Non c’è più traccia degli Abba che cantano Hasta mañana con lo sguardo struggente della biondina anni settanta che ha fatto innamorare mezza Europa. Forse quello è stato l’ultimo addio che ha unito in un fremito il popolo svedese. Perché dopo, nella patria del progresso e della protestantizzazione scientifica, la Svezia ha assistito ad uno sviluppo inversamente proporzionale: maggiore erano il benessere e gli standard qualitativi della pubblica amministrazione e della società in generale, minore era la felicità dei suoi abitanti.
Il risultato dell’esperimento socio-scientifico ha prodotto i suoi frutti oggi e adesso raccontare la Svezia significa raccontare di un paese sull’orlo del suicidio di massa che non si accorge di come tutto sia scivolato via attingendo a piene mani alle promesse di felicità delle filosofie marx-femminsite. Ci vorrebbe a Stoccolma un Checco Zalone che si mettesse a piangere guardando la reunion di Albano e Romina per provare a commuovere qualche vichingo. Ma non c’è in Svezia nessun anelito di riscatto spirituale. Tutto avviene nel solco del più abissale individualismo.
Lo ha dimostrato in maniera esemplare il video maker Erik Gandini, italiano da tempo residente nel paese nordico che in un documentario andato in onda recentemente su un canale Rai ha raccontato dove ha portato lo scellerato programma sul futuro svedese licenziato dai governanti negli anni ’60.
La “Teoria svedese sull’amore” è un documentario di appena un’ora di cui i media si sono completamente scordati, ma che è stato ripreso dal portale www.vita.it che lo ha messo in circolo. Uno spaccato di com’è la Svezia e una proiezione di come diventerà la civiltà europea con i suoi miti di liberazione dell’uomo e che con la teoria gender e la frontiera della riproduzione artificiale ci avvicina sempre di più al Paese scandinavo del quale negli anni abbiamo invidiato le politiche welfare.
Indipendenza. Il video insiste su questa parola. Una parola coniata da un manifesto presentato dai politici svedesi negli anni ’60 quando si decise che “le donne dovevano essere indipendenti dagli uomini” e “i bambini dai vecchi” perché altrimenti la libertà conquistata non sarebbe stata davvero felice.
Oggi, come mostra Gandini, la Svezia è composta per la metà della popolazione da persone sole, adulte, indipendenti che lavorano per se stesse e solo per la propria indipendenza. La teoria svedese dell’amore ci porta a Maria Helena, forse un nome di fantasia, ma comunque evocativo, perché riassume i nomi delle donne che nell’antichità hanno polarizzato la concezione dell’universo femminile diviso tra purezza e libido irrefrenabile. La donna in Svezia aspetta a casa il kit per l’inseminazione artificiale che un corriere diligente e maniacalmente puntuale sta consegnando con tanto di ghiaccio secco a protezione dell’involucro “spermatico”.
“Ho pensato che fosse meglio avere un figlio da sola ed evitare di avere un partner, quello che mi interessava era avere un figlio, non volevo una relazione con un uomo. Stare da sola non mi fa paura”. Dall’altra parte, una ditta danese ha raccolto lo sperma di ragazzotti infelici e altrettanto disperati che si masturbano per “fare felici gli altri”, per “pura generosità”. In fondo, dice un biondino che non avrà 20 anni “bastano 5 minuti per fare felici gli altri”. E lo dice mente si lava le mani e il film appeso alla parete procede con le sue scene per il seguente donatore.
Le donne single si vogliono riprodurre e si chiedono “che cosa ce ne facciamo di un uomo, ci tocca sobbarcarci di altri compiti, sono cose d’altri tempi, vogliamo creare una famiglia da sole. Così interveniamo noi” dice il “filantropo” dell’industria del seme con 170 litri di sperma congelato pronto per la felicità in kit.
Non ricorda forse, questa giustificazione artefatta, lo slogan con il quale le femministe hanno ammorbato negli anni caldi della contestazione università, piazze, parlamenti, case editrici e redazioni? Eccole servite le donne nuove: una siringa già preparata dal produttore invita a iniettare il liquido seminale nel ventre della donna che deve stare a gambe in su per almeno mezz’ora. Poi si rialza e aspetta che la natura faccia il suo corso.
La disperazione della Svezia è rappresentata da un grafico che mette in relazione i progressi socio-tecnologici con il grado di individualismo. La scandinavia è in alto a destra, sola tra i più progrediti, sola tra i più individualisti. Un uomo abbandonato in metropolitana rappresenta l’immagine spot per dire che la vita non serve a nulla.
E neppure la morte. Una persona su quattro muore sola. C’è un’agenzia specializzata che interviene dopo che la polizia ha recuperato il corpo dello sventurato che muore tra le quattro pareti domestiche. E si incarica di ricostruirne i rapporti per consegnare ai figli qualche effetto personale e disbrigare le faccende come la gestione dei risparmi. Spesso non si trovano nemmeno i figli, così si va a casa sua e si scartabella nelle stanze di vita quotidiana alla ricerca di un legame ombelicale reciso con il tempo.
Ci sono persone che trascorrono l’intera esistenza davanti al computer uscendo soltanto per la spesa settimanale e il fenomeno è in aumento esponenziale. “Non facciamo più parte di un gruppo o di una famiglia, a chi possiamo chiedere aiuto? La lotta per l’indipendenza ci ha accecati, che senso ha avere 100mila euro in banca se non si è felici?”, dice Annie, mentre rovista tra i cassetti di un povero uomo impiccatosi e trovato cadavere due anni dopo con una busta piena di soldi per l’ufficiale giudiziario che avrebbe dovuto pensare al funerale. In Svezia non ci si suicida per povertà o miseria, ma per sazietà e solitudine. Si lascia questo mondo evitando al “dio” Stato anche l’incombenza di pagarti il funerale. E’ tutto scientificamente proiettato verso l’abisso.
C’è una siriana che insegna la lingua ai richiedenti asilo appena arrivati sul suolo scandinavo: “Gli svedesi sono di poche parole, capito? Non amano fare grosse chiacchierate quindi andate al sodo di una risposta o di una domanda”, ammonisce ai nuovi arrivati. E gli svedesi? “Io non li vedo mai. Vivono per conto loro, l’individuo è al centro di tutto, si concentrano solo su questo, non so se siano felici.
“La verità è che non c’è più nulla che ci tenga uniti”, sospira affranta l’”acchiappamorti”. Se una persona si ammala gli aiuti arrivano dallo Stato, ma non puoi piangere sulla spalla di qualcuno”. Quando una persona muore è morta, non si dice che è mancata. Perché non c’è nessuno a cui mancherà la sua assenza.
In questo universo di disperazione e solitudine c’è chi prova a ribellarsi. A modo suo. E’ un gruppo di ragazzi che hanno persino vergogna a pronunciare la parola amici. Hanno intuito che c’è qualcosa di altro rispetto all’individualismo sfrenato nel quale sono cresciuti. Così hanno provato ad andare nel bosco e da quel giorno si guardano, si parlano, si toccano. Il tutto in un’esperienza quasi primordiale che li fa sembrare degli hippies svitati alla ricerca di un po’ di bene.
Nessuno deve avergli detto che stanno semplicemente cercando una persona al posto del freddo individuo. Nessuno però gli ha parlato della differenza tra società e comunità. Ma il seme di bene che germoglia in loro è come se rimanesse ancorato in una caverna mentre proietta delle ombre di verità.
E gridano: “Noi, vogliamo amare”, mentre si abbracciano e si toccano con sensuale pudore nel tentativo goffo e primitivo di scoprire il corpo dell’altro.
Ma c’è anche chi ha detto basta. Un medico, un affermato chirurgo, dopo aver conosciuto la donna etiope della sua vita, è andato in Africa. Qui ha un piccolo ospedale che fa funzionare con quello che trova al mercato: con i raggi delle biciclette fissa le fratture, con il filo da pesca sutura le ferite eppure può dire: “Quando torno in Svezia i miei colleghi sono tutti scontenti, io almeno qui mi occupo di qualcuno”.
Scelte estreme, la media della popolazione invece è intrappolata nella zona grigia del perverso meccanismo che chiamiamo modernità. Il documentario si chiude con un’intervista del filosofo Sigfrid Baumann, il teorico della società liquida.
“Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto che si possono controllare le sfide poste dal fato”, dice osservando come in Svezia in fondo non ci sia nulla sotto controllo perché “l’indipendenza ci priva della capacità di instaurare un dialogo attraverso il quale non sappiamo mai come andrà a finire”.
Soli e abbandonati. Questo è il risultato della campagna martellante edonista e nichilista che oggi qualcuno chiama ancora diritti civili. E che ci mostra come sta diventando l’Europa che ha perso il senso della famiglia. Fonte: la Bussola