Tv – Netflix – Dal 15 Gennaio Ecco Acab

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ACAB, la serie in 6 episodi prodotta da Cattleya – parte di ITV Studios – sarà disponibile solo su Netflix dal 15 gennaio 2025.

 

Tratta dall’opera letteraria “ACAB” di Carlo Bonini edita in Italia da Giangiacomo Feltrinelli Editore, ACAB è ideata da Carlo Bonini e Filippo Gravino e scritta da Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, con lo story editing di Filippo Gravino.

 

La serie è anche ispirata al film “ACAB” prodotto da Cattleya con RAI Cinema e diretto da Stefano Sollima, che in questo progetto ricopre il ruolo di produttore esecutivo.

 

SINOSSI

 

Una notte di feroci scontri in Val di Susa. Una squadra del Reparto Mobile di Roma resta orfana del suo capo, che rimane gravemente ferito. Quella di Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante), però, non è una squadra come le altre, è Roma, che ai disordini ha imparato ad opporre metodi al limite e un affiatamento da tribù, quasi da famiglia. Una famiglia con cui dovrà fare i conti il nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), figlio invece della polizia riformista, per cui le squadre come quella sono il simbolo di una vecchia scuola, tutta da rifondare. Come se non bastasse il caos che investe la nuova formazione nel momento di massima fragilità interna, si aggiunge quello dato da una nuova ondata di malcontento della gente verso le istituzioni. Un nuovo “autunno caldo” contro cui proprio i nostri sono chiamati a schierarsi e in cui ogni protagonista è costretto a mettere in discussione il significato più profondo del proprio lavoro e della propria appartenenza alla squadra.

 

DESCRIZIONE PERSONAGGI

 

IVANO VALENTI aka MAZINGA (Marco Giallini)

Faccia da duro, affezionato al vecchio modo di fare Polizia, dove l’ordine si mantiene con la violenza. Ha uno spirito a suo modo “anarchico” nonostante la profonda appartenenza alla squadra. Mazinga è un uomo ruvido, ma sensibile; solo, ma dignitoso, che trova nella cura delle proprie piante la migliore terapia. L’incidente di Pietro gli farà mettere in discussione i sacrifici fatti per il proprio lavoro, facendogli scorgere che forse ci può essere una vita fuori dalla Polizia.

 

MICHELE NOBILI (Adriano Giannini)

Padre di famiglia di origine romana, ha vissuto molti anni a Senigallia, lontano da moglie e figlia, facendo il pendolare, prima di tornare stabilmente a Roma. Michele è rappresentante di una polizia nuova e democratica, che segue le leggi senza abbandonarsi alla violenza fine a sé stessa. Ha fatto carriera col sudore della fronte, ha idee liberali e vede nell’ordine l’unico vero argine al caos. Le sue convinzioni e i suoi ideali, però, vacilleranno nel momento in cui questo caos travolgerà la sua famiglia e la sua vita privata.

 

MARTA SARRI (Valentina Bellè)

Madre single di una ragazzina di 13 anni, Marta è una delle poche donne del Reparto Mobile. È a suo agio in quell’ambiente fortemente maschile, dove si fa rispettare e dove ha trovato delle persone su cui può contare, in particolare sul collega Salvatore. È a casa che Marta fa più fatica a gestire la sua vita: vuole passare più tempo con la figlia e vuole tenerla lontana dall’ex-marito con cui ha avuto una relazione turbolenta, ma il caos che dilagherà dopo l’incidente in Val di Susa rischierà di farle perdere tutto. 

 

SALVATORE LOVATO (Pierluigi Gigante)

Veterano, ha combattuto nel Kurdistan Iracheno prima di unirsi al Reparto Mobile che è diventato la sua ragione di vita, tanto che è l’unico a vivere negli alloggi della caserma. Metodico e attento al proprio fisico, si allena tutti i giorni ed è marziale, quasi ossessivo, nel provare a prendersi cura di sé. Eppure Salvatore è incapace di intrattenere le più semplici interazioni sociali al di fuori della caserma, al punto da essere finito in una relazione a distanza con una donna che non ha mai visto.

 

PIETRO FURA (Fabrizio Nardi)

Il vero caposquadra, romano e romanista, Pietro è un “fratello” di Mazinga, affezionato al vecchio modo di fare polizia e contrario alle nuove idee liberali che i politici cercano di far entrare nel Reparto Mobile. Perché per Pietro è tutto o bianco o nero, o sei con lui o contro di lui. L’incidente in Val di Susa lo obbligherà a lasciare la Polizia, a cui aveva dato tutto, e a fare i conti con una vita al di fuori del lavoro per lui senza senso e con una moglie ormai stufa del loro matrimonio.

 

NOTE DI REGIA

di Michele Alhaique

 

Quando mi avvicino a delle nuove storie cerco sempre di individuare i conflitti che sono al centro del racconto. 

Quello che mi è saltato subito agli occhi leggendo i primi copioni di ACAB è il lavoro che gli autori avevano fatto per mettere a fuoco il rapporto tra la professione e la vita privata dei personaggi. Si tratta di una relazione bidirezionale. Per sua natura, il lavoro del celerino è continuamente esposto a situazioni emotivamente e fisicamente traumatiche. Abbiamo provato a raccontare le ripercussioni che provengono da una parte e dall’altra e l’impatto che ne deriva. Come può un poliziotto lasciare alle spalle i propri conflitti privati quando si trova in prima linea dietro a uno scudo di fronte a centinaia di antagonisti? ACAB è una serie che mette al centro i personaggi, sono loro che veicolano la storia fin dal primo fotogramma. È la frustrazione privata di Pietro (“Mia moglie s’è rotta il cazzo!”) a far sì che usi la mano pesante contro gli antagonisti in Val di Susa? O si tratta invece del suo modo di gestire l’ordine pubblico? Nascono prima i conflitti interiori o quelli esteriori? La violenza è un tema che ho sempre provato ad esplorare nei miei lavori. In ACAB la violenza viaggia su due binari paralleli, c’è quella visibile, fisica, messa in scena negli scontri. Poi c’è un’altra violenza, che viaggia più sotterranea e minacciosa, che condiziona in maniera più profonda i personaggi e le loro relazioni. Ognuno di loro affronta un percorso privato che lo porterà a scontrarsi con i propri affetti e saranno questi conflitti a influenzare le azioni che compiranno con la divisa addosso.

Mi sono interrogato a lungo su come potessi mettere al centro del racconto seriale una squadra del reparto celere. La serialità di genere si appoggia troppo spesso a personaggi che rischiano di diventare cliché o di costruire dinamiche con tono retorico. E questa possibilità mi spaventava moltissimo. Per riuscire a evitare ciò era necessario provare a vedere cosa c’è  oltre la divisa. I quattro protagonisti (nati dalla penna di Gravino, Bonini, Dondi, Giordano e Pellegrini), ma di fatto l’intera squadra che raccontiamo, composta da dieci elementi, mi hanno dato la possibilità di indagare da vicino un mondo chiuso, con le sue regole, impossibili da decifrare se non avvicinandosi a piccoli passi e mettendo da parte il giudizio. Ho cominciato a lavorare con gli attori e a ragionare sulle relazioni dei loro personaggi e sui loro conflitti. Questo processo iniziato prima delle riprese mi ha permesso di vedere con quale lente avrei potuto portare il racconto in una sfera più intima. 

Qual è il limite al quale si può arrivare prima che la violenza esercitata e vissuta quotidianamente possa arrivare ad anestetizzare le emozioni? E, questo processo, è una forma di difesa inevitabile per sopravvivere in quel ruolo? Come si arriva a disumanizzare l’antagonista che si ha di fronte?

La serie non si pone l’obiettivo di dare delle risposte ma proverà a portare lo spettatore dentro questo mondo affinché, attraverso le storie di questi personaggi, possa anch’esso porsi le stesse domande.

 

NOTE DI PRODUZIONE

di Riccardo Tozzi (Fondatore e CEO di Cattleya)

 

ACAB e Cattleya hanno una storia. Che nasce dal libro di Carlo Bonini, dal suo saper fare del mondo quotidiano un racconto, e cresce dentro lo sguardo unico, forte, del primo film di Stefano Sollima. Oggi questa storia arriva alla serialità, grazie a quel gioco magico tra letteratura, grande e piccolo schermo, che Cattleya ha sempre molto amato.

 

Abbiamo creduto a questa nuova veste di ACABfin dal primo momento in cui ne parlammo con Netflix, che eravamo certi fosse il compagno giusto per quest’avventura. Abbiamo condiviso subito l’obiettivo di una serie fortemente moderna dove i canoni del genere d’appartenenza scorrono dentro nuovi angoli d’osservazione su un mondo che si pensa di conoscere.

 

ACAB racconta quindi le missioni di un Reparto Mobile la cui fama è seconda a nessuno quando si parla di ordine pubblico da mantenere. Ma ci permette anche di sbirciare dietro le quinte di questa arena pubblica. Sono quinte fatte di vite private, in cui il disordine fagocita tutto e richiama sentimenti e bisogni primari in cui sembra possibile riconoscersi. 

Non c’è in questo racconto un’ambizione giudicante. Quello che ci ha convinto fin dall’inizio, nella prospettiva di Gravino e Bonini, è stata la possibilità di dar vita ad un mondo al centro del quale piazzare una sedia, dove lo spettatore potesse sedersi, guardare e magari sentirsi un pò scomodo, tanto nell’empatia inattesa, quanto nella critica più nera. 

Che poi è quello che compete ad ogni storia che ci piace: lasciare un’emozione, un pensiero nuovi. Di qualunque natura siano.

 

Anche per questo, quando dovevamo trovare il regista adatto a questa sfida, abbiamo pensato immediatamente a Michele Alhaique. 

Michele ha non soltanto un talento evidente, una visione personale ed autentica, ma anche una sensibilità distinta per il racconto dei personaggi, che sposa perfettamente questo desiderio di ritratti psicologici al limite. Il suo modo di rappresentare questo mondo è fortemente originale e ha valorizzato moltissimo anche gli sforzi produttivi più importanti, che sono un altro elemento fortemente  riconoscibile della serie.

 

Mazinga, Michele, Marta, Salvatore e i loro compagni di squadra combattono continue battaglie, interne ed esterne. Si destreggiano tra ordine e caos e ci dimostrano quanto le nostre certezze siano gemelle delle nostre paure e quanto il bisogno di arginare queste ultime sia uno dei più potenti motori dell’animo umano e del suo bisogno di raccontarsi e di immaginare. 

 

NOTE DI NETFLIX 

di Tinny Andreatta (vicepresidente per i contenuti italiani) 

 

Quando abbiamo iniziato a lavorare con Cattleya all’adattamento del libro di Carlo Bonini, ACAB All cops are bastards, (già adattato in un film diretto da Stefano Sollima che della serie è produttore esecutivo) lo abbiamo sentito come un progetto necessario e urgente. 

 

Questa serie non è solo una storia crime e di azione: è uno sguardo profondo su un sistema complesso e polarizzato, in cui violenza, rabbia repressa e disillusione mettono alla prova tanto i poliziotti quanto la società che li circonda.

 

L’approccio adottato è moderno e fortemente incentrato sui personaggi, con l’obiettivo di esplorarne le contraddizioni interiori e il contesto sociale che alimenta tensioni e incomprensioni. La narrazione intreccia momenti di intensa azione con riflessioni intime.

 

La regia di Michele Alhaique contribuisce in modo decisivo a raccontare l’umanità lacerata dei protagonisti, attraverso un linguaggio visivo di grande impatto. La scelta della fotografia riflette le ombre interiori dei personaggi, mentre la macchina da presa esalta la qualità dell’impianto produttivo, creando un racconto che è al tempo stesso visivamente suggestivo ed emotivamente coinvolgente.

 

Cattleya porta in questo progetto tutta la sua esperienza nella creazione di grandi serie basate sui film da loro prodotti, come accade in questo caso. 

 

Il team creativo, dalla scrittura alla regia, ha lavorato con un cast di talento che include Marco Giallini (nel ruolo del Mazinga già interpretato nel film di Sollima), Adriano Giannini, Valentina Bellè, Pierluigi Gigante e tutti gli altri interpreti. L’obiettivo è quello di umanizzare i protagonisti, andando oltre gli stereotipi per mostrare le loro fragilità, la vulnerabilità e i conflitti interiori che li definiscono.

 

Questo progetto risponde alla nostra strategia editoriale di proporre narrazioni innovative, coraggiose, profonde e coinvolgenti, che sappiano intrattenere e al tempo stesso stimolare una riflessione più ampia, grazie ad una produzione che si contraddistingue per la qualità del talento davanti e dietro la macchina da presa.

 

NOTE DEGLI AUTORI

di Filippo Gravino e Carlo Bonini

 

Due sono i temi che scatenano i conflitti del nostro racconto: ordine e caos. A moderare questa antinomia le società moderne utilizzano due forme di controllo: la legge e la morale. Necessarie a tracciare una linea di confine. Da una parte c’è tutto ciò che è lecito, giusto o semplicemente accettato dalla società: amore, famiglia, aspirazione alla felicità, libertà individuale, rispetto degli altri. Dall’altra parte c’è il caos, tutto ciò che è al di fuori della legge e della morale: illegalità, tradimento, violenza, vendetta. La domanda tematica dalla serie attraversa i due piani, quello sociale e quello individuale. 

Ci chiediamo: quanto disordine può permettersi una società democratica? Mentre, sul piano individuale, quanto caos siamo in grado di governare nelle nostre vite? 

I celerini non sono poliziotti come gli altri. Non indagano, non arrestano ladri e spacciatori. I celerini sono come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. Sono gli uomini scelti dallo Stato per presidiare quel confine sottile e oscuro, quella zona d’ombra, che chiamiamo genericamente “piazza”, sia questa il centro storico di una città, una discarica, un cantiere, i cancelli di una fabbrica, il molo di un porto, uno stadio.  Sono la faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato offre di sé. In questo spazio, la legge viene spesso interpretata e declinata secondo sentieri imponderabili, nel bene e nel male, e i patti sono, anche se discutibili, molto chiari. 

I nostri poliziotti, le cosiddette “forze dell’ordine”, sono pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta faticosamente di espungere da sé. Sono i prescelti a fronteggiare la minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il proteggersi l’uno con l’altro. Questo è l’unico modo per sopravvivere. Così facendo, è possibile, per loro, vivere senza lasciare che sentimenti oscuri che provano nei servizi di ordine pubblico, contagino poi le proprie esistenze quotidiane? 

I poliziotti si trovano, così, prigionieri di esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco rapporto. La nostra serie indaga le conseguenze umane e sociali di questa pericolosa scissione. 

Il vero problema per i palombari è tornare a casa. 

 

NOTE DEL DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA

di Vittorio Omodei Zorini

 

L’impostazione fotografica di ACAB nasce dall’esigenza di raccontare un mondo che rispecchi la complessità dei personaggi, costruendo un’estetica vicina alla realtà ma non rigidamente legata al realismo. Il linguaggio visivo punta a valorizzare, attraverso la luce e la sua assenza, le solitudini e le fragilità dei protagonisti, inserendoli in contesti in cui l’illuminazione è spesso subita più che scelta, e mai pienamente sotto il loro controllo.

Negli interni, la luce proviene quasi esclusivamente dall’esterno, anche di notte lampioni o insegne influenzano gli ambienti in modo invasivo, rafforzando il senso di alienazione. Nella caserma l’illuminazione è volutamente più cruda e impersonale, priva di sensibilità verso le esigenze di chi vive quegli spazi, sottolineando un’atmosfera che, a seconda della drammaticità della scena, può arrivare ad essere quasi opprimente. I personaggi spesso si muovono nella penombra della società.

L’uso dei toni caldi è stato deliberatamente reinterpretato: anziché creare ambienti accoglienti spesso costruiscono atmosfere ambigue e inquiete, ribaltando le aspettative tradizionali. Le luci però sono tendenzialmente morbide e prive di ombre nette per far sentire una maggiore vicinanza emotiva nei confronti dei personaggi nel racconto delle sfumature delle loro vicende senza giudizi morali, ma con empatia verso la loro umanità. 

L’intero progetto fotografico mira quindi a creare un racconto visivo che non solo accompagni la storia, ma che ne amplifichi il significato, collocandosi nel delicato equilibrio tra luce e oscurità, nel tentativo di valorizzare la condizione umana dei personaggi nel loro difficile quotidiano.

Dal punto di vista tecnico, le riprese sono state effettuate con macchine da presa Arri Alexa 35 e lenti Master Prime, strumenti scelti per la loro eccellente resa visiva e la capacità di gestire al meglio condizioni di bassa luminosità.

 

NOTE DEI COMPOSITORI DELLE MUSICHE ORIGINALI 

dei Mokadelic

 

La musica composta dai Mokadelic per la serie ACAB si configura come elemento narrativo a sé, capace di evocare emozioni personali e di assumere il ruolo di un protagonista aggiuntivo nella storia. Non si limita a fare da accompagnamento ma è una musica che racconta. 

La colonna sonora prende vita con una pulsazione che diventa il “battito cardiaco” della serie. Questo ritmo costante scandisce il tempo che passa, fungendo da loop, intrecciandosi con la narrazione, alternando momenti di drammaticità, intensità emotiva e atmosfere distopiche. 

La sperimentazione sonora si sposa con una cura meticolosa per i dettagli, dando vita a una colonna sonora che si muove a cavallo tra elettronica e sonorità più classiche. Il risultato è un’esperienza musicale capace di mantenere una tensione incessante dal primo all’ultimo fotogramma. Questa tensione non concede tregua ai protagonisti né alle loro vicende, li intrappola in una spirale claustrofobica, dove nulla trova una soluzione e tutto sembra precipitare in un abisso di inquietudine costante




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