Orban – Viktor Orban è stato rieletto con la maggioranza assoluta per il quinto mandato da capo del governo in Ungheria. Il leader magiaro, campione dei sovranisti europei e nemico numero uno dei progressisti del Vecchio Continente, è figura divisiva ma complessa. Con un’agenda politica chiara, sviluppata negli anni e articolata, fondata su un forte identitarismo trasmesso da Orban alla sua creatura politica, Fidesz, vero e proprio partito-Stato che governa il Paese.
Tra gli oppositori del governo dell’Ungheria non ci sono solo i “burocrati” di Bruxelles ma anche il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky: parola di Viktor Orban, confermato primo ministro alle elezioni di ieri. Le sue dichiarazioni sono state rilasciate a Budapest, di fronte a una folla di sostenitori.
“Non abbiamo mai avuto così tanti oppositori” ha detto il capo del governo, citando “burocrati di Bruxelles, media internazionali mainstream e infine il presidente dell’Ucraina”. Zelensky aveva criticato la linea politica di Budapest, giudicata favorevole a Mosca nonostante l’offensiva russa contro Kiev cominciata il 24 febbraio.
“Prima l’Ungheria”, sono state ancora le parole di Orbán nella notte di Budapest, uno slogan che riecheggia quell'”America first” di Trump, che non a caso non aveva fatto mancare al premier ungherese il suo endorsement. “Fidesz rappresenta una forza conservatrice patriottica e cristiana. È il futuro dell’Europa”, ha insistito Orbán . Dopo una campagna elettorale iniziata sui temi interni e incentrata anche sulla difesa della famiglia tradizionale, il dibattito politico è stato travolto dalla guerra in Ucraina. Per l’opposizione il voto rappresentava una scelta netta tra l’Occidente e la Russia.
È stato infatti l’unico a negare la consegna di armi a Kiev, e ad assicurare in tutti i modi che Budapest si terrà fuori dal conflitto con Mosca
Cinquantotto anni, di orientamento nazionalista, Orban guida un’alleanza composta dalla sua formazione Fidesz e dal Partito popolare cristiano democratico (Kdnp). Stando ai risultati, ancora parziali, la coalizione ha ottenuto il 53 per cento dei consensi, superando i rivali liberali ed europeisti di Uniti per l’Ungheria.
UE: “NESSUN COMMENTO PARTICOLARE SU QUESTIONI NAZIONALI”
“Parliamo di elezioni nazionali ed è una questione nazionale. Abbiamo seguito queste elezioni come quelle di tutti gli Stati membri ma non abbiamo particolari commenti su questo fronte. Le elezioni nazionali sono parte della nostra costituzione europea”. Queste le parole di un portavoce della Commissione europea, durante l’odierno briefing, commentano i risultati delle elezioni in Ungheria che hanno sancito la vittoria di Viktor Orban per il quarto mandato consecutivo.
Il governo di Budapest è stato più volte al centro di tensioni in ambito europeo, soprattutto per la sua opposizione alle clausole sul rispetto dello Stato di diritto nell’ottenimento dei fondi post-pandemia e per questioni legate alla redistribuzione dei migranti fra i Paesi membri.
Andrea Muratore e Emanuel Pietrobon hanno studiato la figura del leader magiaro nel saggio “La visione di Orban. Come Fidesz ha cambiato l’Ungheria”, edito da GoWare, di cui di seguito vi presentiamo un estratto.
In un celebre discorso del 2014, Viktor Orbán ha esplicitamente mostrato la reale portata del suo disegno proponendo il superamento della democrazia liberale con un nuovo tipo di organizzazione della comunità nazionale, la “democrazia illiberale”, passante proprio per l’istituzionalizzazione di un nuovo baricentro di potere e invitando a “pensare a dei sistemi che non sono democrazie occidentali, non liberali, forse nemmeno democratiche, e tuttavia che rendono le nazioni efficienti. Oggi, le star delle analisi internazionali sono Singapore, Cina, India, Turchia, Russia. […] Una democrazia non è necessariamente liberale”.
Questa visione, come si vedrà, svelava l’ambizione di dotare di una propria soggettività l’Europa centrale, regione enfaticamente definita “diversa dall’Europa occidentale” nell’altrettanto discorso in Transilvania nel 2018, da costruire attorno al rifiuto del multiculturalismo e dell’immigrazione e alla difesa di cristianità, famiglia tradizionale e settori strategici dell’economia. “Credo che non ci sia un politico più europeo di Viktor Orbán, che al tempo stesso è tipicamente ungherese”, ha detto Aaron Mathe sul progetto del politico magiaro. “Secondo me, il suo vero sogno è la ricostruzione di un’Europa cristiano-democratica. I suoi oppositori politici e i suoi nemici, invece, sono chiaramente antieuropei: rigettano tutto ciò che ha reso grande la civiltà occidentale. È importante, in questo contesto, non fare confusione tra Europa e Unione Europea”, componente centrale nella visione orbaniana del mondo.
Il gradualismo dell’applicazione dell’agenda politica, come ricordato in precedenza, ha richiamato apertamente a quanto fatto in altri Paesi, come la Turchia di Erdoğan; la riforma costituzionale ungherese non è stata, al contempo, un unicum, inserendosi nel grande filone delle costituzioni verticistiche ed “emergenziali” dell’era della globalizzazione.
La società dell’era delle “crisi infinite” è governata da una politica che ha, al massimo, come via di fuga lo stato d’emergenza, ovvero l’attestazione della necessità di imporre una fase extra-ordinaria per governare le ore più buie di una fase caotica al di fuori delle normali leggi del gioco democratico. Usa e Francia hanno introdotto importanti norme anti-terrorismo, ad esempio; in Italia per due volte, nel 2006 e nel 2016, gli elettori hanno bocciato riforme costituzionali proposte da singole coalizioni come carte partigiane centrate sull’accentramento dei poteri sul governo di Roma; nei regimi esterni all’Occidente classico le nuove costituzioni dell’era contemporanea (dal Venezuela alla Turchia, passando per la Polonia e arrivando all’Ungheria) contemplano gli stati d’eccezione, sono presidenzialiste (o centrate su larghi poteri per l’esecutivo) e verticiste. Come se il vero stato d’eccezione non fosse, in fin dei conti, che l’incapacità di governare realmente la globalizzazione e i suoi processi, l’instabilità di un mondo che decenni fa si riteneva possibile unificare con le leggi disciplinate del commercio e del mercato e che oggi si mostra in difficoltà di fronte alla prevenzione del rischio.
[…]
Questi principi sono stati portati avanti non senza un velato tentativo di governare la contraddizione: ad esempio, l’atteggiamento sul tema dell’influenza reale o presunta di Soros nel Paese come portatore di idee e visioni allogene è andato di pari passo col tentativo di seguire, a lungo, un altro zio d’America, Steve Bannon, istituzionalizzando come modello di una presunta visione sovranista globale la nuova Ungheria orbániana; tale manovra è stata decisamente emblematica della capacità di Orbán di giocare con astuzia e abilità politica sul filo della contraddizione. Il tema del rapporto tra Ungheria e Unione Europea e la questione dei migranti ne sono un plastico esempio.
ORBAN: LA SUA STORIA
Piazza degli Eroi, Budapest, 16 giugno 1989: l’Ungheria tributa funerali postumi e solenni a Imre Nagy e agli altri personaggi coinvolti nella rivoluzione del 1956, soffocata dalle truppe del Patto di Varsavia che ricondussero il Paese nelle maglie della dominazione sovietica. Il declinante regime edificato dopo quei traumatici eventi è oramai agonizzante, ma mantiene ancora intatte le leve del potere e, nonostante abbia autorizzato questo evento di dichiarato spirito contestativo, lo ha infiltrato adeguatamente con diversi membri degli apparati di sicurezza.
In quella giornata diversi relatori si alternano a parlare sul palco allestito per l’occasione, osservati da tutti gli ungheresi dalle loro televisioni, ma a rubare la scena è un allora sconosciuto 26enne che ha da poco fondato un movimento di opposizione denominato Fidesz, l’Alleanza dei Giovani Democratici, e sta per terminare un ciclo di studi ad Oxford finanziato da una borsa della fondazione di George Soros, suo futuro nemico per eccellenza: Viktor Orban.
Come si legge su Limes, “ignorando i ‘consigli’ dei servizi di sicurezza, che lo tengono sotto osservazione, nei pochi minuti a sua disposizione il guastafeste riesce ad accusare il governo comunista ungherese di aver rubato la giovinezza di un’intera generazione, a chiedere libere elezioni, e a invocare il ritiro delle truppe sovietiche. L’impatto mediatico è dirompente. Al furore delle autorità si contrappone l’ammirato stupore del pubblico. Il breve discorso riesce a spostare le coordinate della commemorazione, dandole un preciso contenuto politico di opposizione al regime morente. Quei dieci minuti segnano la nascita di un politico di livello europeo”. In quell’episodio c’è tutto Orban: un leader vulcanico, imprevedibile e carismatico, da trent’anni al centro della vita democratica dell’Ungheria.
Il giovane attivista si distinse sin dall’inizio per prese di posizione fortemente orientate ai dettami del liberalismo politico e del liberismo economico e dalle elezioni del 1990 iniziò una carriera parlamentare che da allora non si è mai interrotta. Dapprima oppositore della maggioranza conservatrice di József Antall, formatasi come azione-reazione all’insuccesso delle “terapie choc” liberiste sperimentate nei vicini Paesi ex comunisti, Orban conobbe la sua grande occasione politica nel 1994, dopo le seconde elezioni libere che garantirono la maggioranza ai socialisti post-comunisti, i quali formarono un esecutivo assieme ai conservatori, accusati da allora di tradire la tradizionale ritrosia delle nuove forze politiche ungheresi a coalizzarsi con gli eredi del passato regime.
In quel contesto Orban matura la lunga svolta verso il conservatorismo, avviando la marcia verso l’addio alla carica di vicepresidente dell’Internazionale liberale, che lascerà solo nel 2000 per passare ai popolari europei. “Per politici del calibro di Genscher e Lambsdorff, questo giovane ungherese rappresentava una delle migliori speranze del liberalismo europeo”, continua Limes.
La scelta, invece, cadde su una postura ideologica più identitaria, figlia della necessità per l’Ungheria di trovare un suo ruolo nello spazio politico e sociale europeo dopo il trauma del 1989 e aperta anche agli ungheresi della diaspora, stimati in oltre tre milioni nell’intera Europa orientale. La crisi economica ungherese di fine anni Novanta aprì le porte del potere a Fidesz, oramai trasformata in un partito di massa: il 1998 sarebbe stato l’anno chiave.
“Tre nazioni si stanno unendo oggi alla Nato. Si uniscono individualmente e assieme allo stesso tempo […] Abbiamo definitivamente ancorato le nostre nazioni alla sponda occidentale”: con queste parole Viktor Orban si presentò a Bruxelles all’Alleanza Atlantica il 16 marzo 1999, in occasione dell’ingresso di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca nella Nato.
Il primo esecutivo Orban durò fino al 2002 e vide l’Ungheria avvicinarsi saldamente agli Stati Uniti, sperimentare tassi di crescita elevati e calo dell’inflazione e, al tempo stesso, un aumento della frattura politica interna tra Orban e le componenti più strettamente liberali del panorama politico. Di fatto, il voto del 1998 trasformò Fidesz da movimento a partito di governo strutturato, rompendo il bipolarismo post-comunista e cambiando le regole del gioco. Da allora in avanti, temi come l’identità ungherese e la posizione di Budapest in relazione al resto d’Europa avrebbero svolto il ruolo di questioni politiche primarie.
Nel 2002, Fidesz perse le elezioni contro i socialisti e Orban fu scalzato dal potere. Per il partito iniziò una lunga traversata del deserto che sarebbe stata aggravata da un nuovo insuccesso nel voto del 2006.
Fu proprio in quel momento di crisi che Orban distaccò gradualmente le sue posizioni politiche dalle residue componenti liberali, iniziando a orientare le preferenze del suo partito verso le categorie che più avevano sofferto dall’improvvisa apertura di mercato del Paese e richiedevano tutele contro quelli che erano percepiti gli effetti negativi della globalizzazione. La produttività del Paese non era compensata da un’adeguata crescita dei salari, il welfare rimaneva stagnante e il governo socialista portò avanti misure di contenimento della spesa pubblica che svantaggiarono numerose fasce del suo elettorato tradizionale.
La vittoria schiacciante dei contrari alla riforma riportò Orban al centro del teatro politico, inaugurando una fase di slancio proseguita con il trionfo alle Europee del 2009 (56,36%) per Fidesz e coronata dal ritorno al potere di Orban nel 2010.
In un discorso del 2014, Orban seppellì definitivamente i dogmi neoliberisti presentando la sua idea di Stato come entità di costruzione, rinvigorimento e organizzazione della comunità nazionale, rilanciando politiche economiche assertive e in controtendenza con le prescrizioni dell’Unione europea.
Orban è al tempo stesso una contraddizione vivente e una forza della natura: ripudia Bruxelles ma sfrutta i fondi strutturali da questa provenienti per attuare politiche espansioniste che accrescono il Pil ungherese; si scaglia con l’ex finanziatore Soros martellando la sua rete di organizzazioni non governative ma finisce per adottare come “zio d’America” l’ex Chief Strategist di Donald Trump, Steve Bannon; predica la chiusura ai migranti e la difesa della sovranità nazionale a centinaia di chilometri del Mediterraneo e attira nella sua orbita esponenti politici di Paesi, come l’Italia, che con Ungheria e Visegrad hanno divergenze d’agenda notevoli.
Trent’anni al centro della scena hanno costruito la carriera di un politico che suscita reazioni polarizzanti e ha attraversato tutto lo spettro politico della destra con astuzia e lungimiranza. A 55 anni appena compiuti, Orban ha guidato nel 2019 Fidesz a un nuovo successo elettorale alle Europee: Fidesz ha aumentato i consensi rispetto a cinque anni prima sfiorando i 2 milioni di voti e ottenendo il 52% dei consensi, oltre il triplo di quelli dei socialdemocratici fermi al 16%.
Nei mesi successivi alle Europee Orban ha scelto di non unirsi all’internazionale sovranista prospettata da leader come Matteo Salvini, muovendosi da battitore libero ai margini del Ppe e dando il via libera all’elezione di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione.
Il 29 maggio il primo ministro ungherese ha celebreto il decimo anniversario consecutivo della sua permanenza al potere. Per longevità il leader di Fidesz era, in quell’epoca, superato in seno all’Unione Europea solo dalla “Cancelliera” Angela Merkel, in sella a Berlino dal 2005, mentre entro i confini nazionali nel 2021 Orban, contando anche la precedente esperienza di governo dal 1998 al 2002, ha agganciato Kalman Tisza, per 15 anni consecutivi leader indiscusso dell’Ungheria asburgica (1875-1890), come primo ministro più longevo della storia del Paese.
Meszaros, amico d’infanzia di Orban originario della medesima cittadina di provincia, Felcsut, del primo ministro e passato in pochi anni dal ruolo di imprenditore locale alla conquista di un patrimonio da 1,1 miliardi di dollari. Orban di fronte alle accuse ha tenuto botta. Il mare in cui riesce a navigare meglio è quello in tempesta che gli consente di mobilitare in continuazione un’Ungheria trasformata con riforme economiche, politiche e istituzionali. Un’Ungheria identitaria, che arriva a ostentare quasi con parossismo una matrice occidentale e cristiana che il semplice studio della storia basterebbero ad attribuirgli senza che ciò diventi un tema di interesse politico.
Il leader politico di Budapest ha costruito un ruolo da referente istituzionale di un’ala conservatrice e critica dei Paesi membri dell’Unione Europea, aumentato la sua influenza politica anno dopo anno, aperto agli investimenti della Russia di Vladimir Putin e della Cina di Xi Jinping e ai legami con la Turchia di Erdogan negli anni in cui appariva uno dei punti di riferimento europei dell’amministrazione Trump. E ha consolidato la sua presa sul potere anche dopo il cambio della guardia con Joe Biden alla Casa Bianca. Euroscettico e critico del politicamente corretto che ritiene imperante a Bruxelles, Orban ha sfidato l’Ue con le leggi controverse sui diritti Lgbt, ma ha fatto a sua volta il pendolo tra falchi e colombe nella battaglia del rigore, non mancando di sfruttare strumentalmente il dibattito sull’austerità fiscale e di allinearsi quando necessario al rigorismo più ortodosso per aprire il confronto con i partner industriali, Germania in testa.
Quanto a lungo, tuttavia, Orban potrà reggere la barra del timone? Lo smarrimento interno dell’opposizione e la ribalta internazionale lo hanno a lungo aiutato. Tuttavia, le numerose contraddizioni su cui si poggia il suo potere e alcuni scandali legati alla corruzione di esponenti politici di Fidesz potrebbero minare la stabilità del suo governo. Sulla corruzione ha tentato l’assalto l’opposizione unita nel 2022 che ha provato lo schema “tutti contro Orban”. Venendo respinta con perdite.
Dopo molto caos interno l’opposizione magaira a fine 2021 ha trovato il nome dell’anti-Orban scegliendo, paradossalmente, la figura più “orbaniana” al suo interno: ad imporsi nel secondo turno conclusosi il 16 ottobre e aperto ai sei partiti alleati contro il premier di Budapest è stato l’economista Péter Márki-Zay. Conservatore, cattolico e europeista di 49 anni, esponente del Movimento per un’Ungheria per Tutti (Mmm) Marki-Zay è sindaco della città di Hódmezővásárhely, città di meno di 45mila abitanti di cui è diventato primo cittadino da indipendente nel 2018 risultando il primo esponente esterno al partito di Orban a guidare la città dal 1990.
La coalizione ha candidato il più orbaniano dei suoi uomini per tenere unita una squadra che andava dall’estrema destra di Jobbik fino ai Socialisti che presentava un’agenda comune (nuova Costituzione, smantellamento degli apparati di potere orbaniani, lotta alla corruzione), ma dopo un lungo testa a testa Orban ha trovato il game-changer decisivo: la guerra russo-ucraina, scoppiata a poco più di un mese dal 3 aprile 2022, data del voto, ha messo la difesa dell’interesse nazionale e l’equilibrio dell’Ungheria tra Kiev e Mosca al centro del discorso.
Orban ha condannato l’invasione russa ma non ha rotto con Putin; ha mostrato la sua solidarietà alle sanzioni europee ma rifiutato l’invio di armi all’Ucraina; ha tenuto una linea pragmatica che, al voto, ha pagato: il 3 aprile 2022 Orban, che nel 2021 era diventato il premier ungherese più longevo, si è assicurato il quinto mandato, il quarto consecutivo, vincendo a valanga le elezioni. Fidesz e il Partito del Popolo Cristiano-Democratico hanno ottenuto 2,7 milioni di voti, oltre il 53% dei consensi e 88 su 106 collegi uninominali, staccando di quasi diciotto punti l’opposizione unita. E mostrando che nel futuro del Paese c’è ancora molto spazio per il leader nazionalconservatore che ha cambiato la sua traiettoria in Europa. Forse per sempre.
LA SOLITA SCENA SUI BROGLI
Naturalmente quando non vince chi è amato dai poteri forti subito si torna a parlare di brogli elettorali e nelle prime pagine dei “soliti” giornali italiani il trionfo di Orban viene dipinto come un “imbroglio”.
L’avvversario sconfitto, Marki-Zay: “In questo sistema ingiusto e disonesto non potevamo fare di più”. Orban controlla la quasi totalità dei media, ha finanziato la campagna elettorale con una valanga di soldi pubblici, ha ridisegnato i collegi elettorali per favorire Fidez e sulle elezioni si è persino allungata l’ombra di brogli. Tanto che l’Osce ha mandato una delegazione di duecento osservatori nel Paese: quattro anni fa aveva già avvertito che il voto in Ungheria era “libero ma scorretto”.
“Purtroppo, è una buona notizia per Putin. Siamo diventati il suo cavallo di Troia in Europa. E ci stiamo trasformando sempre di più in un’autocrazia asservita alla Russia”. Fa impressione sentire Márton Gyöngyösi, vicepresidente di Jobbik, il partito di destra che per anni è stato alleato di Orban, lanciare l’allarme sulla deriva autoritaria del premier. Nella serata elettorale organizzata dall’opposizione, mentre l’Europa assisteva col fiato sorpreso alle elezioni più cruciali dall’invasione dell’Ucraina, abbiamo parlato con l’europarlamentare della forza politica che ha cambiato campo per allearsi con altri cinque partiti dell’opposizione e battere il premier più filorusso e filocinese d’Europa.
“Adesso – conclude amareggiato Gyöngyösi – i nostri unici amici saranno la Serbia e la Russia. Persino i Paesi Visegrad e in particolare la Polonia, storica alleata, ci hanno voltato le spalle. Siamo sempre più soli. In Europa e nella Nato”. Oltretutto, nei giorni in cui Budapest l’ultimo incredibile scandalo che ha travolto il governo Orban è sulla bocca di tutti. Da anni il ministero degli Esteri magiaro è stato penetrato da spie russe. “Vuol dire che da anni – spiega l’europarlamentare di Jobbik – i documenti, i segreti che dividiamo con la Ue e la Nato sono finiti nelle mani di Putin. Una tragedia”.
Tra gli elettori, secondo l’opposizione, ha serpeggiato la paura di essere trascinati nel conflitto. Così come un ruolo potrebbero aver avuto i tanti sussidi distribuiti in questi anni dal governo e il timore di un aumento considerevole dei costi energetici in caso di rottura con Mosca, davanti a un’inflazione che già ora è ai massimi dagli ultimi 20 anni. “È una vittoria così grande che si vede dalla Luna. E di certo da Bruxelles”, è stata la sferzata notturna di Orbán , a cui l’Ue aveva anche congelato oltre 7 miliardi di euro del Pnrr per un contenzioso sullo stato di diritto. L’Ungheria, per i prossimi quattro anni, ha scelto da che parte stare.