GIANCARLO DOTTO SUL RITIRO DI TOTTI E SUL DELIRIO COLLETTIVO ROMANISTA

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Vi avevo scritto in tempi non sospetti di come il saluto a Francesco Totti fosse un vero e proprio atto di idolatria. Dopo poche ore ecco i commenti di Mario Adinolfi e poi di Giancarlo Dotto che criticano fortemente una serata che ha fatto male a tanti.
Ecco le parole di Giancarlo Dotto riprese da Dagospia

La galleria dei Martiri di Trigoria si arricchisce di un altro pezzo da novanta, che è poi una replica. La testa lucida e offesa di Lucio Spalletti si aggiunge ai teschi arrivati nudi, imploranti e smunti alla meta, di Rudi Garcia e di Luis Enrique (“Che male ho fatto per meritare tutta questa merda!”), la maschera totemica di Zdenek Zeman chiuso a culo di gallina nella smorfia definitivamente museale del “quanto schifo” mi circonda, lo scalpo testaccino di Sor Claudio Ranieri, non ancora promesso divo planetario, lo Spalletti One.

Prima ancora, l’attonito e zagagliante faccione goriziano di Gigi Delneri, quello struggente per quanto stranito di Rudi Voeller, successivi alla fuga di giorno di Prandelli e a quella di notte di Fabio Capello, il più furbo di tutti.

L’horror “Non aprite quella porta”, ispirato alle gesta efferate del Barbablù che strangolava tutte le sue mogli, dopo averle sedotte e messe a contratto, potrebbe tranquillamente ispirare un sequel ai non meno sanguinari cancelli di Trigoria, estesi al pollaio audiovisivo della città, dove il barbuto mostro lo trovi equamente distribuito e clonato tra migliaia di cecchini a fucile spianato che si accaniscono ogni santo giorno dal loro trespolo, tigrotti da tastiera o cocorite microfonate.

L’ultimo fatto a pezzi, Spalletti, liquidato da questi scatarranti tribuni, gente inascoltata anche dal proprio barbiere, come un caso psichiatrico, solo perché, avendo marginalmente restituito la Roma più grande di sempre (togli le due scudettate di Liedholm e Capello), è finito incastrato in una storia più grande di lui e di tutti. E per aver mostrato in pubblico, all’addio, la sua difficoltà emotiva. Scandaloso mostrare le proprie ferite, non saperle magari raccontare con spartana freddezza, agli occhi di gente che probabilmente non sostiene nemmeno il dolore di un’emorroide.

Arriva Eusebio Di Francesco, ragazzo tosto e abruzzese, fino di testa, e già tutti, con la bava alla bocca, a valutare quanto tenere siano le sue carni, tra capo e collo, non portando il ragazzo con sé e su di sé alcun alone carismatico, di storia, di voce o di sembiante. Lo svantaggio, anzi, d’essere stato già recepito nel mattatoio romano come un appena discreto giocatore, un dimenticabile dirigente, un allenatore chissà.

Qualcuno già insinua e sentenzia, “un debole”. Il vantaggio enorme di arrivare, questo sì, alla fine, sembra, ma non ci giuro, di una guerra consumata, tra l’assurdo e il demenziale, nel nome di Totti, tra chi ha scoperto che tifare Roma non era la stessa cosa che tifare il Capitano e viceversa. Cose che capitano (solo a Roma). Complici un po’ tutti, diciamolo, per convenienza, viltà, insufficiente afflato con la strombazzata fede Roma.

Vittime predestinate gli allenatori, tutti, i dirigenti, tanti, nell’impossibile impresa di reggere il moccolo in questa sconfinata e incomprensibile altalena del non capire ciò che si ama e ciò che si odia. Di un finale (pessimo) di partita dove Totti e la Roma si sono scoperti nemici, prigionieri l’uno dell’altra. Non più liberi d’immaginarsi insieme e nemmeno separati.

Nel differire a oltranza un addio alla vita in quanto pallone, contro le leggi del tempo, si è divaricato lo scontro tra gli “ultras” che chiedevano di poter immaginare una Roma oltre Totti, e quelli che questo “oltre” nemmeno lo considerano, se non come bestemmia. Purtroppo, per la Roma degli ultimi anni, il primo a non sapersi immaginare altro e oltre da sé è stato proprio lui, Francesco. Al bivio della gigantesca, questa sì eroica, impresa di schierarsi contro di sé o a favore, ha scelto la seconda, diventare la testa silente (o ventriloqua, come dice Spalletti) dell’idolatria collettiva.

Tornando indietro, a mente fredda, lungo l’eco del canto del cigno, tra i gusci vuoti, gli spasimi e i sospiri, e le lacrime rapprese, diffuse e ingoiate in mondovisione, dello psicodramma che doveva essere e che è stato, tra Eschilo e Plauto, catarsi e farsa, qualcosa torna. Non tutto.

Commovente o esilarante, spassoso o spaventoso, fate voi, ognuno gioca qui la sua tastiera, l’Olimpico di domenica è stato il più grande raduno settario da decenni a questa parte, dai tempi del più spettacolare suicidio di massa della storia, quello della Guayana, quando Reverendo Jones istigò un migliaio di suoi seguaci ad abbandonare il mondo prima che il mondo li abbandonasse. Sostituisci “Totti” al “mondo”, scarica nella fornace la stessa immane quantità di pieno che manca e di vuoto che esiste, e il piattone isterico è servito.

Un prodigioso caso di suggestione collettiva che ha precipitato nella follia di un suicidio simulato tutto e tutti, partita inclusa. Il pifferaio magico di Hamelin non avrebbe saputo fare di meglio per trascinare i suoi incantati sorcini a farsi affogare, in questo caso dalle lacrime, surclassato nella favola di oggi dal Domus Cornuto, nel senso Diabolico, della Parola Virale. Che ha preso al laccio tutto il pianeta, da Maradona alla Boldrini, da Trudeau a Malagò, dalle mamme testaccine a quelle parioline, dal New York Times a Radio Sgurgola, passando per Porta Metronia.

L’Olimpico trasformato per cinque, sei ore, in una gigantesca sala parto. Mamma Roma, la stessa che aveva liquidato la morte del suo grande e non riconosciuto figlio, friulano di nascita, ma irriducibilmente amato e amante delle viscere romane, nel corpo e nel racconto, come l’”incidente di un frocio”, ha qui dilatato tutto il suo generoso, enorme, ventre di madre, del partorirai con dolore la nascita alias uccisione del figlio prediletto. Salvo poi scoprire che, di questi tempi, il massimo che puoi mettere al mondo è una gigantesca bolla, in pratica un attacco di morbillo. Gli eroi diventano bolle, è il segno dei tempi. A sgonfiarli basta un piccolo rutto sociale o un antibiotico.

E, mentre, nel nome di Totti, il ragazzo Francesco, un po’ travolto, un po’ compiaciuto, un po’ dispiaciuto, un po’ attonito, si trastulla col teschio del cosa fare della sua smutandata vita, la gente torna alle sue tane più vuota di prima, a riempire le sue sacche di lacrime. A mettere una candela a Padre Pio o due etti di pasta nell’acqua bollente, il concetto non cambia, la maglia neppure, numero dieci. Tutti a ritrovarsi “piccoli uomini”, e non perché lo dice Ilary.

http://m.dagospia.com/la-legnata-di-giancarlo-dotto-sul-ritiro-di-totti-e-sul-delirio-collettivo-romanista-148915




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