Cinema – Film- Agnus DEI capolavoro di Anne Fontaine

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Agnus Dei” è il film di Anne Fontaine che racconta del brutale stupro di guerra di cui furono vittime delle suore polacche a Varsavia. I soldati dell’armata
rossa le violentarono a ripetizione: erano venticinque, venti morirono e le altre restarono incinte. L’occasione torbida non porta però la pellicola a
indulgere nel dettaglio morboso o truculento, anzi sembra quasi un docufilm sulla vita religiosa. Il che è paradossale e al contempo pieno di speranza

In uscita nelle sale un bel film del quale sentiremo parlare a lungo e tutto da vedere. La presentazione alla
stampa è avvenuta presso la stupenda cornice dell’istituto San Luigi dei Francesi di Roma, a pochi passi da piazza Navona ed abbiamo avuto la fortuna di incontrare la regista del film.
Polonia, 1945. Mathilde, un giovane medico francese della Croce Rossa, è in missione per assistere i sopravvissuti della Seconda Guerra Mondiale. Quando una suora arriva da lei in cerca di aiuto, Mathilde viene portata in un convento, dove alcune sorelle incinte, vittime della barbarie dei soldati sovietici, vengono tenute nascoste.
Nell’incapacità di conciliare fede e gravidanza le suore si rivolgono a Mathilde, che diventa la loro unica speranza.
Già quando aveva 27 anni, Madeleine Pauliac, medico dello staff di un ospedale di Parigi, si unì al movimento della resistenza, fornendo materiale e supporto ai paracadutisti alleati. In seguito, partecipò alla liberazione
di Parigi e alle campagne militari di Vosges ed Alsace.
All’inizio del 1945, in qualità di ufficiale medico delle Forze Interne Francesi, partì per Mosca sotto la guida del Generale Catroux, l’Ambasciatore francese a Mosca, per dirigere la missione di rimpatrio francese.
La situazione in Polonia era drammatica. Varsavia, una città distrutta dopo due mesi d’insurrezioni contro la Germania occupante (tra agosto e ottobre del 1944) era letteralmente rasa al suolo. 20.000 combattenti e 180.000 civili erano morti. Nel corso di questo periodo, l’esercito Russo, presente in Polonia sin dal gennaio del 1944 sotto gli ordini di Stalin, rimase armato e in attesa sull’altra riva del fiume Vistula.
Dopo un ulteriore attacco dell’esercito Tedesco e in seguito alla scoperta di tutti gli atti di violenza commessi dai tedeschi, l’Armata Rossa e la sua amministrazione provvisoria assunsero il controllo dei territori liberati.
È in questo contesto che Madeleine Pauliac fu nominata nell’aprile del 1945 Primario dell’Ospedale francese di Varsavia, che era ridotto in rovine. Madeleine era a capo delle attività di rimpatrio all’interno della Croce Rossa Francese. Condusse la sua missione in tutta la Polonia e in parte dell’Unione Sovietica. Portò a termine oltre
200 missioni con l’Unità dello Squadrone Blu delle autiste di ambulanza della Croce Rossa, che avevano lo scopo di cercare, curare e rimpatriare i soldati francesi rimasti in Polonia. È in queste circostanze che scoprì l’orrore nei reparti di maternità, dove i russi avevano violentato le donne che avevano appena partorito e quelle che erano
in travaglio; gli stupri erano all’ordine del giorno, e ci furono addirittura stupri collettivi nei conventi. Lei si occupò di fornire aiuto medico a queste donne. Le aiutò a guarire le loro coscienze e a salvare il loro convento.
Madeleine Pauliac morì accidentalmente mentre era in missione vicino a Varsavia nel febbraio del 1946.
Agnus Dei racconta un episodio della sua vita: una donna che lotta per salvare altre donne.
Abbiamo rivolto alcune domende alla regista: ANNE FONTAINE.
Agnus Dei è ispirato a un evento storico poco conosciuto, avvenuto in Polonia nel 1945.
La storia di queste suore è incredibile. Secondo le note scritte da Madeleine Pauliac, il medico della Croce Rossa che ha ispirato il film, 25 di loro furono violentate nel loro convento – alcune fino a 40 volte di seguito
– 20 furono uccise e 5 rimasero incinte. Questo evento storico getta una luce oscura sui soldati sovietici, ma è la realtà; una verità che le autorità si rifiutano di divulgare, nonostante numerosi storici ne siano a conoscenza. I soldati non ritenevano di commettere un atto ignobile, erano autorizzati dai loro superiori, come premio per
i loro sforzi.
Atti brutali come questo, sfortunatamente, sono ancora largamente praticati ai giorni nostri. Le donne continuano a essere oggetto di simili fatti disumani nei paesi in guerra di tutto il mondo.
Qual è stata la sua reazione iniziale quando i produttori, i fratelli Altmayer, le hanno proposto questo soggetto?
La storia mi ha subito catturata. Senza sapere neanche perché, sapevo di avere un legame personale con questa vicenda. La maternità e il fatto di porsi delle domande sulla fede erano dei temi che m’interessava esplorare. Volevo avvicinarmi il più possibile a quello che è accaduto a queste donne, per descrivere l’indescrivibile.

La spiritualità doveva essere al centro del film. Ha dimestichezza con le questioni religiose?
Provengo da una famiglia cattolica – due mie zie erano suore – perciò ho più di un legame con questo tema. Riesco a lavorare su un tema solo se lo conosco perfettamente. E poi volevo capire com’è realmente la vita in un convento, dal suo interno. Per me era importante comprendere la routine quotidiana delle suore, e conoscere il ritmo
delle loro giornate. Sono andata in visita presso due comunità Benedettine – lo stesso ordine religioso del film. Sono entrata solo come osservatrice la prima volta, poi la seconda ho fatto esperienza della vita di una novizia.

Ci racconti qualcos’altro.
La vita nella comunità mi ha molto colpito – questo modo di stare assieme, pregando e cantando sette volte al giorno: è come stare in un mondo dove il tempo è sospeso. Si ha la sensazione di fluttuare in una sorta di euforia, nonostante si sia vincolati da una fortissima disciplina. Ho visto come si creano le relazioni umane: la tensione e
la psicologia altalenante di ogni suora. Non è un mondo congelato e unidimensionale.
Quello che più mi ha colpito, e che ho cercato di trasmettere nel film, è quanto fragile sia la fede. Spesso pensiamo che la fede fortifichi coloro che ne sono pervasi. Ma non è così: come confida Maria a Mathilde nel film, anzi è esattamente l’opposto: “ventiquattro ore di dubbio per un minuto di speranza.” Questa nozione riassume le
mie impressioni dopo aver parlato con le sorelle, e poi dopo aver partecipato a una conferenza sul tema ‘porsi delle domande sulla propria fedÈ , di JeanPierre Longeat, ex Abate dell’Abbazia di Saint-Martin de Ligugé. Quello che ha detto è stato molto toccante ed ha una profonda eco nel mondo secolare odierno.

I membri di queste comunità erano a conoscenza del suo progetto?
Fortunatamente, le persone che ho conosciuto hanno avuto sin dall’inizio un’opinione favorevole riguardo al progetto, nonostante siano state rivelate delle scomode verità sulla Chiesa. Condividiamo, con le sorelle, la situazione paradossale che si trovano ad affrontare dopo le violenze subite: come far fronte alla maternità quando
la tua intera esistenza è stata affidata a Dio? Come mantenere la fede quando ci si trova ad affrontare dei fatti così tragici? Cosa fare con i neonati? Quali sono le possibilità?

Questi preti e queste suore avevano visto i suoi film precedenti?
Ne avevano visti alcuni, La Fille de Monaco e Coco Avant Chanel-L’Amore prima del Mito, in particolare. Un Monaco mi confidò che uno dei suoi preferiti era Two Mothers. Devo ammettere di essere rimasta particolarmente sorpresa.

È la seconda volta che lavora assieme a Pascal Bonitzer.
Pascal non aveva molta più familiarità di me su questi temi, ma ci siamo trovati particolarmente in sintonia mentre scrivevamo Gemma Bovery, il mio film precedente. Tutto il nostro lavoro consisteva nel fondere gradualmente i due mondi del film: il mondo materialista di Mathilde, questo medico comunista molto determinato, e quello spirituale delle sorelle, in una Polonia tradizionalista, sconvolta dalla guerra.

Sostanzialmente, questo film è un’estensione più stilizzata dei temi che ho già affrontato in passato.
Come in In his Hands o in Dry Cleaning. L’amicizia che Maria e Mathilde riescono a costruire tra di loro è piuttosto affascinante. Queste due donne, che sono diametralmente opposte, inventano qualcosa assieme che permette loro di realizzare alcune cose in una situazione impossibile. Il percorso interiore che compiono è anche ciò che alla fine le unirà.
Mentre condivide i suoi dubbi con Mathilde, Maria aggiunge che senza la Guerra e l’orrore degli stupri, lei sarebbe stata completamente felice.
Molti di coloro che hanno scelto questa vita sono felici. Ho fatto delle lunghe interviste con delle persone religiose che ho incontrato per questo progetto. La loro intelligenza, la loro visione e senso dello humour erano affascinanti. Alcuni stavano attraversando dei momenti di dubbio davvero difficili. Penso in particolar modo a
una suora la cui storia mi è stata raccontata dallo psicanalista dell’ordine – sì, esistono davvero. Era entrata a far parte dell’ordine a 25 anni, e aveva trascorso i successivi 25 anni a chiedere a Dio se l’amava, senza mai
ricevere risposta. È ancora una suora.
Poi ci sono le deviazioni che la religione può causare… un esempio potrebbe essere il comportamento della Madre Abbadessa,che col pretesto di non lasciar trapelare quello che accade nel convento, proibisce alle sorelle di ricevere le cure mediche necessarie.
Il film solleva delle domande che perseguitano le nostre società, e mostra a cosa può portare il fondamentalismo.
Eppure lei non giudica la Madre Badessa.

È stato molto difficile costruire e dare equilibrio a questo personaggio. Potremmo tacciare come terribili gli atti che commette. Ho capito subito che, senza mitigare le sue azioni, dovevamo cercare di comprendere le sue motivazioni interiori. Volevo che lei potesse spiegare le sue azioni con questa affermazione ambigua che pronuncia davanti alle sorelle: “Ho dannato me stessa per salvarvi.” Quando implora l’aiuto di Dio, e quando la vediamo malata nel suo
letto, senza velo, capiamo che è scivolata in un abisso. Questa tipologia di ruolo rischia facilmente di diventare una caricatura. Senza Agata Kulesza, che è eccezionale, non so se la Madre Badessa avrebbe avuto una tale interiorità o se avrebbe conferito una dimensione del genere, reminiscente della tragedia Greca.

Agata Kulesza ha solo 42 anni. È molto più giovane del personaggio. Cosa l’ha spinta ad affidarle questo ruolo?
L’ho trovata fantastica in Ida, ma ritenevo anche che fosse davvero troppo giovane per possedere l’autorità che richiedeva il ruolo. È stata lei a chiederci se poteva fare uno screen test. Si è messa un velo e completamente
struccata – solo con la forza della sua recitazione – è stata capace di fare quello che vediamo sullo schermo.

Ci racconti di Agata Buzek…
Esattamente come Agata Kulesza, anche Agata Buzek è un’attrice molto conosciuta in Polonia. L’avevamo notata in un film di Jason Statham e ho pensato che avesse una presenza fisica fortissima – è stato incredibile – un’esperienza molto spirituale in effetti. Lo stesso Krzysztof Zanussi aveva parlato molto bene di lei. Agata ha lavorato
instancabilmente per mesi per abituarsi al francese sofisticato e raffinato parlato dal suo personaggio. Ogni sera, durante le riprese, ascoltava Victor Hugo per familiarizzare ancora di più con la nostra lingua.
Ha affidato a Lou de Laâge il suo primo ruolo da adulta con il personaggio di Mathilde. Tutta la storia è raccontata dal punto di vista di Mathilde. È colei che ci accompagna nel mondo delle suore e che diviene testimone di qualcosa di terribile, di eventi sconosciuti che accadono lì dentro. Non ha potuto essere leggera: anche solo la sua professione richiedeva un personaggio forte con un tocco di virilità. Ecco qual è il problema principale per questo tipo di ruolo – se l’attrice risulta troppo delicata, il film è finito prima ancora di cominciare. Sono rimasta molto colpita dal lavoro che ha fatto Lou nel film di Mélanie Laurent, Respire. È dotata di una bellezza forte e
particolare. Ho pensato che questa grazia, combinata con il suo lato lievemente testardo e la sua freschezza e fragilità interiore, sarebbero stati perfetti per il film. Lou non è mai insipida; a volte può risultare brusca. Era importante percepire quanto fosse diventata impermeabile alla situazione che scopre nel corso del suo percorso, e che sentissimo che qualcosa si accende dentro di lei, sul suo volto, senza pensare necessariamente: “È diventata una
credente.” Non era questo il punto. La cosa importante era avvertire i dubbi metafisici che la protagonista si pone e come questi la cambiano.

Come si può comprendere il significato della vita in mezzo a un caos del genere?
Come si sopravvive alla violenza che ha così fortemente segnato fisicamente queste suore polacche? Come si può giudicare la loro fede, che sembra essere sopravvissuta a un orrore così straziante?
L’introspezione drammatica di Lou è impressionante; non ha posto alcun confine – è coraggiosa ed instancabile, un po’ come Mathilde. Non è stato facile per lei finire nella Polonia del Nord, circondata da attrici polacche, senza saper parlare una parola della loro lingua. La coppia per niente convenzionale che si forma tra lei e Samuel, il dottore ebreo interpretato da Vincent Macaigne, aggiunge una nuova sfaccettatura al suo personaggio anti conformista.
Samuel getta una luce diversa su Mathilde, in maniera originale; non è un uomo dalla bellezza classica, e poi trovo che Vincent Macaigne conferisca grande umanità al suo personaggio. È sempre vantaggioso iniziare con una coppia che va a letto senza che ci sia alcun impegno ovvio tra i due, e poi vedere nascere dei sentimenti tra di loro, senza che se ne rendano neanche conto. Inoltre, è piuttosto facile immaginare che tra il personale medico nascano certi rapporti, come valvola di sfogo per fuggire allo stress. Pascal Bonitzer ed io ci siamo divertiti molto a creare questo personaggio. Pensavamo che avrebbe dato al pubblico un certo sollievo comico, prima di tornare a raccontare quello che accade nel convento. Inoltre, era un modo per affrontare il tema della guerra da una prospettiva differente, per sottolineare quello che era appena accaduto in Polonia: Samuel è ebreo e la sua famiglia è morta nei campi.

Perché ha scelto questo finale?
C’è qualcosa di eccitante nel trovare una nuova strada quando tutto appare privo di speranza. Con questa soluzione – in un certo senso trovata assieme da Mathilde e Maria e poi trasmessa alle altre sorelle – ci dirigiamo verso la vita.

Andare contro la vita, non è questo l’apice dell’ironia per una suora?

Ritenevo che fosse molto importante che questa storia – che ci fa scivolare nell’oscurità più profonda – finisse con la luce. Conosco personalmente delle suore in Vietnam che hanno dedicato la loro vita ai bambini che non hanno i genitori. Queste donne sono eroiche. Hanno attraversato tutto il Vietnam a piedi durante la Guerra, riuscendo a dare rifugio a centinaia di giovani orfani. Secondo me Maria era proprio come una di queste donne.
Il film ha un ritmo unico: è piuttosto meditativo nonostante il suo passo veloce.
Volevo descrivere il passaggio di tempo lento e meditativo di un convento, mantenendo allo stesso tempo la tensione drammatica: È stato un equilibrio delicato da trovare, sia durante la fase di scrittura della sceneggiatura che nel corso delle riprese.
Ho anche descritto quello che ho visto durante i miei ritiri. Pensavo fosse importante sapere che le sorelle si concedono dei momenti di pace durante i quali ciascuna si dedica ai propri interessi: leggere, ascoltare
la musica, cucire e conversare…
Le scene di travaglio e di parto danno l’impressione di essere state prese dalla vita reale.
Quelle scene sono state girate nel convento con le attrici. Senza rischiare di strafare, danno l’impressione che qualcosa di reale stia accadendo davanti ai tuoi occhi. Volevo che le scene dei parti fossero impegnative.
Attraverso questi momenti e attraverso le visite mediche che Mathilde fa alle suore, i corpi delle sorelle iniziano ad esistere in maniera molto potente. Sbocciano, magari, Irena, ad esempio, la giovane e sensuale novizia che ride quando Mathilde le palpa il ventre, o sono mentalmente bloccate, come Ludwika, incapace di accettare la sua gravidanza, che partorisce sul pavimento della sua cella.

Agnus Dei è stato girato in Polonia. Come avete trovato il convento dov’è ambientata la storia?
Ovviamente, i conventi polacchi non avrebbero accolto le riprese di un film. Caroline Champetier, il direttore della fotografia, ci ha portati a visitare un convento abbandonato, dove erano rimasti in piedi solo i passaggi a volta e il cimitero che vediamo nel cortile. Le celle del piano di sopra erano state distrutte; ogni cosa era in un avanzato
stato di degrado. Ma la location era ideale e ci è venuto in mente di costruire delle stanze all’interno dei passaggi a volta: un’infermeria, il refettorio e la piccola cappella. È stata una sfida. Siamo stati fortunati
perché il prete incaricato ha sostenuto il nostro progetto. Si ha l’impressione che questo convento sia sempre esistito. Caroline ed io abbiamo mostrato alla truppe polacca dei film radicali come Thérèse di Alain Cavalier, e La Conversa di Belfort di Robert Bresson. Tutti assieme abbiamo anche scelto ogni panchina e ogni sedia.
Non un solo oggetto era lì semplicemente a scopo puramente decorativo.

Oltre ai canti religiosi, nella colonna Sonora c’è il Preludio per Piano di Rossini, tratto dalla Petite Messe Solennelle, una Suite per Tastiere di Handel, e un pezzo di Max Richter – un compositore contemporaneo che mi piace
molto. La musica originale di Grégoire Hetzel serve soprattutto per assicurare una continuità di base. Credo sia più potente sentire il respiro di Teresa mentre attraversa la foresta alla ricerca di un dottore: siamo con lei e avvertiamo lo sforzo che sta compiendo per attraversare la campagna ricoperta di neve.

In tre anni ha adattato con successo un racconto di Doris Lessing (Two Mothers), una graphic novel di Posy Simmonds (Gemma Bovery) e, oggi, un evento realmente accaduto. Cosa la spinge a continuare a muoversi con questo passo?

Forse la vita di tutti i giorni non accende abbastanza interesse in me. Ho sempre bisogno di pensare a una storia nuova in cui possa immergermi. Un giorno mentre stavo prendendo in giro Fratello Longeat riguardo la sua fede, lui mi disse: “Non devi cercare per avere fede, ce l’hai dentro di te.”




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