Abrahim il primo bimbo ad ascendenza multipla

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C’è stata grande agitazione sui media dei giorni scorsi, tutti inebriati per la nascita del piccolo Abrahim Hassan, il “figlio di tre genitori”. Abrahim è il primo bimbo ad ascendenza multipla. Il bebé è stato “assemblato” in Messico da una équipe di New York guidata dal dottor John Zhang. Una operazione complessa, all’apparenza dettata anche da ottime ragioni. Ci si proponeva infatti di evitare che il piccolo ereditasse dalla madre la sindrome di Leigh, conosciuta anche come encefalopatia necrotizzante subacuta: una grave patologia, devastante per il sistema nervoso, che aveva già causato la morte dei primi due figli della coppia.

Il team di Zhang ha pensato così di sostituire il mitocondrio malato della donna con quello sano di una donatrice anonima. Il metodo che Zhang aveva pensato di adottare, la fecondazione assistita a tre (cioè con DNA proveniente da due donne e un uomo), è stata approvata nel 2015 in Gran Bretagna. Negli Usa però è vietata, e per questo l’operazione si è svolta in Messico dove, come dichiara Zhang a New Scientist, «non ci sono regole».

La fecondazione artificiale a tre è una tecnica messa a punto con lo scopo ben preciso di impedire che alcune malattie vengano trasmesse di madre in figlio. Conosciuta anche sotto il nome di “trasferimento pronucleare”, questa tecnologia biomedica prevede la distruzione di due embrioni per crearne un terzo e nuovo. In prima battuta si provvede a fecondare con lo sperma del padre i due ovociti della madre e della donatrice. Il passo successivo è la rimozione dei nuclei degli ovociti inseminati prima che questi comincino a suddividersi negli stadi embrionali iniziali. Col terzo passo il nucleo dell’embrione della donatrice viene scartato e sostituito con quello della madre.

La tecnica però non era gradita dalla coppia, una famiglia musulmana di origini giordane contraria alla distruzione di due embrioni. Zhang ha deciso allora di optare per un differente approccio chiamato “spindle nuclear transfer”. L’équipe medica ha rimosso così il nucleo di uno degli ovociti della madre inserendolo in una cellula uovo della donatrice (privato in precedenza del nucleo), la quale risultava così composta dal DNA nucleare della madre e da quello mitocondriale della donatrice. L’ovocita ricavato da questa operazione è stato poi fecondato col seme del padre. In questa maniera sono stati creati cinque embrioni, uno dei quali impiantato con successo nell’utero della madre.

Abrahim Hassan, il bimbo con tre DNA, è nato cinque mesi fa, spiega Zhang sempre a New Scientist del 27 settembre. Il suo team illustrerà i risultati dell’operazione durante il congresso dell’ASRM, sigla che sta per American Society for Reproductive Medicine (Società americana di medicina riproduttiva).

“Medicina riproduttiva” è un’espressione recente, che può includere la medicina comme il faut, quella che cerca di curare il malato ripristinando la salute dell’organismo. Ma che può includere pure, indifferentemente, la medicina eugenetica volta a “migliorare” l’umano.

Qual è il vero motore della medicina riproduttiva? La sua vera anima va ricercata negli interessi molto concreti del total business, più precisamente in quella nuova forma di economia nota come bioeconomia (o biocapitalismo).

Dovrebbe essere chiaro che nell’era del business biotech si punta diretti alla mercificazione della vita umana: la produzione di bambini a tre DNA non altro che è una tappa verso l’artificializzazione della riproduzione umana, dunque verso la sua disumanizzazione. Cos’altro può rappresentare la fabbricazione in laboratorio di persone figlie non tanto dei loro genitori quanto di una tecnologia?

Che cosa sia la bioeconomia ce lo spiega la sociologa Céline Lafontaine nel suo libro “Le corps-marché” (Seuil 2014): «La bioeconomia è l’idea che, in un mondo in cui la crescita rischia di essere rallentata dall’esaurimento delle energie fossili, il vivente è una nuova fonte di profitto. La possibilità di trasformare e manipolare il vivente permetterà di “proseguire la crescita”. In questo contesto i processi biologici nel loro insieme “devono essere sfruttati”. Gli organismi viventi sono considerati come una risorsa rinnovabile e non inquinante, grazie alla quale può continuare la crescita infinita… ».

Con la bioeconomia, afferma Lafontaine, siamo all’ultima frontiera del capitalismo. Ci troviamo nel cuore del processo di globalizzazione, nel pieno del nuovo modello di sviluppo economico promosso dall’OCSE, la potente Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. La nozione di bioeconomia è strettamente collegata all’ecologia e al modello delle decrescita. Nella sua prima versione essa dovette tenere conto di un limite imposto dal pianeta terra stesso: l’esaurimento delle risorse naturali. Sul piano storico infatti la bioeconomia è direttamente collegata alla crisi petrolifera dei primi anni ’70 e all’abbandono, sul piano monetario, del sistema aureo. È il momento in cui il rapporto del Club di Roma annuncia l’imminente esaurimento dell’energia fossile.

Di fronte a questo scenario gli Stati Uniti sono corsi al riparo sviluppando una nuova forma di economia in cui centro di tutto sono i processi viventi, le forme di vita, gli organismi. Già all’inizio degli anni ’80 in Usa si comincia a investire in maniera massiccia nel settore delle biotecnologie. È l’atto di nascita della bioeconomia, in cui si produce valore estraendolo direttamente dal corpo umano. Si inaugura così un nuovo modo di produzione che interessa tutti i settori economici (agricoltura, industria, sanità, ecc.). Oggetto di questa nuova economia sono i processi vitali, a livello genetico e cellulare, trasformati in maniera tale da poter essere commercializzati come “prodotti riproduttivi” o “rigenerativi”.

Nei primi stadi del capitalismo per ricavare profitto si doveva ricorrere alla forza lavoro degli operai. La bioeconomia non ne ha più bisogno giacché si fonda su un altro genere di sfruttamento: lo sfruttamento del vivente attraverso la manipolazione genetica, la manomissione dei processi cellulari e biologici. Nell’economia biocapitalista è la vita stessa la fonte della produttività economica.

C’è un legame stretto, insiste Lafontaine, tra l’economia iperfinanziarizzata di oggi (chiamata anche finanzcapitalismo) e la bioeconomia. Assieme alla dematerializzazione della moneta, avvenuta con l’abbandono del sistema aureo all’inizio degli anni ’70, si è prodotta una analoga dematerializzazione in rapporto alla natura, al corpo, sempre più assimilato a un’entità astratta, decomponibile e ricomponibile nelle sue parti originarie secondo combinazioni a piacere.

Certo, un mercato del corpo umano di fatto è sempre esistito fin dagli albori della medicina occidentale. Ma un tale mercato con la bioeconomia si è internazionalizzato, specialmente con lo sviluppo delle ricerche sulle staminali embrionali. L’industria della procreazione in vitro poi si è particolarmente concentrata sul corpo della donna. È stata questa industria a creare una domanda riproduttiva con le prime banche degli ovuli e le banche di sperma apparse in Usa negli anni ’80.

Il fenomeno oggi si è globalizzato. Il lavoro riproduttivo è stato esportato nel mondo: sottoposti alla legge della domanda e dell’offerta, gli ovuli delle donne di ogni continente si vendono e si esportano in tutto il globo. E in attesa dell’utero artificiale si affittano uteri al miglior offerente. In parallelo si è diffusa anche una ideologia giustificatrice – la falsa coscienza del biocapitalismo – impegnata a camuffare uno scambio commerciale dietro la retorica del dono (il dono della vita). Cercate in rete informazioni sui costi economici dell’operazione che ha portato alla nascita del bimbo con tre genitori. Troverete ben poco al di là delle frasi a effetto del dottor Zhang («salvare delle vite è la cosa etica da fare»). È un fatto che non sembra suscitare interesse. Eppure la ricerca di questo genere di informazioni dovrebbe essere il pane del giornalista. L’ideologia ha fagocitato anche l’informazione.

Sangue, tessuti, cellule, organi, ovuli, sperma, uteri: nella bioeconomia tutti gli elementi del corpo umano diventano l’oggetto di un traffico mercatile. Il corpo viene immesso sul mercato a pezzi, come in una macelleria. Sotto l’impulso delle tecnologie dell’informazione e delle biotecnologie si è prodotta la mercificazione del corpo parcellizzato.

Tutto ciò pone dei seri interrogativi etici. «Con gli organi siamo ai limiti dell’illecito», confessa Céline Lafontaine alla rivista “Les Inrocks”. Ci troviamo all’interno di «una forma di cannibalismo, in una forma di appropriazione dell’altro». Le donne in particolare risentono delle iniquità della bioeconomia, ipocrisia suprema di una società che ne proclama l’autonomia.

Un esempio di questa sperequazione si trova nel “dono” dei gameti. In alcun modo donare lo sperma equivale biologicamente a donare un ovulo, perché lo sperma è una risorsa rinnovabile laddove l’ovulo è una risorsa rara. Tutti sanno che il numero di ovociti è limitato alla nascita, essendo una dotazione che va ad esaurirsi nel tempo. Pertanto donare dello sperma o degli ovuli non è affatto la stessa cosa. Non ha le medesime ripercussioni sul corpo del donatore e della donatrice. E lo stesso può dirsi per l’intrusività delle operazioni necessarie a procurarsi l’uno o l’altro, ben differente nel caso del prelievo di ovuli.

La sociologa, riprendendo le tesi del filosofo Giorgio Agamben, parla di una inversione tra «zoé» e «bios». «Zoé» indica la nuda vita, la vita zoologica, nella sua oggettiva e brutale materialità; è quella componente vitale, organica, che accomuna la natura umana alla natura non umana. Il «bios» indica invece la maniera di vivere qualificata propria dell’uomo; è l’elemento che distingue la natura umana dalla natura non umana qualificando l’uomo come soggetto capace di pensiero (logos) e azione (praxis), facendone quell’essere non sovrastato dalle ferree e oggettive leggi della necessità naturale. «Bios» è pertanto la vita sociale, politica, economica.

Nell’epoca contemporanea sono i processi elementari della vita organica ad assumere un valore politico e economico. Assistiamo così al paradosso per cui più si soggettivizza il corpo, trasformandolo in un “progetto” su cui investire, più questo stesso corpo diventa un oggetto attraverso i suoi differenti prodotti. Il risultato è il corpo-mercato, un materiale biologico sottomesso alle stesse logiche di sfruttamento dell’industria manifatturiera.

È uno dei motivi per cui, aggiungiamo noi, è improponibile pensare di difendere la «zoé» sul semplice terreno del diritto naturale, cioè con una presenza pre-politica. Oggi il corpo umano – politicizzato (con l’ascesa dei «nuovi diritti») e al tempo stesso mercificato (con la bioeconomia) – rientra a pieno titolo nel campo della politica e dell’economia.

Nella bioeconomia ci troviamo immersi in un autentico «cannibalismo tecnoscientifico», nel senso che il corpo dei più poveri è destinato a nutrire il corpo dei più ricchi: «Il corpo delle donne più giovani e povere nutre il corpo delle donne in menopausa». È significativo che Jacques Attali, il banchiere e teorico del poliamore, abbia chiamato «ordine cannibale» questo sistema che collega medicina e salute al profitto economico.

A questo business si allaccia il capitolo della cosiddetta “medicina rigeneratrice”, che mira ad aggirare la penuria di organi da trapiantare attraverso i trattamenti a base di cellule. Cellule che non sono più oggetto esclusivo di sperimentazione essendo diventate esse stesse dei prodotti terapeutici. Con le cellule staminali embrionali, provenienti dall’industria della procreazione artificiale, ci muoviamo nell’ambito di quella che Lafontaine chiama una «economia della promessa, di speculazione».

L’idea di rigenerare il corpo nasce con l’annuncio, da parte della Banca Mondiale, di un rapporto sul legame tra la decrescita economica e l’invecchiamento della popolazione. È da allora che si investe nella medicina rigeneratrice, nella convinzione di poter vincere l’invecchiamento in quanto tale (considerato una specie di malattia, un morbo curabile). Il mercato si è legato così alla politica degli stati, intrecciando gli interessi privati agli investimenti pubblici in una branca della medicina che non riguarda altro che i ricchi.

La medicina rigeneratrice un tempo fu privilegio riservato ai dittatori e ai gerarchi degli stati totalitari. È noto ad esempio come la gerontocrazia a capo della DDR, la leadership più anziana al mondo, sopravvivesse iniettandosi cellule di pecore e dosi massicce di ossigeno. Ma anche oggi la medicina rigeneratrice, divenuta appannaggio dei facoltosi, non pare aver perso il suo carattere elitario.

Con la nascita del biocapitale il progredire della scienza medica diventa una funzione degli interessi finanziari e avanza in funzione delle opportunità commerciali. Il biotech ha lanciato un’OPA sulla vita umana. Si tratta di una cinica operazione commerciale che gioca sull’attrattiva esercitata dall’eugenetica “liberale”: un eugenismo privato, fondato sulla scelta individuale e sul libero mercato, che ha preso il posto della vecchia eugenetica novecentesca (coercitiva, collettiva, di stato). Non stupisce allora che il primo paese ad aver legalizzato la fecondazione a tre sia la patria del thatcherismo (il concepimento di bebé con tre DNA, approvato dalla Camera dei Comuni il 3 gennaio del 2015, si è avvalso dell’apporto fondamentale del voto conservatore).

Si illude pesantemente chi crede di vedere un argine a questa deriva nel liberalismo del “mercato” senza accorgersi di come questo cooperi invece col liberalismo dei “diritti” nello spalancare le porte della vita intima alle manomissioni della bioingegneria. È proprio la presenza del «cannibalismo tecnoscientifico» a testimoniare più di ogni altra cosa il turpe matrimonio tra Sade e Bentham, vale a dire l’alleanza tra la dittatura del desiderio propria del ‘68-pensiero (Sade) e l’utilitarismo proprio del capitalismo (Bentham). La ricerca del massimo di piacere combacia così con la ricerca del massimo di utile in una società di soggetti assoluti (come i protagonisti dei romanzi sadiani) impegnati a cannibalizzare senza posa una massa di esseri “cosificati”, ridotti all’utilità ricavabile dalle loro componenti fisico-energetico-materiali e, pertanto, considerati come materiale disponibile a ogni manipolazione.

«La bioeconomia», conclude la studiosa, «è lo stadio ultimo del capitalismo, siamo alla promessa di una rigenerazione infinita dei processi vitali». Qui non c’è colore politico o confessionale che conti per la prospettiva di Céline Lafontaine, una sociologa attenta alle ineguaglianze generate dal biocapitalismo. Per questo la distinzione tra conservatori di destra e liberali di sinistra le appare fuorviante: «Per me essere di sinistra non vuol dire militare per la fecondazione in vitro, che resta un’industria. Questo è fare del puro liberalismo. Quelli che manifestano per il diritto alla PMA non mettono mai in discussione le pressioni sulle donne, il modello di maternità… Accedere alle nuove tecnologie vuol dire reclamare l’accesso ad altri corpi. Che lo si voglia o meno, tutto questo riposa su un mercato. È da conservatori ricordare che esiste il maschile e il femminile? La surrogazione di maternità è una pratica di sfruttamento dello stesso ordine del lavoro minorile in Cina. Le madri surrogate sono sempre delle donne dominate, povere, che lo fanno sempre in cambio di denaro. Il dono di sé così si avvicina a un sacrificio».

Fabrice Hadjadj ce lo ripete senza sosta: “In vitro veritas” è la parola d’ordine dell’era del dematerialismo, il motto di un’epoca in cui anche la Chiesa combatte una battaglia su fronti rovesciati, sicché «essa, che è tempio dello spirito, appare sempre più come la guardiana della carne, del sesso, della materia stessa». (“L’aubaine d’être né en ce temps. Pour un apostolat de l’Apocaplypse”, p. 32)

Davanti a chi vuole scorporare l’esistenza umana occorre innalzare un’altra parola d’ordine: “In caro veritas”. La sola, questo vuole dirci Hadjadj, a essere degna dell’umano: la resistenza all’astrazione disincarnatrice del mondo bioeconomico passa attraverso la difesa della materia. Anche Céline Lafontaine, a suo modo, non fa che proporci l’adesione alla stessa mistica della carne. Come quando confessa di parteggiare per un «femminismo materialista» che consiste in questo: nel «prendere sul serio la materia del corpo». Ed è sempre, ci pare di poter dire, una istintiva difesa della carne a muovere la sua critica agli “studi di genere” che ci hanno portato a mettere tra parentesi la materialità del corpo («Farci credere a un’equivalenza del maschile e del femminile ci fa dimenticare che in realtà un ovulo non è come dello sperma»).

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