. Aveva scritto delle cose molto giuste e molto dirette. Non si era messo sulle difensive, né si era atteggiato da eroe, al contrario. Era un materiale decisamente migliore rispetto a quello che mi aspettavo. Anche mia moglie ha avuto la mia stessa impressione. Di conseguenza ho deciso di accantonare il progetto a cui stavo lavorando e di concentrarmi prima questo film. Ho chiesto a quel giovane uomo, Akin Aksu, di collaborare alla sceneggiatura e ha finito con l’interpretare persino uno dei due imam, quello che parla molto”.

Nel film, come in Il regno d’inverno – Winter Sleep, ci sono molti confronti tra i personaggi che parlano a lungo, il figlio con il padre, la madre, lo scrittore locale, il responsabile dei contributi per la pubblicazione, eccetera. Queste scene erano interamente scritte o sono state in parte improvvisate?
“Quasi tutte, un buon 95%, erano scritte e questo ha creato maggiori difficoltà agli attori non professionisti che hanno problemi di memorizzazione e sono più a loro agio improvvisando i dialoghi. L’attribuzione del ruolo principale è stato uno dei problemi più complessi che io mi sia mai trovato ad affrontare. Ho cercato invano un attore cinematografico turco e alla fine ho scelto una persona che non aveva mai recitato per il cinema. L’ho trovato su Facebook. Era apparso in qualche sketch comico in televisione. L’ho contattato e gli ho fatto fare qualche provino. All’inizio le sue interpretazioni non mi hanno impressionato: ha cominciato a fare qualche improvvisazione con Ebru e non era affatto bravo. Poi gli ho mandato qualche pagina della sceneggiatura che ha memorizzato. Quando le ha recitate davanti a me, mi sono reso conto che aveva capito tutto quello che avevo in mente per il personaggio e, ad ogni provino, migliorava. Tra tutti i candidati era quello che si ricordava meglio il testo, probabilmente perché è l’attore più intelligente che io abbia mai incontrato fino ad oggi. Ha anche maturato una grande conoscenza della vita, delle persone e delle circostanze descritte nel film. Alcuni candidati per lo stesso ruolo funzionavano con la ragazza ma non con la madre, o magari funzionavano con il padre ma non con il sindaco. Lui, invece, era a suo agio in tutti i rapporti interpersonali. Forse non ha l’aspetto di uno scrittore, ma l’essenziale era che riusciva a reggere lunghi dialoghi in un film di più di tre ore e interpretarli in modo giusto”.
Avete fatto delle prove prima delle riprese?
“Pochissime perché non avevamo molto tempo. Però abbiamo provato sul set che è durato tre mesi e mezzo, malgrado i costi elevati. Mi è capitato di fare molti ciak, ma nessuno degli attori era migliore quando improvvisava. L’attore che interpreta il padre era un professionista con esperienza soprattutto nella commedia”.
Il suo riso sarcastico viene da lei?
“Ovviamente! Mio padre era così. Nel villaggio nessuno gli dava ascolto e quindi rideva delle cose che diceva. Ho voluto che il personaggio avesse qualcosa in lui che suscitasse la mancanza di rispetto degli abitanti del villaggio e ho trovato questo piccolo dettaglio. È difficile comprendere questa mancanza di rispetto da parte degli altri poiché di solito un insegnante è molto ben visto. Forse c’entra la sua dipendenza dal gioco o forse il suo sogghigno. Nella campagna turca, le persone che ridono di continuo non sono viste di buon occhio! Anche tutti gli altri personaggi sono interpretati da attori professionisti. Per il ruolo dello scrittore locale, per esempio, ho cercato invano uno scrittore vero. Invece, uno degli imam era un attore dilettante, senza essere un vero imam”.
Il giovane è un individuo che non smette di contraddire gli altri per ribadire la sua opposizione, sia i genitori che lo scrittore, il sindaco, gli imam…
“È così anche nella realtà e dipende dalla sua solitudine e dalla sua attività di scrittore. Si tratta di un isolamento ansiogeno e che lo porta a criticare sempre gli altri. Lotta contro quello che ritiene ingiusto. Non ama lo scrittore locale, né quello che scrive e nutre del risentimento per via del suo successo. Per questo cerca di mordere! Ma è lui il primo a sminuirsi. È in uno stato di costante conflitto interiore che gli provoca questi accessi incontrollati”.
“L’albero dei frutti selvatici” del titolo è un ricordo personale?
“Si ispira a una delle novelle del vero scrittore, La solitudine del pero selvatico. I peri selvatici sono alberi piuttosto brutti, che danno frutti molto aspri. Hanno bisogno di pochissima acqua per prosperare in natura. Sono isolati e crescono nei terreni aridi. Quando spuntano in prossimità di un villaggio, gli abitanti li innestano per farli diventare peri comuni. Nella sceneggiatura c’era un prologo che poi ho tagliato: una scena della giovinezza del padre, quando era il maestro del villaggio e raccontava ai suoi allievi la storia del pero, metafora della sua solitudine che sarà anche quella di suo figlio e che era già quella del nonno che si vede a un certo punto seduto da solo a un tavolo del bar locale, cosa insolita in un villaggio”.




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