Il dramma di un assassinio imperdonabile

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Sono passati 7 mesi dall’orribile morte di Luca Varani, il 23enne seviziato e ucciso a Roma per un gioco perverso e malato. Com’è (cattivo) costume dell’industria culturale, in queste circostanze anche il dolore inflitto ai cari del morti appare destinato ad essere vivisezionato con morboso cinismo. La spettacolarizzazione del male è un dogma della liturgia massmediatica, che impone di inscenare una disputa fittizia orchestrata, secondo uno schema ormai consolidato, intorno alla contrapposizione tra i partigiani della misericordia e i propugnatori della giustizia, con i primi a invocare il perdono senza condizioni e i secondi ad appellarsi a punizioni assolutamente esemplari.

E così anche a mamma Silvana e a papà Giuseppe, i genitori di Luca, è toccata la domanda di rito: perdonate gli assassini di vostro figlio?

È bene ricordare come è morto Luca Varani, massacrato il 4 marzo scorso in un appartamento in via Igino Giordani. Luca fu torturato per ore da Marc Prato e Manuel Foffo, pieni di alcol e droga, e portato alla morte con centinaia di colpi di martello e di coltellate. Un delitto raccapricciante, perpetrato con sadica ferocia. Sulle armi del delitto i Ris hanno trovato una enorme quantità di sangue, tanto che è stato loro impossibile determinare chi tra i due avesse materialmente finito il giovane. Luca, che era fidanzato da 9 anni con Marta Gaia – volevano sposarsi, ha dichiarato il padre del ragazzo – è morto senza un movente. «Non so per quale motivo è morto mio figlio», confessa papà Giuseppe: «Hanno colpito a morte pure noi».

I genitori non riescono a perdonare gli assassini del figlio. Non temiamo di scandalizzare qualcuno se diciamo che un simile atteggiamento è profondamente umano. Inumano è qualcosa d’altro: è questa caccia giornalistica a strappare da anime ferite a morte perdoni che in simili circostanze sarebbero malsani quasi quanto le colpe che si chiede loro di perdonare.

La terra delle anime non è uguale per tutti. Un fisico straziato dalle ferite ha i suoi tempi di guarigione, che non sono gli stessi per tutti i corpi. Perché mai sanare le ferite dell’anima dovrebbe richiedere un tempo minore? Non è indice di barbarie questa petulante insistenza giornalistica? Di più: non è la massima impudicizia? È forse la peggior forma di volgarità spirituale: trattare le anime come cose.

Una società della trasparenza come la nostra è incapace di sopportare il peso del negativo, non sa reggere lo sguardo della sofferenza. Perciò tutto dev’essere immediatamente volto al «positivo». Viene da chiedersi se possa ancora dirsi umano un mondo che non concede a Priamo di piangere sul proprio figlio ucciso.

Poche cose come la spettacolarizzazione del dolore sviliscono tanto il senso del perdono, riducendolo a un superficiale tratto di penna – o a un filo di voce – che si presume capace di cancellare un debito, come se il delitto fosse una voce di bilancio. Non è così. Il vero perdono, ci dice Paul Ricoeur, è un perdono difficile, che prende sul serio la tragedia. Non si tratta di calcolare, ma di sciogliere dei nodi.

Invece che richiedere il perdono, esso andrebbe augurato. Il perdono libera dai nodi interiori che stringono l’anima nel dolore. La grammatica del perdono ha un potere liberante, possiede un potere di guarigione in grado di sanare le ferite più intime. In questo senso il perdono contiene un dono: la capacità di rigenerare interiormente. «Il perdono – scrive Gianfranco Ravasi – crea una nuova umanità, opera una sorta di ri-creazione». Il perdono non è una specie di oblio accettato passivamente, fa parte di un atto creativo e creatore: «Nell’atto di perdonare e dell’essere perdonato il cuore dei soggetti si trasforma. Nel perdono nulla è tolto del passato, esso viene trasformato». Supremo esempio e modello di perdono, «Dio Padre conosce tutta la storia, nulla toglie del passato ma tutto abbraccia trasformandolo».

Ancora peggiore è forse la mistificazione con cui vengono presentati in termini di secca alternativa, come poli contraddittori, gli atti del perdono e della punizione. Si ingenera il più classico dei falsi dualismi laddove tra perdono e punizione esiste in realtà un sostrato comune. E il termine intermedio sta nella misericordia.

Occorre però saper differenziare tra l’esercizio della vera misericordia e l’abuso della misericordia. Sarebbe fuorviante infatti pensare alla misericordia come a un laissez-faire morale o intravedere in essa uno spirito di indulgenza col male. È una pseudo-misericordia quella che porta a disattendere il comandamento divino della giustizia. L’agire misericordioso non consiste nel dispensare bontà a buon mercato. È piuttosto il compimento e il superamento della giustizia che, a propria volta, rappresenta il suo indispensabile presupposto. Precisamente quanto scorda l’indole pseudo-misericordiosa del buonista, tesa a tutelare più il carnefice della vittima. Tollerare l’ingiustizia pro bono pacis è, allo stesso modo, espressione di falsa misericordia.

Pertanto in ogni accenno alla misericordia è fondamentale ricordare il suo legame vitale con la giustizia, all’infuori del quale essa si tramuta in sentimentalismo zuccheroso, preludio della putrefazione dei costumi. Non c’è misericordia senza giustizia, ma è altrettanto vero che la giustizia senza misericordia conclude nella spietata crudeltà della vendetta. È così che vediamo nascere nuovi Shylock divorati dall’ardore di lucrare la propria libbra di carne. Due errori speculari si fronteggiano senza posa (è un’insidia che San Tommaso d’Aquino condensa in una formula mirabile: “iustitia sine misericordia crudelitas est, misericordia sine iustitia mater est dissolutionis”).

Sta bene, ma perché la misericordia esige talora di punire? Non è anche questo agire con crudeltà?

Per comprendere la necessità che associa pena e misericordia è utile, seguendo la via tracciata dall’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio nel suo penetrante opuscolo su “Corruzzione e peccato”, operare un sottile distinguo tra peccato e corruzione.

Si potrebbe dire che mentre il peccatore ha bisogno di perdono, il corrotto necessita di guarigione. Un cuore corrotto è anzitutto un cuore malato, affetto da una vera e propria cecità interiore. Ben peggio che peccare, infatti, è non vedere più il proprio peccato. È indice, questa cecità spirituale, di una volontà malata in radice, contrassegno di una coscienza anestetizzata, talmente rinserrata nella propria autosufficienza da non accorgersi del proprio stato di putrefazione.

Questo cumulo di resistenze interiori spiega l’ostinata impermeabilità di un cuore corrotto alla correzione fraterna. Ecco perché l’unico modo per sanare dalla corruzione passa sovente attraverso eventi traumatici. Pare che solo situazioni il cui prodursi è indipendente dalla propria volontà (malattie, perdite laceranti, sconquassi esistenziali, ecc.) consentano di spezzare la spessa schermatura di un’ossificazione corrotta e permettere così l’accesso della grazia.

A un animo sprofondato negli abissi di un cuore di tenebra non resta forse che questa via di salvezza.

Dice Simone Weil che «la punizione deve essere una imitazione di Dio». Punire non equivale ad annientare. Sarebbe blasfemo pensare al Creatore che vuole azzerare l’opera della proprie mani. Anche l’ira divina perciò è espressione di misericordia. Essere misericordiosi consiste nel provare afflizione per il male (fisico e morale) che ha afferrato un’altra creatura come se avesse colpito noi stessi. L’empatia è certo la base psicologica della misericordia. Ma non basta questo impulso a dare sostanza all’impeto della misericordia: deve anche originarsi e prendere forma, dall’afflizione, una ferma volontà di liberare dal male. Lo sguardo misericordioso è uno sguardo emancipatore, designa la volontà di affrancare il prossimo dalla schiavitù del peccato. L’uomo della misericordia pertanto è il vero liberatore.

Suonerà forse paradossale alle inflessibili corde del legalista, ma è proprio lì, nella misericordia, a trovare fondamento l’ira di Dio. Il Creatore non assiste silente e muto ai tentativi di autodistruzione messi in atto dalla propria creatura. Reagisce con forza per rammentarle il suo posto unico nella creazione, per ribadire la sua vocazione all’eternità.

Se ci accostiamo al criminale all’infuori di questo orizzonte «non abbiamo il diritto di punirlo», dice la Weil, e «gli si deve solo impedire di non nuocere».

Non è tanto la punizione ad essere svilita quando la si riduce a un decreto di ostracismo. Ad essere degradato è l’uomo, così parificato a esseri e oggetti privi di libera volontà. È limitante dunque assimilare la pena alla semplice espulsione dell’impuro dalla comunità umana. L’atto di punire smarrisce il suo significato profondo se trova ispirazione nel desidero di distruzione e nella brama di annichilimento. È vero il contrario: punire equivale a dare una possibilità di redenzione, è il tentativo estremo di reintegrare il criminale nella «rete di obblighi eterni che uniscono ogni essere umano a tutti gli altri».

Per questo la Weil si spinge a dire che «la punizione è un bisogno vitale dell’anima umana». Essa dispiega i suoi benefici nel momento in cui «la sofferenza si associa alla coscienza della giustizia». La punizione desta il sentimento di giustizia attraverso il dolore alla maniera in cui, per analogia, il musicista suscita il sentimento della bellezza attraverso il suono della melodia. È il metodo con cui la giustizia si fa strada nell’animo del delinquente passando per l’inevitabile sofferenza della pena.

Solo così la punizione si rivela un’incrollabile professione di fede nell’originaria positività della realtà. Sussiste nelle profondità insondabili dell’essere umano una densità sconosciuta, alligna in lui una sostanza positiva che non viene esaurita dai suoi atti. «Infliggere la punizione è dichiarare che al fondo dell’essere colpevole c’è un seme di bene puro. Punire senza questa fede – insiste la Weil – significa fare il male per il male».

Occorre guardarsi tanto dal legalismo quanto dal sentimentalismo, questi due idoli che si alimentano reciprocamente nella misura in cui si divorano vicendevolmente. Dobbiamo sforzarci di non spezzare in noi il vincolo organico tra misericordia e giustizia, per non oscillare tra la porta ostruita della crudeltà e la via spalancata della pseudo-bontà.

Si sfugge all’abuso solo addentrandosi nell’abisso della misericordia. Di modo che lo stesso amore che la giustizia ferita invita ad invocare la punizione sia anche quello che la misericordia infinita inclina a concedere il perdono.

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