Walter Tobagi assassinato dalle Brigate Rosse

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Tobagi – 1980 – Milano, giovani terroristi delle BR assassinano Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera. Un agiornata buia per l’Italia e la sua democrazia.

Era il 28 maggio 1980 quando Walter Tobagi, giovane inviato del “Corriere della Sera” e presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, venne ucciso in via Salaino da quattro proiettili sparati da Marco Barbone e altri cinque terroristi della “Brigata 28 marzo”.

Se la R4 rossa in via Caetani a Roma, col cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio, è l’immagine di uno Stato “colpito al cuore”, la gente comune davanti al sindacato dei giornalisti fu la testimonianza di una Milano «sofferente e provata» ma che, come scrisse esattamente 10 anni fa il cardinale Carlo Maria Martini, aveva «soprattutto il desiderio di risollevarsi, di rispondere con un deciso “no” alla violenza». La stessa folla che «stretta in un ideale abbraccio», pochi giorni dopo, al funerale celebrato dall’arcivescovo nella chiesa di Santa Maria del Rosario, sembrava voler «ricercare una forma di coraggio da condividere».

La piazza, muta, nel dare l’addio al giornalista ucciso, affermava anche inconsapevolmente che i brigatisti, come aveva scritto un mese prima sul “Corriere” lo stesso Tobagi commentando l’arresto di alcuni terroristi infiltrati nel sindacato, non sono «samurai invincibili». Dopo l’incursione delle forze dell’ordine in un covo delle Br in via Fracchia a Genova il 28 marzo di quello stesso anno – la “sigla” che i killer giustapposero nel rivendicare il loro attacco alla «stampa di regime» – Tobagi in un’analisi lucida, quanto ferma e pacata, aveva affermato che «adesso si dissolve il mito della colonna imprendibile».

Piccole crepe nel partito della lotta armata, e segni di riscatto di una società sconvolta e lacerata, ma non piegata. «Il cerchio dell’omertà intorno ai brigatisti si stava rompendo », scrive Ferruccio De Bortoli in un appassionato, quanto prezioso, amarcord di quegli anni vissuti insieme a Tobagi prima al “Corriere d’Informazione” e poi al “Corriere della Sera”, pubblicato nell’ultimo numero di “Il Giornalismo”, il periodico dell’Associazione lombarda giornalisti.

Dunque Tobagi venne ucciso  con cinque colpi di pistola esplosi da un “commando” di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo (Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano),buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese. Due membri del commando in particolare appartengono all’ambiente giornalistico: sono Marco Barbone, figlio di Donato Barbone, dirigente editoriale della casa editrice Sansoni (di proprietà del gruppo RCS), e Paolo Morandini, figlio del critico cinematografico Morando Morandini del quotidiano Il Giorno.

A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone. È quest’ultimo a dargli quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il colpo di grazia: quando Tobagi era ormai accasciato a terra, il terrorista gli si avvicinò e gli esplose un colpo dietro l’orecchio sinistro. In realtà, da come risulta dall’autopsia, il colpo mortale fu il secondo esploso dai due assassini, che colpendo il cuore causò la morte del giornalista.

Nel giro di pochi mesi dall’omicidio, le indagini di Carabinieri e magistratura portarono all’identificazione degli assassini, e in particolare a quella del leader della neonata Brigata XXVIII marzo, lo stesso Marco Barbone che, subito dopo il suo arresto, il 25 settembre del 1980, decise di collaborare con gli inquirenti e grazie alle sue rivelazioni l’intera Brigata XXVIII marzo fu smantellata e furono incarcerati più di un centinaio di sospetti terroristi di sinistra, con cui Barbone era entrato in contatto durante la sua militanza terroristica.

Le 102 udienze di quello che fu un maxi-processo all’area sovversiva di sinistra iniziarono il 1º marzo 1983 e terminarono 28 novembre dello stesso anno. La sentenza suscitò molte polemiche poiché il giudice Cusumano, interpretando la legge sui pentiti in modo difforme rispetto al Tribunale di Roma (dove furono comminate comunque pene a oltre vent’anni di carcere ai terroristi pentiti delle Unità comuniste combattenti), concesse a Marco Barbone, Mario Ferrandi, Umberto Mazzola, Paolo Morandini, Pio Pugliese e Rocco Ricciardi «il beneficio della libertà provvisoria ordinandone l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa», mentre agli altri membri della XXVIII marzo, De Stefano, Giordano e Laus, furono inflitti trent’anni di carcere.

Le indagini non hanno chiarito il ruolo svolto dalla fidanzata di Marco Barbone, Caterina Rosenzweig, appartenente ad una ricca famiglia milanese, figlia dell’affarista Gianni e della preside della Scuola Ebraica Paola Sereni. Nel 1978, cioè ben due anni prima dell’omicidio, Caterina Rosenzweig aveva lungamente pedinato Tobagi, che era anche suo docente di Storia moderna all’Università Statale di Milano. Anche se nel settembre 1980 viene arrestata insieme con gli altri, Caterina verrà assolta per insufficienza di prove, nonostante nel corso del processo venga accertato che il gruppo di terroristi si riuniva a casa sua in via Solferino, a poca distanza dagli uffici dove lavorava Tobagi. Dopo il processo si trasferirà in Brasile, nazione in cui già aveva vissuto in quanto sede degli affari del padre, fino a far perdere le proprie tracce.

Discussa fu la scelta da parte della magistratura di imbastire un processo con oltre 150 imputati e relativo non soltanto all’assassinio Tobagi ma a tutta l’area della sovversione di sinistra. Ciò, a detta di Ugo Finetti, segretario provinciale del PSI, ha fatto apparire il dibattimento come “un processo che sulla carta dovrebbe andare in scena perché si parli poco e male della vittima e con gli assassini più che altro messi sul banco non degli imputati, bensì degli accusatori, perché la sceneggiatura prevede che il centro dell’attenzione processuale riguardi altri fatti e altre persone“. Fu infatti scelto come referente privilegiato Marco Barbone, il quale, pentitosi subito dopo l’arresto, cominciò a fornire una notevole mole d’informazioni sugli ambienti della “lotta armata”. Tale scelta appare irrituale se si considera che il generale Carlo Alberto dalla Chiesa in un’intervista a Panorama rilasciata il 22 settembre 1980 (tre giorni prima dell’arresto del terrorista), fa cenno all’assassinio di Tobagi e alla Brigata XXVIII marzo e parla di aver « […] usato la stessa tecnica adottata a Torino nel ’74-75 per la cattura di Renato Curcio: massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione». Ossia, le forze dell’ordine e la magistratura potevano già disporre di una serie d’informazioni relative al gruppo terroristico e al delitto. Nonostante ciò, come già detto, durante il dibattimento ci si basò sulle dichiarazioni di Barbone, il quale non fu arrestato come sospetto per l’omicidio ma con i seguenti capi d’accusa: appartenenza alle FCC, a Guerriglia rossa e partecipazione alla rapina ai Vigili urbani di via Colletta. Nella stessa intervista il generale afferma che vi sono sostenitori della Brigata XXVIII marzo tra i giornalisti.
Altra stranezza è la insolita uniformità di punti di vista tra PM e difesa di Barbone e la contrapposizione, altrettanto insolita, tra accusa e parte civile, la quale si vide rifiutare ogni istanza tesa a chiarire le dinamiche del delitto e le circostanze che portarono Barbone a pentirsi.

Nel documento di rivendicazione del delitto i terroristi sembrano essere a conoscenza dei fenomeni legati al mondo della stampa e a particolari relativi alla vita professionale di Tobagi; del giornalista scrissero «preso il volo dal Comitato di redazione del Corsera dal 1974, si è subito posto come dirigente capace di ricomporre le grosse contraddizioni politiche esistenti fra le varie correnti», ma Gianluigi Da Rold si chiede: «Come fanno a sapere che Walter Tobagi fece parte del comitato di redazione del Corsera (termine usato solo all’interno di via Solferino) quale rappresentante sindacale del «Corriere d’informazione» anche se per poco tempo [due mesi, ndr], nel 1974?»[12]. Il comitato di redazione del Corsera non è da confondere con l’omologo del Corriere della Sera; vi si riunivano i rappresentanti delle redazioni di tutti i quotidiani e periodici allora collegati alla testata milanese. Nel testo, quindi, si cita un fatto molto particolare, ma Barbone, durante il dibattimento, afferma di essersi confuso: riprendendo un articolo di Ikon, ci si sarebbe sbagliati e scritto 1974 anziché 1977, l’anno in cui Tobagi entrò effettivamente a far parte del comitato di redazione del quotidiano. Ma, come detto, il comitato di redazione del Corriere della sera è cosa diversa da quello del Corsera e appare strano che, laddove l’autore del testo (o gli autori, stando alla versione fornita da Barone) appare consapevole della differenza, nella sua dichiarazione al processo dimostra di non averla ben presente, affermando di essersi semplicemente confuso sulla data di ingresso di Tobagi nel comitato di redazione del «Corriere della sera».

Altra incongruenza nelle dichiarazioni di Barbone è quella relativa al suo pedinamento del giornalista la notte del 27 maggio, il giorno prima del delitto. Nel mese di maggio del 1980, la vittima si assentò spesso da Milano per seguire la campagna elettorale per le amministrative, e tornava solo la domenica. Il 27, un mercoledì, eccezionalmente era presente al “Circolo della stampa” di Milano (dove fu oggetto, come riferiscono i testimoni, di attacchi verbali). Il terrorista, successivamente, affermò di aver girato con l’auto attorno alla sede dell’associazione «per rintracciare eventualmente quella del Tobagi e avere conferma che ci fosse, ma senza averla vista, me ne andai subito. La mattina successiva, quindi, agimmo». Se la presenza dell’auto presso il circolo era un fatto secondario rispetto alla messa in pratica del disegno criminoso, allora perché Barbone decise di pedinare Tobagi e soprattutto, come seppe della sua presenza a Milano.

Al processo del 1983 vennero emesse le condanne contro i componenti del commando della Brigata XXVIII marzo:

  • Marco Barbone, il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza).
  • Paolo Morandini (figlio di Morando), anche lui immediatamente “pentito”, ebbe la medesima condanna di Barbone.
  • Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni.Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
  • Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
  • Daniele Laus, l’autista del commando, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
  • Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l’esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l’unico che scontò l’intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.

La moglie, ricostruendo la giornata dell’omicidio del marito raccontò: «Pochi giorni prima che lo uccidessero, a Venezia. Lui ci andò per lavoro, io volli fargli una sorpresa e mi feci trovare alla stazione. Ma sa che non riuscimmo a pranzare insieme neanche a Venezia? Non so quante volte abbiamo mangiato insieme neppure qui a casa. Lui mi telefonava dal “Corriere” e mi diceva: sto uscendo. Ma arrivava sempre due ore dopo, quanto cibo ho dovuto buttare via».

Lei non ama il mondo del giornalismo. «No. Non l’ho mai amato. Non mi piaceva neanche il “Corriere”, ero un po’ anarchica e lo consideravo troppo asservito al potere. Poi non mi piaceva la competitività, anzi la rivalità fra i giornalisti: si scannano per una firma in prima pagina. Adesso capisco quanto bene ha fatto Walter con i suoi articoli, ma prima pensavo che il giornalismo mi ha portato via troppo di lui. Quando eravamo fidanzati andavo a prenderlo all’”Avvenire”, cenavamo in orari che per me, che sono mattutina, erano impossibili. E poi non eravamo mai soli: c’erano sempre dei suoi colleghi, io mi sentivo tagliata fuori perché i giornalisti parlano sempre delle loro cose».

Però ha sposato un giornalista. «Io non ho sposato un giornalista, ho sposato Walter. Io e lui eravamo un tutt’uno. L’ho conosciuto che avevo sedici anni. Tutti lo ricordano oggi come un cronista che voleva capire per spiegare. Ma io l’ho conosciuto come un uomo che amava per capire. Mi ricordo un giorno in cui gli dissi che non capivo i miei suoceri, che abitavano con noi. Walter mi disse: non li devi capire, devi volergli bene. E io compresi che faceva così anche con me».

Lei non crede che ci siano state complicità all’interno del «Corriere»? «Ci fu senz’altro un’atmosfera di grande ostilità, una campagna velenosa fatta da alcuni colleghi di sinistra e dalla corrente sindacale di Rinnovamento. Ma non credo che il mandato a uccidere sia partito da via Solferino, né che lì dentro ci siano stati dei complici. Ecco, io tacevo perché temevo strumentalizzazioni politiche».

Signora, lei prima ha detto che ci sono tante cose che l’aiutano comunque a stare bene. Posso chiederle quali sono? «Questi due figli meravigliosi. La solidarietà di tanta gente. La condivisione del lavoro di mio marito che ha continuato a dare frutti. La fede, che non ho per nulla perduto, anzi. E poi Walter: per me lui è sempre stato vivo, io lo sento vivo adesso».

 




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