Papa Francesco prosegue il suo viaggio pastorale in Messico

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Papa Francesco prosegue la sua visita pastorale in Messico. E’ tornato a parlare di famiglia, ha gridare il suo dispiacere per quanto venga costantemente bistrattata nel mondo ed ha, ancora una volta, chiarito le idee a chi costantemente cerca di strumentalizzare le sua parole.

Almeno in 50 mila, hanno accolto il Papa allo stadio di Túxtla Gutiérrez, in Chiapas, dove si è svolto l’incontro con le famiglie. Quattro le testimonianze che hanno preceduto il discorso di Francesco che ha ribadito l’attualità e la bellezza della famiglia dove si vince l’isolamento e ci si dà coraggio per ricominciare sempre. La solitudine è tarma che inaridisce l’anima, ha detto il Papa, leggi che proteggano la famiglia e impegno personale “sono un buon abbinamento per spezzare la spirale della precarietà”.

Le famiglie riempiono lo stadio, offrono la loro realtà spesso difficile e attendono l’incoraggiamento del Papa: è un dialogo quello che avviene tra loro e Francesco, fatto di gesti e di parole di tenerezza. Francesco si dice grato per le loro testimonianze offerte con semplicità: a parlare per primo è Manuel un ragazzino in carrozzina perché affetto da distrofia muscolare. Racconta il suo dolore che poi però diventa scoperta di nuove possibilità. E’ lui che fa coraggio ai suoi e parla del Vangelo agli altri ragazzi spesso soli e disorientati. C’è poi una coppia che festeggia 50 anni di matrimonio e testimonia che l’amore fedele è possibile; un’altra sposata solo civilmente a causa di un precedente divorzio che, incontrata la Chiesa, si è messa a servizio dei più poveri e infine una madre single tentata più volte dall’ idea dell’aborto a causa della solitudine ma che è riuscita sempre a scegliere la vita. Papa Francesco sottolinea il tema del coraggio da dare l’un l’altro e che Dio ci dà : “Tutti noi che siamo qui abbiamo fatto esperienza che, in molti momenti e in forme differenti, Dio Padre ha dato coraggio alla nostra vita. Possiamo dunque chiederci il perché. Perché non può fare altrimenti. È capace di darci coraggio. Perché? Perché il suo nome è amore, il suo nome è dono gratuito, il suo nome è dedizione, il suo nome è misericordia”.

Riprendendo la vicenda della madre single, Francesco commenta che precarietà e solitudine sono pericolose, minacciano lo stomaco, ma possono inaridire anche l’anima: “La forma de combatir esta precariedad y aislamiento, que nos deja vulnerables…
“Il modo di combattere questa precarietà e questo isolamento, che ci rendono vulnerabili da tante apparenti soluzioni, va dato a diversi livelli. Uno è attraverso leggi che proteggano e garantiscano il minimo necessario affinché ogni famiglia e ogni persona possa crescere attraverso lo studio e un lavoro dignitoso”.
“Oggi vediamo e viviamo su diversi fronti come la famiglia venga indebolita e messa in discussione. Come si crede che essa sia un modello ormai superato e incapace di trovare posto all’interno delle nostre società che, sotto il pretesto della modernità, sempre più favoriscono un sistema basato sul modello dell’isolamento. E si insinuano nelle nostre società – che si dicono società libere, democratiche, sovrane – si insinuano colonizzazioni ideologiche che la distruggono, e finiamo per essere colonie di ideologie distruttrici della famiglia, del nucleo della famiglia, che è la base di ogni sana società”.

Certo, afferma il Papa, vivere in famiglia non sempre è facile, spesso è doloroso e faticoso, il vivere insieme produce a volte rughe e cicatrici, ma conclude: “Preferisco una famiglia ferita che ogni giorno cerca di coniugare l’amore, a una società malata per la chiusura e la comodità della paura di amare. Preferisco una famiglia che una volta dopo l’altra cerca di ricominciare a una società narcisistica e ossessionata dal lusso e dalle comodità. Io preferisco una famiglia con la faccia stanca per i sacrifici, ai volti imbellettati che non sanno di tenerezza e compassione”.

Al termine il Papa ricorda alle famiglie messicane che hanno una marcia in più: avete la Madre, dice, la Madonna di Guadalupe che ha voluto visitare queste terre: “E questo ci dà la certezza che, attraverso la sua intercessione, questo sogno chiamato famiglia non sarà sconfitto dall’insicurezza e dalla solitudine. Lei, conclude, è sempre pronta a difendere le nostre famiglie”.

Ma ecco il testo integrale del suo discorso alle famiglie: “Carissimi fratelli e sorelle, voglio rendere grazie per essere oggi in questa terra del Chiapas. È bello essere su questo suolo, è bello essere su questa terra, è bello essere in questo luogo che grazie a voi ha sapore di famiglia, di casa. Rendo grazie a Dio per i vostri volti e la vostra presenza, ringrazio Dio per il palpitare della Sua presenza nelle vostre famiglie. Grazie anche a voi famiglie e a amici che ci avete regalato la vostra testimonianza, che ci avete aperto le porte delle vostre case e delle vostre vite; ci avete permesso di sedere alla vostra “mensa” dove condividete il pane che vi nutre e il sudore davanti alle difficoltà quotidiane. Il pane delle gioie, della speranza, dei sogni e del sudore davanti alle amarezze, alla delusione e alle cadute. Grazie per averci permesso di entrare nelle vostre famiglie, alla vostra mensa, nella vostra casa.
Manuel, grazie per la tua testimonianza e soprattutto per il tuo esempio. Mi ha colpito quell’espressione che hai usato: “dare coraggio” (echarle ganas), come l’atteggiamento che hai assunto dopo aver parlato con i tuoi genitori. Hai iniziato a dare coraggio alla vita, dare coraggio alla tua famiglia, dare coraggio tra i tuoi amici e dare coraggio anche a noi qui riuniti. Credo che questo sia ciò che lo Spirito Santo vuole sempre fare in mezzo a noi: dare coraggio, regalarci motivi per continuare a scommettere, sognare e costruire una vita che sappia di casa, di famiglia.
E questo è ciò che Dio Padre ha sempre immaginato e per il quale fin dai tempi antichi ha combattuto. Quando tutto sembrava perduto quella sera nel giardino dell’Eden, Dio Padre ha dato coraggio a quella giovane coppia e le ha mostrato che non tutto era perduto. Quando il popolo di Israele sentiva che non c’era più un senso nell’attraversare il deserto, Dio Padre lo ha incitato ad avere coraggio con la manna. Quando venne la pienezza dei tempi, Dio Padre ha dato coraggio all’umanità per sempre dandoci il suo Figlio.
Allo stesso modo, tutti noi che siamo qui abbiamo fatto esperienza che, in molti momenti e in forme differenti, Dio Padre ha dato coraggio alla nostra vita. Possiamo dunque chiederci il perché. Perché non può fare altrimenti. È capace di darci coraggio. Perché? Perché il suo nome è amore, il suo nome è dono gratuito, il suo nome è dedizione, il suo nome è misericordia. Tutto ciò ce lo ha fatto conoscere in tutta la sua forza e chiarezza in Gesù, suo Figlio, che ha speso la sua vita fino alla morte per rendere possibile il Regno di Dio. Un Regno che ci invita a partecipare a quella nuova logica, che mette in moto una dinamica in grado di aprire i cieli, in grado di aprire i nostri cuori, le nostre menti, le nostre mani e ci sfida con nuovi orizzonti. Un Regno che ha il sapore di famiglia, che ha il sapore di vita condivisa. In Gesù e con Gesù questo Regno è possibile. Egli è in grado di trasformare le nostre prospettive, i nostri atteggiamenti, i nostri sentimenti molte volte annacquati in vino da festa. Egli è in grado di guarire i nostri cuori e ci invita più e più volte, settanta volte sette a ricominciare. Egli è sempre in grado di rendere nuove tutte le cose.
Mi hai chiesto, Manuel, di pregare per tanti adolescenti che sono scoraggiati e vivono momenti difficili. Tanti adolescenti senza slancio, senza forza, svogliati. E come hai detto bene, spesso questo atteggiamento nasce perché si sentono soli, perché non hanno nessuno con cui parlare. Questo sentimento mi ha ricordato la testimonianza che ci ha donato Beatriz. Se non ricordo male, Beatriz, ci hai detto: “La lotta è sempre stata difficile per l’incertezza e la solitudine”. La precarietà, la scarsità, molto spesso il non avere neppure il minimo indispensabile può farci disperare, può farci sentire una forte ansia perché non sappiamo come fare per andare avanti e ancora di più quando abbiamo dei figli a carico. La precarietà, non solo minaccia la stomaco (e questo è già molto), ma può minacciare perfino l’anima, ci può demotivare, toglierci forza e tentarci con strade o alternative di apparente soluzione ma che alla fine non risolvono nulla. C’è una precarietà che può essere molto pericolosa, che può insinuarsi in noi senza che ce ne accorgiamo, ed è la precarietà che nasce dalla solitudine e dall’isolamento. E l’isolamento è sempre un cattivo consigliere.
Entrambi avete usato, senza accorgervene, la stessa espressione, entrambi ci mostrate come tante volte la più grande tentazione che abbiamo di fronte è starcene da soli, e lungi dal darci coraggio questo atteggiamento, come la tarma, ci inaridisce l’anima.

Il modo di combattere questa precarietà e questo isolamento, che ci rendono vulnerabili da tante apparenti soluzioni, va dato a diversi livelli. Uno è attraverso leggi che proteggano e garantiscano il minimo necessario affinché ogni famiglia e ogni persona possa crescere attraverso lo studio e un lavoro dignitoso. E l’altro, come hanno ben sottolineato le testimonianze di Humberto e Claudia quando ci hanno detto che stavano cercando di trasmetterci l’amore di Dio che avevano sperimentato nel servizio e nell’assistenza agli altri. Leggi e impegno personale sono un buon abbinamento per spezzare la spirale della precarietà.

Oggi vediamo e viviamo su diversi fronti come la famiglia venga indebolita e messa in discussione. Come si crede che essa sia un modello ormai superato e incapace di trovare posto all’interno delle nostre società che, sotto il pretesto della modernità, sempre più favoriscono un sistema basato sul modello dell’isolamento.

Certo, vivere in famiglia non sempre è facile, spesso è doloroso e faticoso, ma, come più di una volta ho detto riferendomi alla Chiesa, penso che questo possa essere applicato anche alla famiglia: preferisco una famiglia ferita che ogni giorno cerca di coniugare l’amore, a una società malata per la chiusura e la comodità della paura di amare. Preferisco una famiglia che una volta dopo l’altra cerca di ricominciare a una società narcisistica e ossessionata dal lusso e dalle comodità. Io preferisco una famiglia con la faccia stanca per i sacrifici ai volti imbellettati che non sanno di tenerezza e compassione.

Mi hanno chiesto di pregare per voi e voglio iniziare a farlo proprio ora, assieme a voi. Voi, cari messicani, avete un “di più”, correte avvantaggiati. Avete la Madre, la Madonna di Guadalupe che ha voluto visitare queste terre, e questo ci dà la certezza che, attraverso la sua intercessione, questo sogno chiamato famiglia non sarà sconfitto dall’insicurezza e dalla solitudine. Lei è sempre pronta a difendere le nostre famiglie, il nostro futuro, è sempre pronta a darci coraggio donandoci il suo Figlio”.

Dopo le famiglie ecco il tempo per i giovani: Papa Francesco si rivolge a loro incontrandoli a Morelia, nello Stato di Michoacán, in uno dei momenti importanti del suo dodicesimo viaggio apostolico. In Messico i giovani sono più di 36 milioni. E hanno a che fare con violenza, povertà e corruzione, con quel denaro facile del narcotraffico capace di illudere e poi distruggere.

Programma intenso quello del Vescovo di Roma: In aereo da Città del Messico (alle 7:50 locali, le 14:50 in Italia), verso Morelia, un’ora di viaggio e poi alle 10 (le 17 italiane) dove ha celebrato la messa con i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i consacrati e i seminaristi. Alle 15:20 (le 22:20 in Italia) ha visitato la cattedrale, mentre alle 16:30 (23:30) l’incontro con i giovani nello stadio ‘Josè Maria Morelos y Pavon’. Poi il ritorno col volo delle 18:55 (l’1:55 italiane) che è atterrato a Città del Messico verso le 20.

Parole attente e forti quelle della celebrazione di Moreila tra i 20 mila fedeli presenti nello Stadio “Carranza”, a Morelia, nello Stato di Michoacán, nel centro del Messico. Il Santo Padre ha incentrato l’omelia sulle letture quotidiane e nello specifico sul Vangelo del giorno in cui Gesù. insegna ai discepoli il Padre nostro.
Troppo spesso ci si dimentica che Gesù ha chiesto specificatamente ai cristiani di recitare questa preghiera di ringraziamento e di richiesta verso il Padre che è nei cieli.

C’è un detto – ha esordito il Papa – che dice così: ‘Dimmi come preghi e ti dirò come vivi, dimmi come vivi e ti dirò come preghi’; perché, mostrandomi come preghi, imparerò a scoprire il Dio vivente, e mostrandomi come vivi, imparerò a credere nel Dio che preghi, perché la nostra vita parla della preghiera e la preghiera parla della nostra vita; perché la nostra vita parla nella preghiera e la preghiera parla nella nostra vita. A pregare si impara, come impariamo a camminare, a parlare, ad ascoltare. La scuola della preghiera è la scuola della vita e la scuola della vita è il luogo in cui facciamo scuola di preghiera. Paolo al suo discepolo prediletto, Timoteo, quando gli insegnava o lo esortava e gli diceva: “Ricordati di tua madre e di tua nonna”. E i seminaristi, quando entrano nel Seminario, molte volte mi chiedevano: “Padre, io però vorrei fare una preghiera più profonda, più mentale…”. “Guarda, continua a pregare come ti hanno insegnato a casa tua. E poi poco a poco la tua preghiera crescerà così come la tua vita è cresciuta”. A pregare si impara, come nella vita.

Gesù ha voluto introdurre i suoi nel mistero della Vita, nel mistero della Sua vita. Mostrò loro mangiando, dormendo, sanando, predicando, pregando che cosa significa essere Figlio di Dio. Li invitò a condividere la sua vita, la sua intimità e, mentre stavano con Lui, fece loro toccare nella sua carne la vita del Padre. Fa loro sperimentare nel suo sguardo, nel suo camminare, la forza, la novità di dire: “Padre nostro”. In Gesù questa espressione “Padre Nostro” non ha il “retrogusto” della routine o della ripetizione. Al contrario ha il sapore della vita, dell’esperienza dell’autenticità. Egli ha saputo vivere pregando e pregare vivendo, dicendo: Padre nostro.

E ci ha invitato a fare lo stesso. La nostra prima chiamata è quella a fare esperienza di questo amore misericordioso del Padre nella nostra vita, nella nostra storia. La sua prima chiamata è a introdurci in questa nuova dinamica dell’amore, della filiazione. La nostra prima chiamata è quella ad imparare a dire “Padre nostro”, come Paolo insiste: “Abbà”.

“Guai a me se non evangelizzassi!”, dice Paolo, guai a me! Perché evangelizzare – prosegue – non è una gloria ma una necessità (1 Cor 9,16).

Ci ha invitato a partecipare alla Sua vita, alla vita divina: guai a noi, consacrati, consacrate, sacerdoti, seminaristi, vescovi, guai a noi se non la condividiamo, guai a noi se non siamo testimoni di quello che abbiamo visto e udito, guai a noi. Non vogliamo essere dei funzionari del divino, non siamo né desideriamo mai essere impiegati dell’impresa di Dio, perché siamo invitati a partecipare alla sua vita, siamo invitati a introdurci nel suo cuore, un cuore che prega e vive dicendo: Padre nostro. E cos’è la missione se non dire con la nostra vita, dal principio alla fine, come il nostro fratello vescovo che è morto stanotte, cos’è la missione se non dire con la nostra vita: Padre nostro?

A questo Padre nostro noi ci rivolgiamo tutti i giorni pregando e a cui diciamo in alcune di queste cose: non lasciarci cadere in tentazione. Gesù stesso lo fece. Egli pregò perché noi suoi discepoli – di ieri e di oggi – non cadessimo in tentazione. Quale può essere una delle tentazioni che ci possono assalire? Quale può essere una delle tentazioni che sorge non solo dal contemplare la realtà ma nel viverla? Che tentazione ci può venire da ambienti dominati molte volte dalla violenza, dalla corruzione, dal traffico di droghe, dal disprezzo per la dignità della persona, dall’indifferenza davanti alla sofferenza e alla precarietà? Che tentazione potremmo avere noi sempre nuovamente, noi chiamati alla vita consacrata, al presbiterato, all’episcopato, che tentazione potremmo avere di fronte a tutto questo, di fronte a questa realtà che sembra essere diventato un sistema inamovibile?

Credo che potremmo riassumerla con una sola parola: rassegnazione. E di fronte a questa realtà ci può vincere una delle armi preferite del demonio: la rassegnazione. “E che fa? La vita è così!” Una rassegnazione che ci paralizza, una rassegnazione che ci impedisce non solo di camminare, ma anche di fare la strada; una rassegnazione che non soltanto ci spaventa, ma che ci trincera nelle nostre “sacrestie” e apparenti sicurezze; una rassegnazione che non soltanto ci impedisce di annunciare, ma che ci impedisce di lodare. Ci toglie l’allegria, la gioia della lode. Una rassegnazione che non solo ci impedisce di progettare ma che ci frena nel rischiare e trasformare le cose. Per questo, Padre Nostro, non lasciarci cadere nella tentazione.

Che bene ci fa fare appello alla nostra memoria nei momenti della tentazione! Quanto ci aiuta osservare il “legno” con cui siamo stati fatti. Non tutto ha avuto inizio con noi, non tutto terminerà con noi; per questo, quanto bene ci fa recuperare la storia che ci ha portato fin qui.

E in questo fare memoria non possiamo tralasciare qualcuno che amò tanto questo luogo da farsi figlio di questa terra. Qualcuno che seppe dire di sé stesso: “Mi strapparono dalla magistratura e mi posero alla pienezza del sacerdozio per merito dei miei peccati. Me, inutile e interamente inabile per l’esecuzione di una tanto grande impresa; me, che non sapevo remare, elessero primo Vescovo di Michoacán” (Vasco Vásquez de Quiroga, Carta pastoral, 1554).

Con voi desidero fare memoria di questo evangelizzatore, conosciuto anche come “Tata Vasco”, come “lo spagnolo che si fece indio”.

La realtà vissuta dagli indios Purhépechas descritta da lui come “venduti, vessati e vagabondi per i mercati a raccogliere i rifiuti gettati a terra”, lungi dal condurlo alla tentazione dell’accidia e della rassegnazione, gli mosse la fede, mosse la sua vita, mosse la sua compassione e lo stimolò a realizzare diverse iniziative che fossero di “respiro” di fronte a tale realtà tanto paralizzante e ingiusta. Il dolore della sofferenza dei suoi fratelli divenne preghiera e la preghiera si fece risposta concreta. E Questo gli guadagnò tra gli indios il nome di “Tata Vasco”, che in lingua purépechas significa: papà. Padre, papà … abbà…

Questa è la preghiera, questa l’espressione alla quale Gesù ci ha invitati. Padre, papà, abbà, non lasciarci cadere nella tentazione della rassegnazione, non lasciarci cadere nella tentazione dell’accidia, non lasciarci cadere nella tentazione della perdita della memoria, non lasciarci cadere nella tentazione di dimenticarci dei nostri predecessori che ci hanno insegnato con la loro vita a dire: Padre Nostro”.




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