Il caso di Valentina e quei media faziosi

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Donna di 32 anni e i suoi due gemellini che portava in grembo sono morti nel giro di poche ore. I familiari puntano il dito contro un medico obiettore del reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania che si sarebbe rifiutato di intervenire tempestivamente perché ‘medico obiettore di coscienza’”.

Questo il succo della notizia sparata sui media nazionali e locali in questi giorni. Perché ho la netta sensazione che le cose non stiano affatto così? E perché ho – di conseguenza – il sospetto che ancora una volta il dovere etico di informazione sia subdolamente manipolato per altri scopi?

Proviamo a ricostruire la notizia così come viene venduta dai media (nella fattispecie prendiamo “Repubblica” con il pezzo “Morta in ospedale con i due gemellini, a Catania gli ispettori del ministero” di Alessandra Ziniti ).

Valentina Milluzzo, 32 enne di Palagina, è deceduta domenica 16 ottobre all’ospedale Cannizzaro di Catania “dopo aver dato alla luce, prematuramente, ma ormai morti, i due gemellini che aspettava”. Valentina è stata ricoverata in ospedale in data 29 settembre 2016, cioè 17 giorni prima del decesso. I coniugi Canizzaro fanno subito una denuncia in procura contro il Canizzaro di Catania e il medico (presunto) obiettore di coscienza. Il legale della famiglia, l’avvocato Salvatore Catania Milluzzo, dichiara alcune cose sulle quali è interessante osservare alcuni dettagli. Su “Repubblica” si legge testualmente: “Quando la donna il 15 ottobre scorso entra in crisi – viene riportato – ‘dai controlli emerge che uno dei feti respira male e che bisognerebbe intervenire, ma il medico di turno si sarebbe rifiutato perché obiettore: ‘fino a che è vivo io non intervengo’, avrebbe detto loro. La stessa cosa avrebbe ripetuto, secondo l’esposto, sul secondo feto: ‘lo avrebbe fatto espellere soltanto dopo che il cuore avesse cessato di battere perché lui era un obiettore di coscienza’”. Notare i termini utilizzati: prima si parla di feti e poi si aggiunge che entrambi i gemellini stavano respirando. Ed è la prima cosa che non quadra. Se un bimbo respira è vivo, se non respira è morto. Solo nel secondo caso evidentemente si può usare il termine feto.

Altro punto che non quadra. “Repubblica” dimentica nella narrazione di evidenziare un fatto che riporta velocemente solo nel titolo dell’articolo in oggetto: “La donna al quinto mese di gravidanza grazie alla procreazione assistita era ricoverata all’ospedale Cannizzaro”. Ora, se la matematica non è una opinione, significa che Valentina era arrivata alla ventesima settimana di gestazione. Per legge – la legge 194 del 1978 – l’aborto è consentito nei primi 90 giorni di gestazione (cioè dal primo giorno dell’ultima mestruazione), che corrisponde in termini ecografici a 12 settimane e 6 giorni. L’interruzione di gravidanza può però essere praticata anche dopo i primi novanta giorni di gestazione. Si parla in questo caso di aborto terapeutico. A che condizioni? Secondo la legge l’interruzione terapeutica di gravidanza può essere praticata in due casi:

1. quando la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna.

2. quando siano presenti processi patologici, compresi quelli relativi a malformazioni o malattie del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

In entrambi i casi, deve essere un medico a certificare che esistono pericolo per la vita della donna, o condizioni fetali che mettano gravemente a rischio la sua salute, individuate grazie a esami come ecografie, amniocentesi, villocentesi. Entro quando può essere effettuata? La legge non specifica un termine preciso per l’aborto terapeutico, ma fa riferimento al fatto che questo deve avvenire prima che il feto abbia la possibilità di vivere autonomamente al di fuori dell’utero. Questo anche perché se il feto nasce vivo, la legge impone che debba essere rianimato, cosa che peraltro è uno dei punti considerati più controversi della legge, e contestato anche da chi in generale la ritiene una buona legge sull’interruzione di gravidanza. Poiché ci sono segnalazioni sporadiche di feti di 23-24 settimane che sono riusciti a sopravvivere, in caso di malattie o malformazioni fetali in genere si fissa questo termine a 22 settimane più 2-3 giorni. Può succedere però che una grave malattia o malformazione venga diagnosticata dopo le 22 settimane. L’interruzione terapeutica dopo le 22 settimane – e comunque quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto – è possibile in Italia solo nei casi in cui sia direttamente a rischio la vita della donna. Punto. In questi casi, però, le legge mette nero su bianco che “il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.

Ora. Se quanto sopra evidenziato corrisponde al vero, i fatti narrati in questa vicenda fanno sorgere altri dubbi. Si dice che “dopo una tardiva stimolazione, prima l’uno poi l’altro dei due gemellini sarebbero venuti alla luce ormai senza vita, probabilmente uccisi da un’infezione alla placenta che si è poi diffusa in tutto il corpo della mamma, uccidendola dopo un’agonia durata alcuni giorni”. Dunque – e lo abbiamo già sottolineato – i gemellini non erano feti. Anzi. Non solo. “La signora al quinto mese di gravidanza – sostiene il penalista – era stata ricoverata il 29 settembre per una dilatazione dell’utero anticipata. Per 15 giorni va tutto bene. Dal 15 ottobre mattina la situazione precipita. Ha la febbre alta che è curata con antipiretico. Ha dei collassi e dolori lancinanti. Lei ha la temperatura corporea a 34 gradi e la pressione arteriosa bassa. Dai controlli – aggiunge sempre l’avvocato della coppia – emerge che uno dei feti respira male e che bisognerebbe intervenire, ma il medico di turno, mi dicono i familiari presenti, si sarebbe rifiutato perché obiettore: ‘fino a che è vivo io non intervengo’, avrebbe detto loro”. Ora. Io sono io ad avere un deficit di comprensione dell’italiano oppure qui qualcuno sta giocando sporco. Da quando ad una gestante al quinto mese di gravidanza si somministra un antipiretico perché ha febbre? Non sono un medico, ma è evidente che un antipiretico (che è anche anticoagulante) certamente non aiuta i piccoli che stanno nella pancia della mamma. O no? La situazione della donna poi precipita, si fanno controlli ed emerge che i bimbi respirano male. Urge intervenire. E che significa intervenire in questo caso? Procedere a fare nascere i due bimbi che rischiano di morire a causa delle condizioni di salute della mamma. E voi pensate davvero che un medico obiettore di coscienza alla richiesta di intervenire con urgenza per fare nascere due bimbi a rischio risponda davvero “io non intervengo”? Me ne sfuggerebbero le ragioni di tale atteggiamento. Mi pare abbastanza evidente che la realtà dei fatti debba essere andata in maniera completamente differente. È abbastanza evidente che ci siano responsabilità pesanti da parte di tutta la catena di comando che avrebbe dovuto intervenire fin dall’inizio in maniera differente. Sono supposizioni, non ho le prove provate.

Ma di una cosa comincio ad essere certo. Sparare notizie in questo modo serve ad uno scopo ben preciso: attaccare i medici obiettori di coscienza per screditarli e pretendere che negli ospedali tutti i medici (e non solo) siano abortisti o comunque favorevoli all’interruzione di gravidanza.

Tutta la seconda parte dell’articolo di “Repubblica” – guarda un po’ – non fa che dare gioco alla tesi che cerco di sostenere. “Un caso che desta particolare emozione in un’isola come la Sicilia in testa nella classifica dei medici ospedalieri obiettori di coscienza. Già oggi il sostituto procuratore al quale il procurartore Zuccaro ha affidato il casa iscriverà nel registro degli indagati i nomi di tutti i medici che hanno avuto in cura Valentina dal giorno del suo ricovero, il 29 settembre. Un atto dovuto per permettere loro di nominare legali e consulenti e partecipare all’autopsia che dovrà far luce sulle cause della morte. Solo dopo il corpo verrà restituito alla famiglia e Valentina potra’ essere sepolta dopo quel funerale che due giorni fa la magistratura ha impedito proprio per l’effettuazione dell’autopsia”. E giù un bel Dossier dal titolo “Aborto, legge 194 e medici obiettori: ecco i dati regione per regione” con tanto di mappe, numeri e dati per evidenziare che insomma, adesso basta con questi obiettori di coscienza, perché si lede il diritto della donna ad abortire. “I dati del ministero della Salute – spiega “Repubblica” – dicono che negli ultimi dieci anni il numero è aumentato del 12 per cento. In alcune regioni poi, la quasi totalità dei ginecologi si dichiara obiettore di coscienza”. Ed ecco confezionata la vera notizia da dare in pasto alla gente.

Passa in cavalleria tutto ciò che poi “Repubblica” aggiunge all’articolo. Intanto si scopre che “dai primi esami sulla cartella clinica non risulta che il medico dell’ospedale Cannizzaro si sia dichiarato obiettore di coscienza”. Poi. “Per i magistrati la ricostruzione dei familiari della vittima ‘al momento non trova alcun riscontro’ in un atto ufficiale e documentale, qual è la cartella clinica”. Poi. “Il primario di Ginecologia dell’ospedale Cannizzaro Paolo Scollo nega tutto: ‘Non esiste l’obiezione di coscienza in un aborto spontaneo – dice -, la signora prima ha abortito e poi è stata male. E nessuno dei miei medici ha mai pronunciato quelle parole. È tutto falso’”. Questa poi è grossa bene. Ma che caspita sta dicendo il primario di Ginecologia? Un aborto spontaneo? Anche il manager dell’ospedale Cannizzaro, Angelo Pellicanò, non è da meno: “Non c’è stata alcuna obiezione di coscienza da parte del medico che è intervenuto nel caso in questione, perché non c’era un’interruzione volontaria di gravidanza, ma obbligatoria chiaramente dettata dalla gravità della situazione”.

Insomma, non c’è un elemento che quadra in questa narrazione dei fatti. È evidente che troppi stanno raccontando mezze verità e che, invece, ciò che si vuole insinuare chiaramente nei lettori è che il diritto della donna ad abortire deve essere sempre e comunque e in ogni caso soddisfatto. E per soddisfarlo, occorre ridurre drasticamente medici, anestesisti e infermieri obiettori di coscienza.

È un film che abbiamo già e troppe volte visto. Il 3 agosto 2016 il Tar del Lazio ha depositato una sentenza (la numero 8990 del 2016) che stabilisce che nei consultori pubblici del Lazio non ci possano essere obiettori di coscienza: i medici che lavorano in queste strutture devono garantire alle donne che scelgono di abortire i certificati necessari per l’operazione; inoltre non possono opporsi alla prescrizione dei contraccettivi, compresi quelli di emergenza (la cosiddetta “pillola dei cinque giorni dopo” e la “pillola del giorno dopo”). Sentenza – è utile ricordarlo – che viene emessa a seguito dei ricorsi presentati in relazione al decreto sulla riorganizzazione dei servizi medici per la salute delle donne deliberato nel giugno del 2014 dal presidente del Lazio Nicola Zingaretti. Nel decreto si diceva che se per legge un medico poteva essere un obiettore e dunque rifiutarsi di praticare un’interruzione volontaria di gravidanza, all’interno dei consultori familiari i medici non potevano sottrarsi ai loro compiti di assistenza e di cura.

Vorrei sommessamente ricordare che il Consiglio d’Europa, organo differente dall’Unione Europea e dalle sue istituzioni, garante della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha recentemente emesso una risoluzione a favore dell’Italia sulla gestione dell’obiezione di coscienza all’aborto. L’Italia era stata accusata davanti al Consiglio d’Europa dalla Cgil che lamentava l’applicazione dell’obiezione di coscienza come limitante per il ricorso all’aborto. Il Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa aveva accolto il ricorso nell’aprile del 2016. In realtà la natura giuridica del ricorso verteva i presunti carichi di lavoro per i medici non obiettori denunciati dalla Cgil. Tuttavia i dati riportati dal sindacato italiano erano vecchi e non attendibili. Secondo il Ministero della Salute ostacoli locali sono da attribuire a problemi organizzativi legati “a una distribuzione non adeguata degli operatori fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione”. I nuovi dati presentati dal Ministero hanno confermato che l’obiezione di coscienza, oltre ad essere inattaccabile dal piano giuridico e morale, non incide sul lavoro del personale sanitario non obiettore. La risoluzione licenziata a inizio luglio 2016 “prende nota delle informazioni fornite in seguito alla decisione del Comitato europeo dei diritti sociali e accoglie con favore gli sviluppi positivi intervenuti”.

L’obiezione di coscienza è un diritto legalmente riconosciuto non solo su basi confessionali ma anche etiche. E non si può ammettere che per non penalizzare i non obiettori lo siano di fatto gli obiettori. Secondo il Ministero ostacoli locali sono da attribuire a problemi organizzativi legati “a una distribuzione non adeguata degli operatori fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione”. Come risolverli? Se non è possibile seguire la strada dei concorsi riservati, si può far ricorso all’invocata mobilità coatta, dei ginecologi sia territoriali che ospedalieri? Anche questa andrebbe a ledere l’obiezione di coscienza, che deve essere sempre e comunque garantita. Per trovare una soluzione, ma soprattutto contrastare il dramma aborto, occorre ancora una volta chiedere a gran voce che siano finalmente applicati quei punti della legge 194/78, finora completamente disattesi, in favore della donna per “aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza“, come dovrebbe essere nello spirito di una legge che nel suo titolo parla in primis di “tutela sociale” della stessa, in nome del rispetto della vita umana.

Questo è il punto e il resto sono solo chiacchiere e distintivo. Non esiste il diritto ad abortire. Esiste il diritto a generare vita. Andiamo pure avanti con questa cultura di morte. Ma non sorprendiamoci però se l’Italia demograficamente sta letteralmente morendo. “È come se dal primo gennaio al 30 giugno di quest’anno a Roma non fosse nato neppure un bambino. Sale parto sbarrate, consultori vuoti, ecografi spenti negli ambulatori dei ginecologi: tutto chiuso – è lo stesso quotidiano “Repubblica” a scriverlo nello stesso giorno-. E ancora non basta. Nella capitale infatti in sei mesi vengono al mondo circa 12mila bambini, e nell’intero Paese durante lo stesso lasso di tempo del 2016 ci sono state 14.600 nascite meno dell’anno prima. Cioè si è avuto un calo mai registrato in epoca recente, del 6%. In numeri assoluti significa 221.500 nuovi nati contro i 236.100 di un anno fa.La riduzione della natalità già andava a passo sostenuto, ora sta diventando una corsa e i dati pubblicati ieri dall’Istat riguardo alla prima parte del 2016 disegnano un futuro davvero fosco dal punto di vista demografico. Se si proiettano i numeri disponibili per il 2016 su tutto l’anno ci si ferma tra i 450 e i 460mila nuovi italiani. Sono solo stime ma danno l’idea di cosa possa succedere nel giro di un lustro se si continua ad andare avanti di questo passo. Il cosiddetto ‘saldo naturale’, cioè la differenza tra nati e morti, l’anno scorso aveva toccato il rosso record di 162mila persone perché i decessi erano stati 647mila. Quest’anno il valore negativo sarà dovuto piuttosto al calo delle nascite, e potrebbe attestarsi tra i 120 e 130 mila cittadini in meno. Il secondo valore più alto da quando questa voce è finita in rosso, cioè dal 1983.

Suvvia, si faccia informazione vera, non pregiudiziale ed ideologica. E intanto tre persone sono morte: Valentina e i suoi due bimbi.




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