Arti marziali – “Sconfiggere il nemico senza combattere è l’abilità suprema”

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Arti marziali – C’era un medico di nome Shirobei Akiyama che aveva passato tanti anni a studiare i metodi di combattimento con l’obiettivo di scoprire il segreto dell’invincibilità. Aveva praticato varie discipline e conosciuto i migliori maestri ma, nonostante i roboanti proclami, alla fine in ogni sistema a prevalere erano la forza o la qualità delle armi o espedienti ignobili. Questo significava che, per quanto uno studiasse le arti marziali esercitandosi accanitamente, per quanto fosse forte o preparato, avrebbe sempre potuto incontrare un avversario più forte o meglio armato o più scaltro che alla fine l’avrebbe sconfitto.

Era una nevicata mai vista. Lo sguardo del medico si spostò per il giardino fino allo stagno, attorniato da salici piangenti.

Cedere per vincere

La neve si posava anche sui salici, ma non appena cominciava ad accumularsi i rami si piegavano, facendola cadere a terra. I salici, a differenza degli altri alberi, non si spezzavano. Assistendo a quella scena, Akiyama si rese conto di essere giunto alla fine della sua ricerca. Il segreto del combattimento era nella non-resistenza.

Jujutsu significa: arte della cedevolezza.

Il principio fondamentale del jujutsu – ma anche, con modalità diverse, di molte arti marziali come il judo, l’aikido, il karate, il Wing Chun – ha a che fare con l’uso della forza dell’avversario per neutralizzare l’aggressione e, in definitiva, per eliminare o ridurre la violenza del conflitto.

Se l’aggressore ti spinge, tu cedi, ruoti e gli fai perdere l’equilibrio; se l’aggressore ti tira, tu spingi e, allo stesso modo, gli fai perdere l’equilibrio. Non vi è esercizio di violenza non necessaria; la neutralizzazione  dell’attacco, lo squilibrio prodotto con lo spostamento e la deviazione della forza aggressiva hanno una funzione di difesa ma anche una funzione pedagogica. Essi mostrano all’avversario in modo gentile – diciamo: nel modo più gentile possibile – che l’aggressione è inutile e dannosa e si ritorce contro di lui. La neutralizzazione dell’attacco non implica l’eliminazione dell’avversario.

L’impulso naturale sarebbe di reagire con un enunciato uguale e contrario, dai toni altrettanto categorici e aggressivi. In sostanza: opporre alla violenza verbale della tesi altra violenza verbale uguale e contraria. Appena il caso di sottolineare che sono queste le modalità abituali dei dibattiti politici televisivi.

Una simile procedura non porta a nessuna eliminazione (o anche solo riduzione) del dissenso; esso al contrario ne risulta amplificato, quando non esacerbato.

Per verificare come sia possibile una pratica alternativa torniamo all’affermazione categorica del nostro immaginario interlocutore. Invece di reagire ad essa opponendo in modo ottuso forza a forza, possiamo applicare il principio di cedevolezza per ottenere il metaforico sbilanciamento dell’avversario. Esso è la premessa per una rielaborazione costruttiva del dissenso e per la ricerca di possibili soluzioni condivise, o comunque non traumatiche, e può essere realizzato in concreto con una domanda ben concepita, all’esito dell’ascolto; con una parafrasi, che mostri i limiti dell’argomento altrui; o anche con un silenzio strategico.

Accettare il conflitto

La gentilezza, la cedevolezza, la non durezza di cui stiamo parlando è dunque una sofisticata virtù marziale. È una tecnica, ma anche un’ideologia per la pratica e la gestione del conflitto.

Scrive Eraclito: “Pólemos di tutte le cose è padre, di tutte le cose è re: e gli uni rivela dèi, gli altri umani, gli uni rende schiavi, gli altri liberi” (fr. 53 [22], Dell’Origine).

Il conflitto è parte strutturale dell’essere e questo dato ci costringe a scendere a patti con l’idea che il modo in cui vediamo le cose non è l’unico possibile. La pratica della gentilezza non significa sottrarsi al conflitto. Al contrario, significa accettarlo, ricondurlo a regole, istruzione.

La gentilezza come metodo per la gestione dei conflitti – anche di quelli più accesi e violenti – serve a disattivare quei meccanismi.

L’uomo civile non rifiuta il conflitto. Lo accetta, invece, come parte inevitabile e proficua della complessità e della convivenza. Lo accetta e lo pratica secondo un sistema di regole, in una dimensione non distruttiva, umana. La gentilezza è una virtù marziale.

Il senso lo troviamo in questa frase di Gichin Funakoshi, fondatore del karate moderno (Karate-dō. Il mio stile di vita): “Sconfiggere il nemico senza combattere è l’abilità suprema”.

Questa impostazione ruota attorno all’idea di percezione dell’altro e alla ricerca di mezzi non traumatici di definizione dei conflitti.

Il concetto di gentilezza, nell’accezione di flessibilità, duttilità, non durezza, adattabilità, consiste – nella sua dimensione pratica come in quella teorica – essenzialmente nella percezione dell’altro e consente di ridefinire i criteri dell’azione politica.

Il primo passo per comprendere e poi padroneggiare nei suoi potenti risvolti pratici tale qualità sta nel superare il rifiuto, la difficoltà, la paura  di entrare in conflitto. La questione fondamentale infatti non è capire se il conflitto ci piaccia o meno. La questione fondamentale è capire che il mondo funziona attraverso il conflitto, ci piaccia o meno.

La tecnica (che non è solo tecnica, ha una dimensione concettuale, include un’idea del mondo) che dobbiamo imparare consiste nel trasformare il conflitto in energia positiva quando è possibile; evitarlo quando è impossibile; renderlo più breve e meno dannoso se è inevitabile e ingovernabile.

La forza dell’ascolto attivo

L’esperto di arti marziali quando si prepara a combattere non fa nulla. È attento, si muove per seguire i movimenti dell’altro, e da quei movimenti trae elementi per decidere come (re)agire se, e quando, sarà necessario.

Trasferendo questa attitudine al terreno del dialogo (di ogni genere e dunque anche politico): bisognerebbe imparare ad ascoltare con mente aperta, non influenzata dai pregiudizi,

dai preconcetti, dalle sovrastrutture. Tutti elementi che riducono, quando non aboliscono, la capacità di reagire con efficacia e in modo adeguato all’azione – cioè al discorso, all’argomento – dell’altro.

Gli esperti di negoziazione parlano di “ascolto attivo”, attribuendo al concetto di attività un duplice significato. Da un lato, più ovvio, si fa chiaramente percepire all’interlocutore che lo si sta ascoltando. Dall’altro, meno ovvio ma più profondo, l’ascolto attivo (allo stesso modo dell’attenzione del combattente) è un’attitudine percettiva vitale, in cui quello che si sente viene elaborato ma non valutato, non giudicato. Almeno fino a quando il contenuto non sia stato adeguatamente, completamente espresso.

Questa modalità di ascolto – che è una modalità sofisticata di interazione – ha a che fare con la capacità di mettere a silenzio l’ego, la sua invadenza, la sua rumorosità. Più ci lasciamo dominare dall’ego nelle nostre transazioni interpersonali, e in particolare in quelle che hanno a che fare con la politica e il potere in generale, più incrementiamo e inaspriamo l’inevitabile conflitto, invece di disattivarlo.

Testo è un estratto dal libro di Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio, pubblicato da Feltrinelli. Copyright Giangiacomo Feltrinelli Editore.