Papa Francesco tra speranza e guerra

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La speranza sia radicata nella fede non su rassicurazioni o ragionamenti. Abramo infatti crede contro ogni speranza, non vacilla. Si tratta di una speranza non fondata su rassicurazioni umane ma radicata nella fede. E anche a noi si rivela il Dio che salva. Dio ha risuscitato dai morti Gesù perché anche noi possiamo passare in Lui dalla morte alla vita ed essere un’umanità nuova: Tutto questo e è la Speranza cristiana (cfr Rm 4,16-25)

Queste le parole del Papa: “Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il passo della Lettera di san Paolo ai Romani che abbiamo appena ascoltato ci fa un grande dono. Infatti, siamo abituati a riconoscere in Abramo il nostro padre nella fede; oggi l’Apostolo ci fa comprendere che Abramo è per noi padre nella speranza; non solo padre della fede, ma padre nella speranza. E questo perché nella sua vicenda possiamo già cogliere un annuncio della Risurrezione, della vita nuova che vince il male e la stessa morte.
Nel testo si dice che Abramo credette nel Dio «che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,17); e poi si precisa: «Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo e morto il seno di Sara» (Rm 4,19). Ecco, questa è l’esperienza che siamo chiamati a vivere anche noi. Il Dio che si rivela ad Abramo è il Dio che salva, il Dio che fa uscire dalla disperazione e dalla morte, il Dio che chiama alla vita.
Nella vicenda di Abramo tutto diventa un inno al Dio che libera e rigenera, tutto diventa profezia. E lo diventa per noi, per noi che ora riconosciamo e celebriamo il compimento di tutto questo nel mistero della Pasqua. Dio infatti «ha risuscitato dai morti Gesù» (Rm 4,24), perché anche noi possiamo passare in Lui dalla morte alla vita. E davvero allora Abramo può ben dirsi «padre di molti popoli», in quanto risplende come annuncio di un’umanità nuova – noi! -, riscattata da Cristo dal peccato e dalla morte e introdotta una volta per sempre nell’abbraccio dell’amore di Dio.

A questo punto, Paolo ci aiuta a mettere a fuoco il legame strettissimo tra la fede e la speranza. Egli infatti afferma che Abramo «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18).
La nostra speranza non si regge su ragionamenti, previsioni e rassicurazioni umane; e si manifesta là dove non c’è più speranza, dove non c’è più niente in cui sperare, proprio come avvenne per Abramo, di fronte alla sua morte imminente e alla sterilità della moglie Sara.

Si avvicinava la fine per loro, non potevano avere figli, e in quella situazione, Abramo credette e ha avuto speranza contro ogni speranza. E questo è grande! La grande speranza si radica nella fede, e proprio per questo è capace di andare oltre ogni speranza. Sì, perché non si fonda sulla nostra parola, ma sulla Parola di Dio. Anche in questo senso, allora, siamo chiamati a seguire l’esempio di Abramo, il quale, pur di fronte all’evidenza di una realtà che sembra votata alla morte, si fida di Dio, “pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento” (Rm 4,21).

Mi piacerebbe farvi una domanda: noi, tutti noi, siamo convinti di questo? Siamo convinti che Dio ci vuole bene e che tutto quello che ci ha promesso è disposto a portarlo a compimento? Ma padre quanto dobbiamo pagare per questo? C’è un solo prezzo: “aprire il cuore”. Aprite i vostri cuori e questa forza di Dio vi porterà avanti, farà cose miracolose e vi insegnerà cosa sia la speranza. Questo è l’unico prezzo: aprire il cuore alla fede e Lui farà il resto.

Questo è il paradosso e nel contempo l’elemento più forte, più alto della nostra speranza! Una speranza fondata su una promessa che dal punto di vista umano sembra incerta e imprevedibile, ma che non viene meno neppure di fronte alla morte, quando a promettere è il Dio della Risurrezione e della vita.

Questo non lo promette uno qualunque! Colui che promette è il Dio della Risurrezione e della vita.

Cari fratelli e sorelle, chiediamo oggi al Signore la grazia di rimanere fondati non tanto sulle nostre sicurezze, sulle nostre capacità, ma sulla speranza che scaturisce dalla promessa di Dio, come veri figli di Abramo. Quando Dio promette, porta a compimento quello che promette. Mai manca alla sua parola. E allora la nostra vita assumerà una luce nuova, nella consapevolezza che Colui che ha risuscitato il suo Figlio risusciterà anche noi e ci renderà davvero una cosa sola con Lui, insieme a tutti i nostri fratelli nella fede. Noi tutti crediamo. Oggi siamo tutti in piazza, lodiamo il Signore, canteremo il Padre Nostro, poi riceveremo la benedizione … Ma questo passa. Ma questa è anche una promessa di speranza. Se noi oggi abbiamo il cuore aperto, vi assicuro che tutti noi ci incontreremo nella piazza del Cielo che non passa mai per sempre. Questa è la promessa di Dio e questa è la nostra speranza, se noi apriamo i nostri cuori. Grazie”.

Quindi al termine dell’udienza generale un forte appello del Pontefice per l’Iraq e il richiamo alla protezione dei civili di quella martoriata area di guerra. Il Vescovo di Roma ha sottolineato la ricchezza che la diversità delle religioni e delle etnie hanno sempre rappresentato per quella nazione.

“Invito a pregare affinché l’Iraq trovi nella riconciliazione e nell’armonia tra le sue diverse componenti etniche e religiose, la pace, l’unità e la prosperità. Il mio pensiero va alle popolazioni civili intrappolate nei quartieri occidentali di Mosul e agli sfollati per causa della guerra, ai quali mi sento unito nella sofferenza, attraverso la preghiera e la vicinanza spirituale. Nell’esprimere profondo dolore per le vittime del sanguinoso conflitto, rinnovo a tutti l’appello ad impegnarsi con tutte le forze nella protezione dei civili, quale obbligo imperativo ed urgente”.
L’appello del Papa ha fatto seguito all’incontro da lui avuto con il Comitato permanente per il dialogo che riunisce delegati del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso e le Sovraintendenze Irachene per sciiti, sunniti, cristiani, yazidi e sabei/mandei. A loro Francesco si era rivolto sottolineando la diversità e l’uguaglianza dei figli del “padre comune sulla terra: Abramo”. “Tutti diversi e tutti uguali – sono state le parole del Papa – come le dita di una mano: cinque sono le dita, tutte dita, ma tutte diverse”. Il dialogo, è dunque stato il richiamo, è una ricchezza di fratellanza ed è quindi la strada verso la pace”.

La situazione nel paese è tragica e giungono notizie allarmanti. Alcuni villaggi sono distrutti al 90%. Per far tornare i cristiani prima ci vogliono case, acqua, elettricità, cliniche e poi si penserà a rimettere in piedi le chiese.
A Teleskoff occupato prima dalle bandiere nere e poi dai combattenti curdi sono tornate 170 famiglie nelle ultime settimane. Il primo villaggio cristiano che rinasce. Altre 600 sono pronte a farlo, ma solo la chiesa le aiuta a ricostruirsi una vita. E all’orizzonte ci sono nuove minacce. All’ingresso di molti villaggi cristiani abbandonati sventolano le bandiere delle vittoriose milizie sciite, che vorrebbero espandersi nella zona di Ninive.

Ci sono tanti racconti che arrivano da quei luoghi martoriati.
Sui muri di Karamles sono ancora intatti i simboli e gli slogan delle bandiere nere come la scritta “oh Allah distruggi gli ebrei ed i cristiani”. La piccola chiesa di Santa Maria veniva usata come “bunker” dai miliziani jihadisti per ripararsi dai caccia alleati. Una madonnina è stata volutamente sfregiata portando via il volto e all’altezza del petto c’è il foro di un proiettile, come se fosse stata utilizzata per il tiro al bersaglio. Il sollievo arriva con il rintocco di una delle poche campane scampate alla furia jihadista.

A Qaraqosh, centro della cristianità di Ninive, i seguaci del Califfo hanno massacrato gli anziani, che non volevano andarsene e si rifiutavano di convertirsi all’Islam. La cattedrale dell’Immacolata concezione è devastata e annerita dal fuoco. In piedi sono rimaste solo le possenti colonne ed i cristiani hanno recuperato quello che resta dell’altare. Monsignor Cavina è il primo vescovo italiano a celebrare una toccante Messa nella chiesa violata per oltre due anni dalle bandiere nere. Nell’omelia ha sottolinea il “sacrificio” dei cristiani perseguitati in Iraq, ma pure il raggio di luce “dei simboli sacri che tornano al loro posto”.

Nella cattedrale gli jihadisti hanno fatto a pezzi pure la lapide di padre Ragheed Ganni martire delle fede a Mosul prima del Califfato. La guerra con le bandiere nere ha raso al suolo Betnaya un villaggio cristiano di 5mila anime. La feroce devastazione della chiesa di San Kiriaqos è un pugno nello stomaco. Si è salvata una grande croce arrugginita, ma l’altare l’hanno preso a martellate. E su ognuna delle antiche colonne che sostengono la navata i seguaci del Califfo hanno scritto con lo spray nero “Allah” o “Maometto”.
l cimitero a ridosso della chiesa di Santa Shemoni nel villaggio cristiano di Bartella è stato profanato. I seguaci del Califfo in cerca di oro, preziosi o per puro odio hanno divelto le tombe e scoperchiato le bare. In una delle casse di legno devastate si vede un teschio. Un crocefisso nel marmo è stato scalpellato via e sono rimaste intatte solo le braccia aperte di Cristo.

“È impressionante osservare questa atrocità. Non hanno avuto alcun rispetto, né dei morti, né dei simboli religiosi. Mi chiedo che male poteva fare una croce” ha raccontato monsignor Francesco Cavina. Il vescovo di Carpi invitato dalla fondazione pontificia Aiuto alla chiesa che soffre (Acs) si aggira attonito fra le tombe profanate. Nell’agosto 2014 di fronte alla fulminea avanzata delle bandiere nere dalla Siria, 132mila cristiani sono stati costretti alla fuga dalla pianura di Ninive. L’esercito di Baghdad ed i combattenti curdi hanno iniziato a liberare i loro villaggi solo dallo scorso novembre con l’offensiva su Mosul, la “capitale” dello Stato islamico in Iraq. I seguaci del Califfo si sono lasciati alle spalle immani distruzioni.
Ora è tempo di cercare di portare la pace in questi luoghi ma non sarà facile. Francesco lo sa ed è per questo che il suo appello è risuonato forte e chiaro in un primaverile mercoledi romano.




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