Una piazza festante ha salutato l’udienza generale di Papa Francesco. “Non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo”. “Non è automatico! – ha detto parlando a braccio il Vescovo di Roma “ tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, l’amore ha un’altra strada. Con intelligenza, ma qualcosa di più…”. Questo il fulcro dell’omelia del Santo Padre che ha sottolineato. “Ognuno deve guardare nel cuore se ha la fede in questa compassione di Dio, di Dio buono che si avvicina, ci guarisce, ci carezza. E se noi lo rifiutiamo, Lui aspetta: è paziente! Sempre accanto a noi”.
Ma ecco il testo integrale del suo intervento: “ Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi riflettiamo sulla parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37). Un dottore della Legge mette alla prova Gesù con questa domanda: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Gesù gli chiede di dare lui stesso la risposta, e quello la dà perfettamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Gesù allora conclude: «Fa’ questo e vivrai» (v. 28).
Allora quell’uomo pone un’altra domanda, che diventa molto preziosa per noi: «Chi è mio prossimo?» (v. 29), e sottintende: “i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?…”. Insomma, vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi.
E Gesù risponde con una parabola, che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Erano di fretta… Il sacerdote, forse, ha guardato l’orologio e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa… Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro…”. Vanno per un’altra strada e non si avvicinano. E qui la parabola ci offre un primo insegnamento: non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo. Non è automatico! Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’ intelligenza, ma anche qualcosa di più… Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Non dimentichiamolo mai: di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio.
Ma veniamo al centro della parabola: il samaritano, cioè proprio quello disprezzato, quello sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla, e che comunque aveva anche lui i suoi impegni e le sue cose da fare, quando vide l’uomo ferito, non passò oltre come gli altri due, che erano legati al Tempio, ma «ne ebbe compassione» (v. 33). Così dice il Vangelo: “Ne ebbe compassione”, cioè il cuore, le viscere, si sono commosse! Ecco la differenza. Gli altri due “videro”, ma i loro cuori rimasero chiusi, freddi. Invece il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio. Infatti, la “compassione” è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze Lui le sente. Compassione significa “compartire con”. Il verbo indica che le viscere si muovono e fremono alla vista del male dell’uomo. E nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza. E’ la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi: Lui non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione. Ci viene vicino e non ci abbandona mai. Ognuno di noi, farsi la domanda e rispondere nel cuore: “Io ci credo? Io credo che il Signore ha compassione di me, così come sono, peccatore, con tanti problemi e tanti cose?”. Pensare a quello e la risposta è: “Sì!”. Ma ognuno deve guardare nel cuore se ha la fede in questa compassione di Dio, di Dio buono che si avvicina, ci guarisce, ci accarezza. E se noi lo rifiutiamo, Lui aspetta: è paziente ed è sempre accanto a noi.
Il samaritano si comporta con vera misericordia: fascia le ferite di quell’uomo, lo trasporta in un albergo, se ne prende cura personalmente e provvede alla sua assistenza. Tutto questo ci insegna che la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona. Significa compromettersi compiendo tutti i passi necessari per “avvicinarsi” all’altro fino a immedesimarsi con lui: «amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il Comandamento del Signore.
Conclusa la parabola, Gesù ribalta la domanda del dottore della Legge e gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La risposta è finalmente inequivocabile: «Chi ha avuto compassione di lui» (v. 27). All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro.
Questa parabola è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno! A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo”.
Il vero prossimo, ha evidenziato Papa Francesco, è chi si sa avvicinarsi a chi soffre. Un uomo mezzo morto sul bordo della strada, vittima di violenza, visto e ignorato da chi non poteva non soccorrerlo, fa crollare la facciata della carità presunta, svelando l’ipocrisia di chi si sente e dice di ardere per Dio ma ha cuore di ghiaccio per l’uomo che chiede aiuto.
La parabola del Buon Samaritano è una geniale creazione teologica di Gesù per insegnare, sotto forma di caso limite, la possibilità che le lontananze umane create anche da dissapori ed odi religiosi, possono risolversi in prossimità, grazie all’intervento della misericordia.
L’insegnamento contemporaneo a Gesù introduceva un’eccezione nella Legge dell’amore verso il prossimo: il nemico personale. Questo stesso insegnamento escludeva l’amore verso i gruppi religiosi etorodossi, quali i Samaritani. Un secolare odio faceva affrontare Giudei e Samaritani, senza possibilità di riconciliazione, a causa di presupposti teologici. In questo ambiente Gesù sviluppa una parabola nella quale contesta tutta quella situazione di esclusioni dall’amore per motivi religiosi. Il personaggio più importante, quello che riesce a superare una tale mentalità, non è un giudeo, ma è un samaritano.
Un vero e proprio insegnamento radicale quanto al contenuto e quanto alla forma. Radicale e scandaloso.
L’evangelista Luca ha creato un dittico letterario per integrare in un solo insegnamento globale il comandamento principale intorno all’amore al prossimo e al caso limite della misericordia del samaritano.
Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dives in Misericordia cita questa parabola insieme a quella del Figliol Prodigo come l’insegnamento parabolico più importante sulla misericordia.
Il precetto dell’amore al prossimo diventa misericordia quando l’oggetto di questo precetto è un prossimo qualitativamente differente: il nemico. La ragione di tale cambiamento qualitativo dell’amore in amore misericordioso sta in quanto segue. Nel nemico si danno realtà obiettive di ostilità e rigetto che secondo giustizia cambiano il prossimo in un soggetto da rigettare, tuttavia tali condizioni negative di ostilità e rigetto non eliminano la realtà fondamentale della fraternità umana. Allora, nel conflitto che pone l’uomo contro l’uomo, i motivi giusti di ostilità e rigetto debbono essere superati dall’amore. Ma tale superamento non si ottiene se non mediante l’intervento della misericordia che eleva l’uomo, ad un piano di amore al di sopra dei motivi giusti che ha per mantenere l’ostilità. Ecco che l’amore al nemico non può essere se non un amore misericordioso