Papa – Durante la celebrazione eucaristica ad Atene, nella “Megaron Concert Hall”, Papa Francesco indica un luogo, il deserto, e un tempo, quello della conversione, per cogliere la presenza di Dio nella storia dei popoli e nella vita di ogni uomo. “Chiediamo la grazia di credere che con Dio le cose cambiano, che Lui guarisce le nostre paure, risana le nostre ferite, trasforma i luoghi aridi in sorgenti d’acqua”.
In questa seconda Domenica di Avvento la Parola di Dio ci presenta la figura di San Giovanni Battista. Il Vangelo ne sottolinea due aspetti: il luogo dove si trova, il deserto, e il contenuto del suo messaggio, la conversione. Deserto e conversione: su questo insiste il Vangelo di oggi e tanta insistenza ci fa capire che queste parole ci riguardano direttamente. Accogliamole entrambe.
Il deserto. L’evangelista Luca introduce questo luogo in un modo particolare. Parla infatti di circostanze solenni e di grandi personaggi del tempo: cita il quindicesimo anno dell’imperatore Tiberio Cesare, il governatore Ponzio Pilato, il re Erode e altri “leader politici” di allora; poi menziona quelli religiosi, Anna e Caifa, che stavano presso il Tempio di Gerusalemme (cfr Lc 3,1-2). A questo punto dichiara: «La parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,2). Ma come? Ci saremmo aspettati che la Parola di Dio si rivolgesse a uno dei grandi appena elencati. E invece no. Dalle righe del Vangelo emerge una sottile ironia: dai piani alti dove dimorano i detentori del potere si passa improvvisamente al deserto, a un uomo sconosciuto e solitario. Dio sorprende, le sue scelte sorprendono: non rientrano nelle previsioni umane, non seguono la potenza e la grandezza che l’uomo abitualmente gli associa. Il Signore predilige la piccolezza e l’umiltà. La redenzione non inizia a Gerusalemme, ad Atene o a Roma, ma nel deserto. Questa strategia paradossale ci dona un messaggio molto bello: avere autorità, essere colti e famosi non è una garanzia per piacere a Dio; anzi, potrebbe indurre a insuperbirsi e a respingerlo. Serve invece essere poveri dentro, come povero è il deserto.
Restiamo sul paradosso del deserto. Il Precursore prepara la venuta di Cristo in questo luogo impervio e inospitale, pieno di pericoli. Ora, se uno vuole dare un annuncio importante, di solito va in posti belli, dove c’è tanta gente, dove c’è visibilità. Giovanni invece predica nel deserto. Proprio lì, nel luogo dell’aridità, in quello spazio vuoto che si stende a perdita d’occhio e dove quasi non c’è vita, lì si rivela la gloria del Signore, che – come profetizzano le Scritture (cfr Is 40,3-4) – cambia il deserto in un lago, la terra arida in sorgenti d’acqua (cfr Is 41,18). Ecco un altro messaggio rincuorante: Dio, adesso come allora, volge lo sguardo dove dominano tristezza e solitudine. Possiamo sperimentarlo nella vita: Egli spesso non riesce a raggiungerci mentre siamo tra gli applausi e pensiamo solo a noi stessi; ci riesce soprattutto nelle ore della prova. Ci visita nelle situazioni difficili, nei nostri vuoti che gli lasciano spazio, nei nostri deserti esistenziali. Lì ci visita il Signore.
Cari fratelli e sorelle, nella vita di una persona o di un popolo non mancano momenti in cui si ha l’impressione di trovarsi in un deserto. Ed ecco che proprio lì si fa presente il Signore, il quale spesso non viene accolto da chi si sente riuscito, ma da chi sente di non farcela. E viene con parole di vicinanza, compassione e tenerezza: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto» (v. 10). Predicando nel deserto, Giovanni ci assicura che il Signore viene a liberarci e a ridarci vita proprio nelle situazioni che sembrano irredimibili, senza vie d’uscita: lì viene. Non c’è dunque luogo che Dio non voglia visitare. E oggi non possiamo che provare gioia nel vederlo scegliere il deserto, per raggiungerci nella nostra piccolezza che ama e nella nostra aridità che vuole dissetare! Allora, carissimi, non temete la piccolezza, perché la questione non è essere piccoli e pochi, ma aprirsi a Dio e agli altri. E non temete nemmeno le aridità, perché non le teme Dio, che lì viene a visitarci!
Passiamo al secondo aspetto, la conversione. Il Battista la predicava senza sosta e con toni veementi (cfr Lc 3,7). Anche questa è una tematica “scomoda”. Come il deserto non è il primo luogo nel quale vorremmo andare, così l’invito alla conversione non è certamente la prima proposta che vorremmo sentire. Parlare di conversione può suscitare tristezza; ci sembra difficile da conciliare con il Vangelo della gioia. Ma questo succede quando la conversione viene ridotta a uno sforzo morale, quasi fosse solo un frutto del nostro impegno. Il problema sta proprio qui, nel basare tutto sulle nostre forze. Questo non va! Qui si annidano pure la tristezza spirituale e la frustrazione: vorremmo convertirci, essere migliori, superare i nostri difetti, cambiare, ma sentiamo di non esserne pienamente in grado e, nonostante la buona volontà, ricadiamo sempre. Proviamo la stessa esperienza di San Paolo che, proprio da queste terre, scriveva: «In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,18-19). Se dunque, da soli, non abbiamo la capacità di fare il bene che vorremmo, che cosa significa che dobbiamo convertirci?
Ci può venire in aiuto la vostra bella lingua, il greco, con l’etimologia del verbo evangelico “convertirsi”, metanoéin. È composto dalla preposizione metá, che qui significa oltre, e dal verbo noéin, che vuol dire pensare. Convertirsi è allora pensare oltre, cioè andare oltre il modo abituale di pensare, al di là dei nostri soliti schemi mentali. Penso proprio agli schemi che riducono tutto al nostro io, alla nostra pretesa di autosufficienza. O a quelli chiusi dalla rigidità e dalla paura che paralizzano, dalla tentazione del “si è sempre fatto così, perché cambiare?”, dall’idea che i deserti della vita siano luoghi di morte e non della presenza di Dio.
Esortandoci alla conversione, Giovanni ci invita ad andare oltre e a non fermarci qui; ad andare al di là di quello che i nostri istinti ci dicono e i nostri pensieri fotografano, perché la realtà è più grande: è più grande dei nostri istinti, dei nostri pensieri. La realtà è che Dio è più grande. Convertirsi, allora, significa non dare ascolto a ciò che affossa la speranza, a chi ripete che nella vita non cambierà mai nulla – i pessimisti di sempre. È rifiutare di credere che siamo destinati ad affondare nelle sabbie mobili della mediocrità. È non arrendersi ai fantasmi interiori, che si presentano soprattutto nei momenti di prova per scoraggiarci e dirci che non ce la faremo, che tutto va male e che diventare santi non fa per noi. Non è così, perché c’è Dio. Bisogna fidarsi di Lui, perché è Lui il nostro oltre, la nostra forza. Tutto cambia se si lascia a Lui il primo posto. Ecco la conversione: al Signore basta la nostra porta aperta per entrare e fare meraviglie, come gli sono bastati un deserto e le parole di Giovanni per venire nel mondo. Non chiede di più.
Chiediamo la grazia di credere che con Dio le cose cambiano, che Lui guarisce le nostre paure, risana le nostre ferite, trasforma i luoghi aridi in sorgenti d’acqua. Chiediamo la grazia della speranza. Perché è la speranza che rianima la fede e riaccende la carità. Perché è di speranza che i deserti del mondo sono assetati oggi. E mentre questo nostro incontro ci rinnova nella speranza e nella gioia di Gesù, e io gioisco stando con voi, chiediamo alla nostra Madre, la Tuttasanta, che ci aiuti a essere, come lei, testimoni di speranza, seminatori di gioia intorno a noi – la speranza, fratelli e sorelle, non delude, non delude mai –. Non solo quando siamo contenti e stiamo insieme, ma ogni giorno, nei deserti che abitiamo. Perché è lì che, con la grazia di Dio, la nostra vita è chiamata a convertirsi. Lì, nei tanti deserti nostri interni o dell’ambiente, lì la vita è chiamata a fiorire. Che il Signore ci dia la grazia e il coraggio di accogliere questa verità.