Il terremoto del Belice del 14 Gennaio 1968

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Belice – 53 anni fa il drammatico terremoto che sconvolse il Belice. Il sisma colpì con numerose e violente scosse una vasta area della Sicilia occidentale compresa tra le province di Agrigento, Palermo e Trapani: un’area ritenuta non sismica dalle conoscenze scientifiche del tempo. Nel breve volgere di dieci giorni furono distrutte 9.000 case, numerose antiche chiese, vetusti palazzi e castelli. Si contarono alcune centinaia di vittime e oltre 100.000 senzatetto, 12.000 dei quali emigrarono quasi subito verso l’Italia del nord. Contrasti istituzionali, una gestione delle risorse non controllata, denunce e conflitti resero difficile e lenta l’opera di ricostruzione. Errori, speculazioni, ma anche idee e preziosità si alternano in questa grande opera di recupero, non ancora conclusa dopo ormai cinquanta anni.
La sequenza sismica iniziò nel pomeriggio del 14 gennaio 1968 con una prima forte scossa alle ore 13:28 locali, che causò danni notevoli a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale, nonché lesioni in alcuni edifici a Santa Margherita di Belice, Menfi, Roccamena e Camporeale. Meno di un’ora dopo, alle 14:15, nelle stesse località ci fu un’altra scossa molto forte, sentita anche a Palermo, Trapani e Sciacca. Due ore e mezza più tardi, alle 16:48, ci fu una terza scossa, che causò danni gravi a Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice e Santa Ninfa. Lesioni di varia entità si aprirono in molti edifici di Alcamo, Calatafimi, Camporeale, Corleone e Roccamena; a Palermo ci furono danni in edifici di vecchia costruzione. A Gibellina e Salaparuta, in particolare, tutte le scosse precedenti quella più violenta – che accadde il giorno dopo – causarono serie lesioni e compromisero la stabilità degli edifici. Dopo queste prime scosse, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca comandante dei Carabinieri di Palermo, visitando nel pomeriggio del 14 gennaio i centri più colpiti, raccomandò alla popolazione di pernottare all’aperto. Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, alle ore 2:33 locali, una scossa molto violenta causò gravissimi danni e il crollo di alcuni edifici a Poggioreale, Gibellina, Salaparuta, Montevago e Santa Margherita di Belice; fu fortissima a Contessa Entellina e a Corleone, dove causò danni rilevanti, e fu sentita molto forte a Palermo, a Trapani e in tutta la Sicilia occidentale e centrale, compresa l’isola di Pantelleria.
La scossa più forte dell’intera sequenza avvenne poco dopo, alle ore 3:01, ed ebbe effetti disastrosi: crolli e distruzioni diffuse in un numero di località ben superiore a quello delle località già menzionate. Frequentissime e forti repliche non diedero tregua. I morti accertati ufficialmente furono complessivamente 231 e i feriti oltre 600. Fonti indipendenti ritennero, tuttavia, che il bilancio delle vittime fosse molto più alto: oltre 400 morti e più di 1.000 ferit.
Il numero relativamente contenuto delle vittime, se paragonato all’enorme portata delle distruzioni, fu dovuto principalmente all’allerta lanciato dal generale Dalla Chiesa. Quasi tutta la zona collinare della Sicilia sud occidentale – circa 6.200 km2 – fu coinvolta nella disastrosa sequenza sismica del gennaio 1968. L’area dei massimi effetti fu localizzata nel medio e basso bacino del fiume Belice: includeva 12 comuni delle province di Trapani, Agrigento e Palermo, per una superficie di circa mille km2. Questo territorio non figurava allora tra quelli considerati a rischio sismico.
I paesi di Gibellina, Poggioreale e Salaparuta, in provincia di Trapani, e Montevago, in provincia di Agrigento, furono quasi totalmente rasi al suolo, con effetti valutati di grado X MCS. A Gibellina fu distrutto quasi il 100% delle unità immobiliari, pari a 1.980 edifici. Anche a Poggioreale e a Salaparuta fu distrutto il 100% del patrimonio immobiliare, rispettivamente formato da 993 edifici e a circa mille edifici. A Montevago fu distrutto il 99% delle unità immobiliari e fu danneggiato gravemente l’1% rimanente, su un totale di 1.393 edifici. In tutti questi paesi i pochi muri ancora rimasti in piedi crollarono completamente in seguito alla fortissima replica del 25 gennaio, alle ore 10:56 locali. Dopo questa nuova scossa rovinosa, che causò qualche altra vittima, fu proibito l’ingresso nei paesi di Gibellina, Montevago e Salaparuta.


Gravi distruzioni, con dissesti e crolli diffusi, colpirono i paesi e i territori comunali di Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa, Partanna e Salemi, a cui è stato assegnato il grado VIII-IX o IX MCS. Santa Margherita di Belice aveva 3.646 edifici: le scosse distrussero il 70-80% delle unità immobiliari e lesionarono leggermente le rimanenti. Gravi lesioni danneggiarono anche il palazzo Filangeri di Cutò e la chiesa madre. La replica del 25 gennaio fece crollare un’altra decina di case.
Santa Ninfa aveva 1.928 edifici: ne fu distrutto più del 43%; il 47% fu danneggiato gravemente e solo il 9% risultò lesionato in modo più leggero. La replica del 25 gennaio causò nuovi, gravi danni agli edifici. Partanna aveva 4.345 unità immobiliari: il 30% fu completamente distrutto, il 42% danneggiato gravemente, il 19% lesionato. La replica del 25 gennaio causò il crollo di numerosi edifici.
A Salemi, su 4.402 edifici il 24% fu distrutto, il 45% danneggiato gravemente e il 29% lesionato leggermente. La replica del 25 gennaio causò il crollo di una delle torri del castello di Federico II e danneggiò la chiesa madre, la Biblioteca Civica e il Museo del Risorgimento; crollò anche il ponte della strada per Agrigento. Nelle campagne di questi comuni andarono distrutte anche molte costruzioni rurali. Oltre una decina di altre località subirono crolli totali più limitati, ma danni ingenti, gravi dissesti e crolli parziali estesi a parte del patrimonio edilizio (grado VIII MCS o appena inferiore).
Menfi aveva 5.978 edifici: la scossa fu rovinosa e danneggiò gravemente il 40-50% delle unità immobiliari, lesionandone lievemente una percentuale analoga. Gravi lesioni si aprirono nel castello medievale, in alcune chiese e nell’ospedale. La replica del 25 gennaio causò nuovi crolli. Nel comune di Vita, su un totale di 1.446 edifici, quelli distrutti furono il 10%, il 15% fu danneggiato gravemente e il 16% circa lesionato in modo leggero; si aprirono lesioni anche nei muri della chiesa madre, che crollò definitivamente con la replica del 25 gennaio.
Danni gravi ed estesi furono rilevati a Camporeale, Contessa Entellina e San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo; a Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento; ad Alcamo, Campobello di Mazara, Castellammare del Golfo e frazione di Castello Inici, Castelvetrano e Gallitello Stazione, frazione del comune di Calatafimi. Interruzioni delle linee ferroviarie furono rilevate tra Castelvetrano e Alcamo, e tra Castelvetrano e Salaparuta, dove al Km 29 crollò parzialmente una galleria.
In quasi cinquanta altre località, tra cui Mazara del Vallo, Corleone, Marsala, Sciacca e la stessa Palermo, le distruzioni e i crolli furono pochi, ma una parte consistente del patrimonio edilizio riportò comunque danni (effetti di grado VI-VII e VII MCS). In decine di altre località, incluse Agrigento e Trapani, ci furono danni leggeri.
La scossa principale del 15 gennaio 1968 fu avvertita in quasi tutta la Sicilia, fino a Catania, Messina e Milazzo; fu seguita da una lunga serie di repliche, alcune delle quali molto forti, che si protrassero sino al febbraio del 1969. Le relazioni scientifiche e gli studi sugli effetti di questo terremoto, svolte da ingegneri, geologi e sismologi, concordarono nell’assegnare alle scadenti condizioni in cui si trovava gran parte del patrimonio edilizio un ruolo importante nella definizione qualitativa e quantitativa dei danni. Ancora una volta era sotto accusa l’edilizia tradizionale, priva di regole, realizzata male e ancor peggio mantenuta. La pessima esecuzione delle murature, tenute assieme con malte di scarsa qualità, l’assenza o l’insufficienza delle fondazioni e la presenza di tetti spingenti mal raccordati con le pareti esterne furono tutti fattori che contribuirono in larga misura a rendere catastrofici gli effetti delle scosse su edifici deboli e sostanzialmente fragili. A questi elementi macroscopici si aggiunsero i risultati delle prove di laboratorio relative al comportamento meccanico dei materiali da costruzione maggiormente impiegati nell’area danneggiata: i blocchi di tufo, tagliati con specifiche misure secondo l’uso della zona, e le malte dimostrarono, in generale, una scarsissima resistenza alle sollecitazioni sismiche.

Dalle indagini sul campo emerse che i pochi edifici correttamente costruiti con strutture di cemento armato avevano superato quasi indenni l’impatto delle scosse persino nell’area dei massimi effetti; infatti gli edifici ben costruiti furono esenti da danni, ma erano una minoranza. L’edilizia prevalente nei paesi distrutti era il risultato di un contesto economico povero, in cui l’agricoltura diffusa era condotta con metodi non intensivi e quasi arcaici, in piccoli appezzamenti familiari. L’economia monetaria era scarsa, i mercati scoraggiati da una pessima viabilità, e a fronte di tutto questo vi era un costo elevato dei materiali da costruzione di buona qualità, difficili da reperire sul posto.
In tutta l’area, che come si è detto all’epoca non era ritenuta a rischio sismico, non erano state adottate misure di sicurezza e di prevenzione, benché, come si ricorderà, la legge del 1935 richiedesse criteri edilizi “moderni” per tutti gli edifici costruiti sul territorio nazionale. Due anni dopo, nel 1970, l’avvio istituzionale delle amministrazioni regionali previste dalla Costituzione delegò alle singole regioni il controllo per l’applicazione delle norme di sicurezza.
A seguito del terremoto si attivarono frane e si aprirono spaccature nel terreno, spesso accompagnate da fuoriuscita di fango e, in taluni casi, da esalazioni gassose. Furono rilevate anche variazioni nel regime delle acque sotterranee. La maggioranza degli effetti fu osservata nelle zone di Gibellina, Montevago, Partanna, Camporeale, Contessa Entellina e Bisacquino. Le frane per crollo direttamente innescate dalle scosse furono di portata limitata e per lo più peggiorarono situazioni di instabilità preesistenti. Alcune frane interruppero le strade che portavano ad Agrigento e a Sciacca, rallentando l’arrivo degli aiuti. Nei terreni circostanti le Terme di Segesta scaturirono nuove sorgenti di acqua calda, alcune delle quali furono temporanee e di breve durata; due sorgenti preesistenti aumentarono la loro portata.
La forte replica delle ore 17:43 del 16 gennaio fu avvertita anche in mare da un peschereccio di Sciacca, in navigazione nel Canale di Sicilia a una decina di chilometri dalla costa. I pescatori dichiararono che nell’istante della scossa un movimento vorticoso delle acque del mare aveva reso loro impossibile governare la barca.
Il terremoto interessò complessivamente un’area di circa 5.500 km2, popolata da oltre 1.300.000 persone, comprendente anche le aree urbane di Palermo, Trapani, Mazara del Vallo e Marsala. L’area più colpita era nell’entroterra collinare della Sicilia sud-occidentale, che all’epoca presentava, in parte, i caratteri tipici di una regione marginale nell’economia e nella vita sociale sia regionali sia nazionali. La base produttiva di quest’area, essenzialmente agricola (più della metà della popolazione attiva era impiegata nell’agricoltura), comprendeva zone caratterizzate da sistemi di conduzione e assetti quasi arcaici e zone dove prevaleva la viticoltura specializzata. Quest’ultime erano collegate ad alcune infrastrutture agro-industriali. Notevoli furono i danni nel settore viticolo, che rappresentava un elemento trainante dello sviluppo economico della regione e una notevole fonte di reddito. I contadini erano per lo più residenti nei vecchi paesi collinari e non abitavano che in minima parte sui fondi agricoli. Oltre alle abitazioni e agli edifici rurali di servizio, il terremoto distrusse anche molte infrastrutture e uccise numerosi capi di bestiame. Le stime dei danni elaborate dal governo, rese note prima della rovinosa replica del 25 gennaio, indicarono in 200 miliardi di lire le spese necessarie per riparare i danni. La stessa fonte governativa stimò in 5.200 gli alloggi completamente distrutti nella sola provincia di Trapani; questa cifra saliva a circa 9.000 per tutta l’area danneggiata. Complessivamente la popolazione rimasta senzatetto fu di circa 100.000 unità, delle quali 20.000 nella sola provincia di Agrigento.
Il terremoto causò gravi danni anche alle attività commerciali: circa 500 commercianti residenti nell’area danneggiata ebbero gli esercizi distrutti e 3.000 aziende commerciali siciliane videro diminuire notevolmente il loro giro d’affari. L’attività commerciale e industriale fu particolarmente colpita nell’agrigentino, area che non si era ancora ripresa dai disastrosi eventi franosi che avevano colpito il capoluogo il 19 luglio 1966.
Al sopraggiungere delle due violente scosse della notte del 15 gennaio la popolazione di una vasta area della Sicilia occidentale abbandonò le abitazioni rifugiandosi nei luoghi aperti e pernottando all’addiaccio o nelle automobili. Nei maggiori centri urbani, soprattutto a Palermo e a Trapani, ci furono scene di panico ed ingorghi stradali. Migliaia di persone, nelle più popolose città, abbandonarono le case ed i loro posti di lavoro causando la paralisi dei servizi e delle attività economiche. La scossa del 15 gennaio e la forte replica del 25 causarono molto panico anche ad Agrigento, dove la popolazione abbandonò le abitazioni per trascorrere diverse notti all’aperto nella Valle dei Templi. Le condizioni delle popolazioni colpite si presentarono subito estremamente precarie e furono aggravate anche dalla lentezza e della disorganizzazione dei primi soccorsi. La scossa principale aveva gravemente danneggiato, fra l’altro, anche la rete di erogazione elettrica. In alcuni centri gravemente colpiti, secondo la stampa siciliana, per tutta la giornata seguente alla scossa principale la popolazione non ricevette alcun soccorso organizzato; molte persone, fuggite dai paesi, vagarono per ore nelle campagne circostanti. Per parecchi giorni molte famiglie rifugiatesi in piena campagna, nei pressi delle case coloniche e lontano dalle tendopoli, non ricevettero che aiuti sporadici.
Nelle tendopoli le condizioni igienico-sanitarie si fecero molto serie e i problemi di sovraffollamento nelle tende, abitate in media da 28-30 persone a fronte di una capienza prevista di 10 unità, erano gravi. Molte furono le morti causate dall’insorgere di malattie polmonari; gli sfollati dai centri danneggiati preferivano alloggiare in condizioni di sovraffollamento piuttosto che separare il nucleo familiare o abbandonare i propri averi trasferendosi negli alloggi requisiti in località distanti.
A Palermo il panico generato dal terremoto fu enorme; nella serata del giorno 15 si svolsero processioni nelle strade dei rioni maggiormente danneggiati; riti religiosi furono indetti anche in altre località della Sicilia occidentale nei giorni successivi all’evento principale. Il succedersi delle scosse alimentò una costante paura di vivere in edifici in muratura lesionati. La scarsa organizzazione dei soccorsi e il proliferare di interventi di beneficenza non coordinati costituirono un altro fattore di limitazione dei trasferimenti dalle tendopoli ed alimentarono episodi di accaparramento, spesso ad opera di individui provenienti da località non danneggiate. Non mancarono episodi di speculazione e strozzinaggio sugli averi delle popolazioni scampate che, viste le impellenti necessità, erano costrette a vendere sottocosto bestiame e beni vari, spesso per procurarsi il denaro necessario per abbandonare definitivamente il luogo d’origine. A due settimane dal terremoto del 15 gennaio, secondo le dichiarazioni dei sindaci dei paesi sinistrati, mancavano viveri, tende, medicinali, e le baracche che erano già state costruite erano insufficienti. Pane e acqua scarseggiarono fin dai primi giorni nelle tendopoli e in alcune località solo parzialmente danneggiate. Oltre ai medicinali mancavano le attrezzature, il sangue e persino le maschere per proteggere i soccorritori dalle esalazioni dei cadaveri e delle carogne di animali in via di decomposizione.


Le prime autocolonne di soccorsi partite da Agrigento e da Sciacca furono ostacolate dalle interruzioni di alcune strade causate da frane e crolli di ponti in seguito alle scosse. Tra le località maggiormente danneggiate furono predisposti dei ponti aerei con l’ausilio degli elicotteri dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. Per ordine del Ministro dell’Interno, il Prefetto di Agrigento decretò la requisizione di tutti gli automezzi e autotrasporti disponibili.
Nei giorni immediatamente successivi al terremoto tutti gli organi di stampa posero unanimemente l’accento sulla mancanza di qualsiasi piano d’intervento. Alcuni opinionisti evidenziarono le ricorrenti sovrapposizioni di competenze e i conflitti, o le competizioni incomprensibili tra le autorità civili e quelle militari, o tra esponenti del governo regionale e funzionari del governo nazionale, nell’organizzare l’opera di soccorso. Le disfunzioni ebbero conseguenze gravi: quantità enormi di generi alimentari ed attrezzature di soccorso furono concentrate dove non vi erano particolari bisogni, mentre dalle località più colpite si levavano drammatiche richieste di invio di soccorsi e materiali. Le disfunzioni e i ritardi ebbero tuttavia il merito di offrire lo spunto per avviare sulla stampa nazionale un vasto dibattito sulla legge di riordino del settore della protezione civile, la cui discussione era bloccata in Parlamento per contrasti fra diversi gruppi politici.
A dieci giorni dalla violenta scossa del 15 gennaio erano state impiantate 11 tendopoli, che accoglievano più di 16.000 persone: circa 9.500 in provincia di Trapani, 4.000 nella provincia di Agrigento e 2.600 in quella di Palermo. Gli sfollati ricoverati nei centri di raccolta (scuole, alberghi, edifici pubblici e case private) erano, alla stessa data, 10.650 in provincia di Trapani e 3.050 in quella di Palermo, per un totale di quasi 14.000 persone. Molti posti letto in edifici in muratura, messi a disposizione delle autorità, non potevano essere utilizzati perché mancavano i materassi. La situazione di disorganizzazione causò proteste sia in Sicilia sia a Roma, e vari episodi di intolleranza. A Palermo le scosse del 15 e del 25 gennaio resero drammatico il problema delle abitazioni per gli sfollati dai fatiscenti quartieri del centro storico, che avevano largamente risentito degli effetti sismici.
Verso la fine di gennaio 1968 i medici presenti nella zona terremotata dichiararono a più riprese sulla stampa nazionale che le tendopoli dovevano essere al più presto smontate, per evitare che le precarie condizioni igieniche, unite all’inclemenza della stagione invernale, causassero l’insorgere di epidemie e la morte degli individui più deboli. Se ai dati relativi alla popolazione nelle tendopoli e nei centri di raccolta si aggiunge il numero di coloro che se ne erano andati – circa 10.000 persone – si ha un totale di circa 40.000 individui che avevano perso la residenza, su di un totale di 80.000 residenti nelle aree maggiormente danneggiate.
I vecchi paesi distrutti della valle del Belice sono in gran parte ancora visibili, come cicatrici su quel bellissimo e fertile territorio. Rappresentano oggi quel paesaggio delle rovine che segna spesso il centro e il sud dell’Italia e di altri paesi del Mediterraneo. Qui le rovine sono presenti da tempo immemorabile, testimonianze di civiltà scomparse o di paesi abbandonati anche di recente. Gli abitanti le tollerano da sempre e ci convivono. Le rovine diventano un veicolo di memoria, un segno di radici, che il disuso dei luoghi non sempre cancella. In alcuni paesi ricostruiti del Belice, in quelli che hanno vicinanza stretta con i vecchi siti abbandonati, sono stati allestiti in anni recenti dei percorsi pedonali definiti “della memoria”, portandovi illuminazione pubblica e panchine, come se fossero un parco dei ricordi o dei ponti verso il passato. In questi luoghi, che solo il nostro profondo sud sa concepire, si comunica con la storia del posto, con i resti di vecchie case squarciate, con un passato che la cultura diffusa del Paese stenta a ricordare. In queste strani percorsi si distinguono qua e là fra le macerie eleganti portoncini, fini modanature architettoniche, assieme a poveri muri semicrollati fatti di ciottoli, che lasciano intravvedere misere stanzette. Le tracce di grandi fatiche della sopravvivenza e di piccoli o grandi privilegi o soprusi sociali emergono nello stesso modo dal loro azzeramento.




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